Non è un libro antico, ma si trova difficilmente. È un volumetto pubblicato da Bompiani nei primi anni 70, Come firmato da Paolo Villaggio. Che sicuramente ci avrà messo del suo, però da sempre si mormora che il vero autore sia stato Umberto Eco, che allora lavorava per la Bompiani.
Il mormorio diventa certezza quando in quei divertenti quiz a risposta multipla ci si imbatte nel nome di Athanasius Kircher, un gesuita del Seicento vissuto a Roma per 40 anni, che scrisse diversi libri pieni di notizie scientifiche e geografiche spesso inventate. Vere bufale che vanno dalla mappa di Atlantide a una immaginifica traduzione dei geroglifici.
Eco era da sempre un appassionato bibliofilo e un fan di Kircher in particolare. Aveva quasi tutti i libri del gesuita, tranne due. Lo affascinava proprio il misto di verità e falsità. Diceva «Se uno si occupa del falso è perché è convinto che qualche cosa di vero c'è… Non ho volumi di Galileo, ma di Tolomeo. Mi piace indagare sulle bizzarrie dell'intelletto umano». Avrebbe trovato bizzarrie a iosa nell’asta di libri antichi che si è tenuta ieri, sabato 12 marzo, presso l'Hotel Westin Palace in piazza della Repubblica a Milano, organizzata da Philobibilon di Filippo Rotundo, uno dei maggiori protagonisti dell'antiquariato librario a livello internazionale. L’asta è uno degli appuntamenti che in questi giorni hanno trasformato Milano in un punto focale per gli amanti dell'antiquariato librario attratti dalla Mostra internazionale dei libri antichi e di pregio organizzata dall'Alai ( Associazione Librai Antiquari d'Italia) a Palazzo dei Tessuti. «Siamo addolorati per la scomparsa di Eco, grande collezionista di libri antichi e grande amico» ricorda Filippo Rotundo. «Umberto, con molto spirito, aveva persino accettato di fare da battitore per il primo lotto di questa asta. Ma lui era così: nel 2013 ci fece un grandissimo favore aprendo la galleria Philobiblon di New York con uno speech incredibile».
Rotundo è l'uomo che sta cambiando faccia al mondo dei collezionisti bibliofili. Quello che immagini fatto solo di anziani signori che scrutano pergamene. E invece ti trovi a parlare con questo giovane uomo molto dinamico che non ha paura di usare strumenti moderni per diffondere la conoscenza del suo grande amore, quei tomi che appaiono così fragili da intimorire.
«Trattando anche libri del Novecento A sinistra, Um berto Eco. Negli ultim i m esi di vita continuava la sua opera di valorizzazione dei libri antichi. Sotto, una versione de «La visione» di Dante» posso dire che, per quando possa sembrare assurdo, un tomo del Cinquecento è più resistente di uno del 1950. Perché in epoca moderna si è cominciato a stampare su carta contenente cellulosa che tende a sgretolarsi anche sotto l'azione degli inchiostri acidi. In antichità, e fino al Settecento, la carta era ricavata dagli stracci, quindi contengono fibre di cotone o lino che la rendono più resistente». Sono molte le idee preconcette che Rotundo sfata mentre si visita la sede milanese di Philobiblon dove sono esposti questi volumi meravigliosi. «Una delle cose contro cui mi batto per svecchiare il mondo della bibliofilia è legata al costo di questi capolavori. Basta sfogliare il programma della manifestazione per rendersi conto che la base d'asta parte spesso da 2000 euro. Naturalmente una prima edizione di Dante varrebbe milioni. Alla mostra in corso a Milano noi presentiamo una preziosa copia della Divina Commedia che risale al 1491 e che era appartenuta a un membro della società segreta dei Rosacroce. Ma già una quarta edizione di un grande autore, stampata ai primi del XVI secolo, con gli interventi di abili miniatori, figure e fondi oro, si può acquistare per poche migliaia di euro».
Philobiblon, la creatura di Rotundo, era partita a Roma come semplice corner di antiquariato dentro la libreria Arion di via Veneto. Da allora è stata una crescita continua, con apertura di diverse sedi a Milano e New York, fino a diventare franchisee italiana della casa d'aste londinese Bloomsbury. Ma il libro antico può essere un bene rifugio? «Scegliendo i grandi autori e le edizioni migliori, sì» specifica Rotundo. «E può essere un investimento che offre anche un piacere estetico. Quanto più sterile e senza fascino è una cedola bancaria?»
