domenica 6 marzo 2016

Il giochino postmoderno di riscrivere i romanzi da punti di vista alternativi ha rotto

Anche Camilleri si sta cimentando in un genere letterario che assume il punto di vista dei senza parola. Perché, come dice l’algerino Kamel Daoud, che ha scritto il sequel dello “Straniero” di Camus, la voce dell’arabo ucciso non l’abbiamo mai sentita Solo la letteratura può ridare fiato alla giustizia, “non quella dei tribunali ma quella degli equilibri” E la poesia non ammette rancore, solo salvezza

Dalla parte sbagliata 
La versione dell’ebreo Shylock, del selvaggio Venerdì, del Gatto e della Volpe... Ecco come cambiano le storie se le raccontano i comprimari

SIMONETTA FIORI Restampa 6 3 2016
Che cosa succede nel palcoscenico della letteratura? Sembra che un regista giustiziere abbia deciso di mettere mano alle storie, spingendo sul proscenio le comparse — quelle abituate alle panchine del backstage — oppure proiettando una luce diversa sulle figure malefiche, finalmente liberate da un ruolo ingrato. La confusione regna sovrana, come quando si cambia un copione vecchio di secoli. Shylock ha gettato via i panni gretti dell’usuraio per diventare un intellettuale ebreo del XXI secolo, capolavoro di humour contro l’antisemitismo dilagante. E quel ragazzo che entra in scena si chiama Moussa, un tipo inquieto cresciuto nei quartieri poveri di Algeri: e dire che Camus se l’era dimenticato morto ammazzato su una spiaggia, senza dargli un nome e soprattutto senza dargli un’anima. L’Arabo, e basta. Là vicino c’è Venerdì, abituato da trecento anni a fare il buon selvaggio. Finalmente ci mostra la sua lingua mozzata, come a dire: guardate che se finora ve l’hanno raccontata in quel modo è perché io non avevo la possibilità di parlare. Muto. Senza voce.
E forse da qui bisogna partire. Da chi nel canone occidentale non ha avuto diritto di parola. O dai personaggi maltrattati, sia perché rimossi in una caligine indistinta che tutto opacizza sia perché bersagli del pregiudizio deformante, prigionieri per sempre nella gabbia del male. Tutti comunque vittime di uno sguardo che è proiezione culturale, destinata a cambiare a seconda della latitudine e del tempo storico. E nel mondo globale di oggi che sposta i confini della geografia e della storia anche i caratteri universali dei classici sono soggetti a imprevisti smottamenti.
Se dunque la letteratura è per sua natura continua riscrittura, appare oggi crescente il fenomeno del “retelling” riequilibrante, la reinvenzione delle storie da parte degli esclusi e degli incompresi. Fenomeno certo favorito dalla perdita di carisma dell’autore, deposto dal trono di artista e sempre più ridotto a ispiratore di trame. Tecnicamente si chiama “spin off”: è il derivato narrativo, il testo sviluppato da un’opera che precede. Il romanzo appartiene a chi lo legge, ha sentenziato Pennac. E il lettore può farne ciò che vuole, specie se a favore dei perdenti.
La rivoluzione può consistere in un riscatto morale, come è capitato allo Shylock ridisegnato da Howard Jacobson, un commediografo britannico che vanta antica dimestichezza con il Bardo. Forse è anche per questo che nel suo Shylock Is My Name, uscito ora da Penguin e annunciato giugno da Rizzoli, si è permesso di riambientare allegramente la dark comedy shakespeariana nel triangolo d’oro di Ceshire, tra divette del reality (Porzia), importatori malinconici di fermacarte (Antonio trasformato in D’Anton) e giocatori di calcio che fanno il saluto nazista in campo (Graziano). Un’umanità perduta e profondamente antisemita osservata con lo sguardo acuto di Shylock, che qui gioca il ruolo di coscienza critica. E se Il Mercante di Venezia fu usato dissennatamente dal nazismo — al di là delle intenzioni dell’autore — la reinvenzione di Jacobson punta a denunciare fermenti e stereotipi antisemiti, nascosti nel ventre della società britannica, e non solo.