Sognando la Bibbia di Gutenberg
Bibliofilo appassionato, lo scrittore aveva raccolto una collezione di 50 mila volumi «portati con leggerezza» Temeva molto gli incendi e amava ritrovare le letture dell’infanzia: mandava ogni pagina a memoria Chiose Diceva: «Se sul libro raro devo studiare, ardisco fare segni a matita in margine»
3 mar 2016 Corriere della Sera di Annachiara Sacchi
Follie di un bibliofilo. Che sognava un tunnel sotterraneo per collegare la sua casa milanese alla biblioteca Trivulziana «e consultare i testi di notte». Che temeva i ladri (ma di più il fuoco) e si presentava ad appuntamenti pubblici con la sua preziosa Hypnerotomachia Poliphili sottobraccio. Che amava la sua biblioteca, semiologica curiosa lunatica magica et pneumatica, e si divertiva a prendere in giro chi gli chiedeva: «Ma li hai letti tutti?». E Umberto Eco, perché di lui parliamo, appassionato studioso e collezionista, vorace frequentatore delle librerie antiquarie di mezzo mondo, rispondeva: «No, questi libri sono quelli che devo leggere la settimana prossima. Quelli che ho già letto sono in università».
Acquisti importanti. Ma anche occasioni a poco prezzo trovate sulle bancarelle, pezzi unici che solo un esperto — non solo un collezionista con buone disponibilità economiche — può scovare nelle sue scorribande tra le pagine. È nata così la mitica biblioteca di Eco, cinquantamila volumi, di cui milleduecento rari, un’assicurazione antincendio ( da bambino Eco abitava sotto l’appartamento del capitano dei pompieri di Alessandria: da qui, raccontava, il suo terrore del fuoco), il gusto di dedicarla al sapere «falso e occulto». Con alcuni esemplari mirabili, come lo stesso autore illustrava — ma chissà quali altri tesori possedeva — in Non sperate di liberarvi dei libri (Bompiani, 2011), dialogo con Jean-Claude Carrière sulla meraviglia della parola scritta. E allora ecco un vecchio Paracelso «di cui ogni pagina assomiglia a un merletto»; un incunabolo del Malleus Maleficarum, il famigerato manuale per gli inquisitori e i cacciatori di streghe; il «Polifilo» appunto, la Cronaca di Norimberga, l’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale (uno dei personaggi del Nome della rosa).
Domanda fondamentale: la tua casa va a fuoco, quali opere vorresti proteggere? Risposta di Eco: «Cercherei di salvare uno dei miei libri antichi, non necessariamente il più costoso, ma quello che amo di più. Forse prenderei la Peregrinatio in Terram Sanctam, di Bernhard von Breydenbach, Speri, Drach 1490, sublime per le sue incisioni su molti fogli ripiegati».
Passione pura. «Autentica», come la definisce Fabio Roversi Monaco, giurista ed ex rettore dell’Università di Bologna: «Aveva un talento straordinario: saper individuare in modo impareggiabile il valore e la qualità di un testo. Quelli nuovi soprattutto. Inoltre — e ce lo dimostrò in ateneo — dimostrava un modo saggio di concepire la disposizione dei volumi negli scaffali». I libri? «Caso unico, li leggeva davvero tutti. E, con strumenti inspiegabili, come guardava una pagina la mandava a memoria». Un sorriso. «Nelle sfide su Salgari e sui fumetti vinceva sempre lui».
Onnivoro nella lettura, selettivo nel collezionare. Eco, ricercatore instancabile. Il suo rammarico era noto: non riuscire a trovare un esemplare dell’Ars magnesia di Athanasius Kircher. «Sono pronto a pagare una fortuna», disse una volta. «Ma per scovare quel testo ci vorranno altri cento anni di ricerche», ammette Sergio Malavasi della storica libreria milanese Malavasi. E racconta: «Era un piacere sentirlo parlare, spesso ne sapeva di più del libraio». Le storie di Milano? «Quelle importanti le aveva tutte». Qualche pezzo speciale? «Gli vendemmo la prima edizione dei Tre moschettieri, rarissima, amava molto ritrovare le letture dell’infanzia». Ricordava tutti i libri che possedeva? «Sì, anche se di alcuni aveva tre o quattro copie». Approccio con l’acquisto? «Era una persona che di fronte all’oggettiva qualità del volume non questionava mai sul prezzo». E quando adocchiava un testo che riteneva prezioso, «gli brillavano gli occhi. Come un drogato — passatemi la similitudine — quando ha in mano la dose». Grazie alla sua competenza, riusciva a fare ottimi affari, come quando — spulciando un catalogo con mille titoli — conquistò a un’asta, per 150 euro, la Offenbarung göttlicher Mayestat di Aloysius Gutman.
Bibliofilo, non bibliomane. Una differenza che Eco stesso sottolineò in La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia (Bompiani, 2009/2011): «Ogni collezionista ha un sogno ricorrente. Trovare una novantenne che ha in casa un libro che cerca di vendere, senza sapere di che si tratti, contare le linee, vedere che sono 42 e scoprire che è una Bibbia di Gutenberg, offrirle 100 mila euro e mettersi in casa un tesoro. Dopo di che, cosa accadrebbe? Un bibliomane terrebbe la copia per sé, guai a mostrarla perché solo a parlarne si mobiliterebbero i ladri di mezzo mondo. Un bibliofilo, invece, vorrebbe che tutti vedessero questa meraviglia. Ma che piacere sarebbe quello di possedere l’oggetto più raro del mondo senza potersi alzare alle tre di notte e andarlo a sfogliare? Ecco il dramma: avere la Bibbia di Gutenberg sarebbe come non averla. E allora perché sognare quella utopica vecchietta? Ebbene, il bibliofilo la sogna sempre, come se fosse un bibliomane». Ammissione: «Se sul libro raro devo studiare, ardisco fare segni a matita in margine, abbastanza leggeri che un giorno si possano cancellare con una gomma, e questo mi aiuta a sentire il libro come cosa mia. Sono pertanto un bibliofilo, non un bibliomane». Con uno strepitoso senso dell’umorismo: «Quando mi si chiede se ho letto qualche cosa, io rispondo: “Ma sa, io non leggo, scrivo”». Alessandro Danovi, segretario dell’Aldus club, l’associazione internazionale di bibliofilia di cui Eco era presidente, confessa: «Nel 2008 andammo in visita alla biblioteca del Quirinale. Al presidente Napolitano Eco disse: “Mi sento come D’Artagnan quando presenta al conte di Guisa i cadetti di Guascogna”». Facezie di un erudito: «Non voleva — continua Danovi — leggere i verbali dell’associazione, si portava spesso in giro il suo “Polifilo” e sognava di scavare un passaggio segreto sotto il Castello per raggiungere la Trivulziana. Come Aldus gli dedicheremo il prossimo restauro di un libro della Braidense».
Cinquantamila volumi «portati» con leggerezza. Con la meraviglia del bambino, l’accanimento del bibliomane, la curiosità del filosofo. Con un desiderio: «La mia famiglia potrà donare o vendere la mia collezione, ma non vorrei che venisse dispersa». E una convinzione: «La biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te».
L’interpretazione dei segni
Non solo linguaggio Oltre l’arte semiotica
13 mar 2016 Corriere della Sera di Donatella Di Cesare
«Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita...». È la scena iniziale del romanzo Il nome della rosa. Il francescano Guglielmo da Baskerville e il suo discepolo Adso da Melk seguono i ripidi tornanti, sul pendio degli Appennini italiani, per raggiungere l’abbazia benedettina a cui sono diretti; ma si arrestano d’un tratto di fronte alle tracce che si disegnano sulla neve. Guglielmo da Baskerville comincia allora a dare prova del suo profondo acume, della sua penetrante sagacia, nel decifrare e interpretare indizi, parole, prove. L’enigma che si cela dietro l’orribile sequenza di delitti efferati sarà risolto grazie alla sua intelligenza e al suo sapere.
Il discepolo lo ricorda, d’altronde, come un fine lettore, capace di riconoscere i segni con cui il mondo ci parla come un grande libro. «Durante il periodo che trascorremmo all’abbazia gli vidi sempre le mani coperte dalla polvere dei libri, dall’oro delle miniature ancora fresche... Pareva che non potesse pensare se non con le mani». È il ritratto di Guglielmo da Baskerville — ma potrebbe essere anche il ritratto di Umberto Eco.
Icona della cultura, autore di bestseller, Eco ha raggiunto la fama mondiale grazie ai suoi romanzi: Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, via via fino agli ultimi, Il cimitero di Praga e Numero Zero. Complessi, labirintici mondi, costruiti magistralmente nel gioco di verità e finzione, si dischiudono al lettore affascinato dall’intrico della trama, incantato dal rebus che si cela ovunque, chiamato perciò a interpretare febbrilmente quella realtà enigmatica. L’uomo — come dice Aristotele — è l’animale che possiede il logos, il linguaggio, che parla e che interpreta. Eco lo sapeva bene. Molti anni prima di dedicarsi alla narrativa, a cui approdò relativamente tardi, era noto già da decenni come semiotico e filosofo del linguaggio. Al 1968 risale La struttura assente, al 1975 il Trattato di semiotica generale, al 1979 Lector in fabula. Furono questi studi a preparare il terreno per i racconti. Sarebbe in tal senso sbagliato tenere separata la saggistica di Eco dai suoi romanzi, perché il nesso è strettissimo. I romanzi sono la trasposizione narrativa dei temi trattati nelle opere teoriche. Certo, si può leggere Il nome della rosa anche senza conoscere la riflessione filosofica di Eco; ma addentrarsi negli arcani dell’arte interpretativa, imparare a decifrare i segni, muta decisamente la lettura.