La riscrittura ha quasi sempre un tratto revanchista, come accade anche nella storiografia. Però a differenza delle storie dei vinti, la letteratura non conosce il sapore acidulo del piagnisteo, riscattato dalla potenza del mezzo letterario. Per questa ragione Kamel Daoud, il prosecutore algerino di Camus, rifiuta l’idea di un regolamento di conti. In questa chiave potrebbe essere letto Il Caso Meursault (Bompiani), la riscrittura dello Straniero dalla parte dell’Arabo, ossia del personaggio «creato solo perché si prendesse un proiettile in corpo e se ne tornasse nella polvere ». Un’ombra privata del nome, di un’identità, e anche della sua stessa morte, sovrastata dal destino dannato di Meursault. Per cinquant’anni non ci siamo chiesti chi fosse quel cadavere crivellato di colpi. Finché Daoud non ha dato voce al fratello di Moussa, l’arabo dimenticato. Ma ha potuto farlo solo dopo aver imparato la lingua di Camus, ovvero l’arte della poesia, «una lingua nitida, cesellata dal chiarore del mattino, precisa e pulita, delineata a suon di profumi e di orizzonti». Solo la letteratura può ridare fiato alla giustizia, «non quella dei tribunali ma la giustizia degli equilibri», come scrive Daoud. E la poesia non ammette rancore, solo salvezza.
Quella del narrare è un’arte mistificatoria, «ma necessaria per dare un senso alla vita, altrimenti condannata a muta insignificanza ». È lo stesso messaggio lanciato dal Nobel J. M. Coetzee, il pioniere della riscrittura anticoloniale. È stato lui a restituire una dignità severa al povero Venerdì, che nell’originale è un puro accidente né più né meno dell’arabo trovato sulla spiaggia. Nel suo Foe lo schiavo negro ritrova la sua identità di sudafricano, piccolo e gracile, lontano dalla prestanza caraibica del predecessore. E soprattutto è un servo muto, silenzioso come un pesce, anzi come uno a cui è stata tagliata la lingua, non sappiamo se dai mercanti schiavisti o dallo stesso Crusoe. Un’afasia insopportabile per le orecchie sensibili di Susan Barton, la naufraga inventata da Coetzee, che implora lo scrittore Foe divenuto personaggio perché racconti la loro storia, soprattutto la storia di chi ha perso le parole. Ma alla fine vince il silenzio di Venerdì, la sua unica arma contro la prepotenza dei dominatori.
Nell’isola rivisitata da Coetzee non c’è riscatto soltanto per lo schiavo negro. Per la prima volta vi compare una figura femminile, la progressista Susan, impensabile nel capolavoro di Defoe. Altro grande escluso dal canone patriarcale sono le donne, talvolta costrette a ruoli marginali. In questa “sfida di genere” una maestra è Margaret Atwood che nel suo Canto di Penelope orienta un fascio di luce sulla sposa di Ulisse: che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle (le dodici amanti dei pretendenti di Penelope)? E cosa c’era davvero nella mente della nostra eroina? Tra raggiri e fughe, l’insigne marito non ne esce un granché.
Se poi apriamo la porta dell’immaginario per ragazzi, soprattutto quello cinematografico, possiamo vedere di tutto: Malefica con la bella faccia di Angelina Jolie e il lupo di Cappuccetto Rosso ridotto a povera bestia vessata da una ragazzina viziata. Ma qui siamo lontani dal politicamente corretto o dal revanscismo anticoloniale, piuttosto nel carnevale del rovesciamento che tutto sovverte e dunque diverte. E chissà cosa verrà fuori dal Pinocchio che Camilleri sta riscrivendo per Giunti. Le voci narranti sono quelle del Gatto e della Volpe, che finalmente potranno vuotare il sacco. E appendere quel moccioso di Pinocchio al chiodo del backstage: per una volta la scena è soltanto loro. E nessuno potrà portargliela via, neppure i carabinieri a cavallo.


L’insostenibile differenza tra l’eroe e il cattivo 
GIANCARLO DE CATALDO
Uno spettro si aggira nel dibattito sulle narrazioni. Lo spettro dell’eroe negativo. I grandi malvagi diventano protagonisti delle storie. La loro voce ruba la scena ai buoni, e investe l’audience di messaggi negativi. Ora, se si pone in dubbio la legittimità di raccontare i malvagi, le critiche vanno rispedite al mittente. «C’è solo una storia. La più antica. La luce contro l’oscurità», dice in uno dei suoi dialoghi metafisici Rust Cohle, il tormentato investigatore-filosofo di True Detective.
Il Bene e il Male sono i due eterni poli attorno ai quali si sviluppa ogni forma narrata, a partire dai miti classici. Siamo tutti figli di Caino, il sopravvissuto. L’atto fondativo, cruento, che contrassegna la nostra appartenenza al genere umano, ce lo portiamo dentro sin dalla notte dei tempi. La “voce del cattivo” è nel nostro Dna, e ci rincorre, come una presenza ossessiva: inutile dilungarsi sugli esempi, da Riccardo III a Stavrogin. Non esiste storia che possa essere raccontata a prescindere dal suo lato oscuro.
Ideare un personaggio negativo, poi, è per uno scrittore un piacere sublime. Non foss’altro perché il malvagio può farsi portatore di una visione del mondo che viene considerata, di volta in volta, inaccettabile, criminale, oltraggiosa. Lo spazio narrativo rappresenta, dunque, per l’autore, una terra senza confini dove ogni sovversione è lecita, dove la voce del Male è libera di irrompere esprimendo un punto di vista dissenziente, sconvolgendo l’ordine naturale delle cose, segnalando le aporie insanabili della nostra condizione umana. E tuttavia, i pensieri del villain, le sue azioni, le turpitudini di cui si macchia, la sua visione del mondo non necessariamente per la verità, quasi mai - coincidono con il sentire di chi l’ha creato e gli ha conferito dignità narrativa.
Basterebbe un po’ d’intelligenza per arrivarci. O basterebbe tenere ben presente la distinzione fra etica ed estetica: ci saremmo risparmiati i processi ai vari Flaubert, Baudelaire, Genet, Bertolucci e Pasolini. Ma se si abbandona il discutibile profilo etico, le critiche sull’inversione dei ruoli fra il buono e il cattivo hanno qualche fondamento. Intendiamoci: l’eroe positivo e quello negativo sono due facce della stessa luna. Lo notava già nel 1909 lo psicanalista Otto Rank nel saggio Il mito della nascita dell’eroe. Rank tracciava un parallelismo fra l’eroe e l’anarchico: entrambi uccidono un re, ma il primo è, appunto, eroe, l’altro delinquente politico. Eppure, entrambi, notava Rank, si macchiano della stessa colpa per i medesimi fini: riconquistare il ruolo sociale che sentono essergli stato sottratto (in termini freudiani, affrancarsi dal padre). Dove sta la differenza? Per Rank, nella necessità dell’impresa: l’eroe deve uccidere, perché è nel giusto, e dunque viene approvato e lodato da tutti; il criminale sposta l’odio verso il padre contro “chi comanda”, e l’ordine lo reprime. Se una volta comandavano i re, oggi, in un tempo di poteri diffusi e incontrollati, “chi comanda” può essere la multinazionale di turno, il capo che mi ha licenziato, i ricchi e i potenti in generale. I moderni malvagi esprimono, insomma, un sentimento molto diffuso, un’articolazione disperata e pessimistica dello “spirito dei tempi”.
Rank non poteva immaginarlo, ma le sue osservazioni si adattano anche ad altri eroi negativi oggi molto seguiti: il mafioso e il serial killer. Il mafioso accumula denaro e potere attraverso la violenza. A troppi appare come l’unica strada percorribile in un contesto di porte sbarrate, preclusioni, impedimenti. Circola l’idea che l’ordine - e la stessa democrazia - non siano altro che una finzione, la maschera di una legalità apparente che tutela unicamente il privilegio e la ricchezza. Il serial killer dà sfogo a un altro sentimento diffuso: l’odio verso l’altro, l’insofferenza per un reticolato di regole e divieti avvertito come soffocante e inattaccabile. Un po’ come dire: non ci resta altro che uccidere, se non vogliamo morire. Terribilmente sbagliato, ma di grande presa. E tuttavia, l’antica regola dell’ombra e della luce resta sempre valida: una storia senza l’ombra è insipida e monca quanto una storia senza luce. Entrambe, fra l’altro, a lungo andare, come certi farmaci da maneggiare con cautela, inducono sonnolenza.

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