Siamo abituati a credere che ci sia un soggetto che conosce il mondo attraverso il pensiero puro. È il modello diffuso da Cartesio, ma anche da altri filosofi, che lascia fuori il linguaggio e i segni. Il pensiero,
È in edicola «Il nome della rosa», primo volume della serie dedicata all’intellettuale. In uscita i lavori di invenzione e di analisi, tutti legati tra loro Perché prima della narrativa (e dopo) ci furono i trattati. E lo studio innovativo degli idiomi però, è sempre impuro, sempre già concreto e materiale — perché è mediato dal linguaggio e da molteplici, differenti segni. Così, se ci orientiamo nel mondo, se possiamo conoscerlo, è perché il nostro è un mondo di segni — segni che interpretiamo, che produciamo, che trasformiamo.
Eco fondò la sua semiotica senza mai dimenticare che — come suggerisce la provenienza greca della parola semeiotiké — l’«arte dei segni» vantava una lunga tradizione, rimasta tuttavia minoritaria. Erano gli anni della «svolta linguistica», quando il linguaggio, relegato per secoli ai margini, assumeva un ruolo centrale nella filosofia. Punto di riferimento era, anche in Italia, lo strutturalismo di Saussure, insieme a quello di Jakobson e di Hjelmslev. Nello studio dei segni Eco non era isolato e trovò presto, come compagni di cammino, filosofi e linguisti, da Emilio Garroni a Tullio De Mauro.
Ma erano anche gli anni in cui si andava affermando l’ermeneutica filosofica di cui Luigi Pareyson, a Torino, era un prestigioso esponente. Eco si formò alla sua scuola.
Lo studio dell’estetica si ampliò presto in una riflessione su tutte le forme della creatività. Accanto a Pareyson, maestro di interpretazione, si scelse, però, quello che chiamava il suo secondo maestro, il filosofo americano Charles S. Peirce, uno dei pionieri della semiotica.
Da lui Eco ha ripreso la «semiosi illimitata», l’idea che i segni, tra cui ci muoviamo, non sono statici, ma sono legati al processo di interpretazione. Perciò possono essere reinterpretati e riformulati continuamente, un segno grazie all’altro, in un rinvio infinito. Nello spazio di questo rinvio, in questo margine di gioco, si situa per Eco la nostra creatività. Il che non vuol dire che ogni interpretazione sia giusta e legittima. Al contrario, l’inganno è sempre in agguato. I limiti dell’interpretazione è il saggio dedicato a questo tema nel 1991.
Eco era convinto — e lo ribadì nel volume Semiotica e filosofia del linguaggio, uscito nel 1985 — che il segno linguistico non dovesse essere il «modello semiotico», non dovesse avere una sorta di predominio sugli altri segni. Eppure non abbandonò mai la riflessione sul linguaggio e sulle lingue. A questa riflessione si devono, anzi, i due libri più suggestivi e rilevanti della sua grande produzione: Dire quasi la stessa cosa, del 2003, un saggio sul tema forse più attuale nella cultura globalizzata, quello della traduzione, e La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, pubblicato nel 1993 e ristampato tre anni dopo.
«Fantasticare intorno alla lingua universale». Si apre con la citazione da un’opera settecentesca del filosofo italiano Francesco Soave la ricerca della lingua perfetta. Eco ricostruisce la chimera della lingua perduta, quella di Adamo, e insegue una delle più potenti utopie dell’umanità, la lingua universale. Dal grande mito della Torre di Babele, che si staglia nei versetti della Torah, ai segreti della combinatoria kabbalistica, dalla grammatica di Dante al progetto di Raimondo Lullo, che vagheggiava di costruire una lingua filosoficamente perfetta, in grado di contribuire alla concordia umana, dalle lingue magiche a quelle razionali, dai calcoli di Leibniz alle lingue internazionali, all’Esperanto — Eco accompagna il lettore in un viaggio affascinante, tra libri dimenticati e sogni mai esauriti.
Perché le lingue non sono diverse solo nei suoni; articolano ciascuna una visione del mondo. Cosa c’è di più doloroso dell’incomprensione che divide il genere umano? Ma la pretesa di superare la diversità delle lingue è destinata a naufragare. E mentre ogni progetto di lingua universale si infrange, va in rovina, come la Torre di Babele, Eco ci invita, nell’età del globanglese, a riscoprire la ricchezza delle lingue storiche.
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