Elena Ferrante sono ioNon ha mai voluto rivelare la sua identità lasciando che a parlare fossero solo i suoi libri. Il perché l’autrice de “L’amica geniale” lo ha spiegato a Nicola Lagioia “Scrivere è di per sé già un atto di superbia...”
«Certi ambienti napoletani poveri erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sé, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall’altro non era una conquista teorica, ma una realtà. Essere vivi significava urtare di continuo contro l’esistenza altrui ed esserne urtati, con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi. Nei litigi si tiravano in ballo i morti, non ci si accontentava di aggredire e insultare i vivi: si finiva per degradare con naturalezza anche zie, cuginette, nonni e bisnonni che non erano più al mondo. E poi c’era il dialetto e c’era l’italiano. Le due lingue rimandavano a comunità diverse, entrambe gremite. Ciò che era comune all’una non era comune all’altra. I legami che stabilivi nelle due lingue non avevano mai la stessa sostanza. Variavano gli usi, le regole di comportamento, le tradizioni. E quando cercavi una via di mezzo ti veniva un dialetto finto che era contemporaneamente un italiano triviale. Tutto questo mi (ci) costituisce, ma tuttora senza un ordine e una gerarchia. Niente è tramontato, tutto è qui nel presente. Certo, oggi ho luoghi piccoli e tranquilli dove mi posso raccogliere in me, ma questa espressione la sento tuttora un po’ ridicola. Ho raccontato di donne in momenti in cui sono assolutamente sole. Ma nelle loro teste non c’è mai silenzio e nemmeno raccoglimento. La solitudine più assoluta, almeno nella mia esperienza, e non solo narrativa, è sempre, come nel titolo di un libro molto bello, troppo rumorosa.
Per chi scrive non c’è persona rilevante che si rassegni a tacere definitivamente, anche se abbiamo interrotto ogni rapporto da tempo per rabbia, per caso o perché il suo tempo era finito. Io nemmeno riesco a pensarmi senza gli altri, men che meno a scrivere. E non parlo solo di parenti, di amiche, di nemici. Parlo delle altre, degli altri, che oggi, adesso, figurano soltanto nelle immagini: nelle immagini televisive o dei rotocalchi, a volte strazianti, a volte offensive per opulenza. E parlo di passato, di ciò che in senso lato chiamiamo tradizione, parlo di tutti gli altri che sono stati al mondo prima e hanno agito e agiscono oggi attraverso di noi. L’intero nostro corpo, volente o nolente, realizza una folgorante resurrezione dei morti proprio mentre avanziamo verso la nostra stessa morte. Dovremmo educarci a guardare a fondo in questa interconnessione — io la chiamo garbuglio, o meglio frantumaglia — per darci strumenti adeguati e raccontarla. Nella più assoluta tranquillità o coinvolti in eventi tumultuosi, al sicuro o in pericolo, innocenti o corrotti, noi siamo la ressa degli altri. E questa ressa per la letteratura è sicuramente una benedizione.
Ma quando andiamo alla materialità dei giorni, alla fatica quotidiana di vivere, stento a fare il gioco del rovesciamento di senso: maledizione/benedizione, benedizione/ maledizione. Mi sento bugiarda se considero l’eredità del rione un fatto positivo. Capisco che le maglie molto strette e resistenti del mondo che ho raccontato possano dare l’idea di un antidoto. Ci sono molti momenti, ne L’amica geniale, dove l’ambiente in cui Lila ed Elena sono immerse appare, malgrado tutto, bonario e accogliente. Ma non bisogna perdere d’occhio quel “malgrado tutto”. I legami col rione limitano, fanno male, corrompono o dispongono alla corruzione. E il fatto che non si riesca a reciderli, che si ripropongano oltre ogni loro apparente dissolversi, non è un bene. L’insorgenza improvvisa delle cattive maniere dall’interno di quelle buone, salvo poi tornare al sorriso, a me sembra il sintomo di una comunità inaffidabile tenuta insieme da complicità opportunistiche, attenta a dosare furie e ipocrisie per non finire in una guerra aperta che comporterebbe scelte definitive: tu stai di qua, io di là. No, ciò che compatta la piccola folla del rione è, nei fatti, inevitabilmente guasto e, ai miei occhi, una maledizione.
Naturalmente, però, quella folla è fatta di persone e le persone hanno sempre, tra mille contraddizioni, una loro preziosissima umanità cui un racconto deve badare, se non vuole fallire. Tanto più che la gente si passa ciò che ha di buono e ciò che ha di cattivo quasi senza accorgersene. Il rione è immaginato così e anche Lila ed Elena sono fatte della sua materia, ma come se essa fosse allo stato fluido e trascinasse con sé di tutto. Volevo che, contro la fissità chiusa dell’ambiente, loro fossero mobili, che niente riuscisse a stabilizzarle davvero e che soprattutto esse stesse si attraversassero reciprocamente come se fossero d’aria. Ma senza mai liberarsi della forza d’attrazione del luogo di nascita. Anche loro dovevano sentirla, loro specialmente, malgrado tutto. Ecco, è forse proprio quel “malgrado tutto” che è tecnicamente difficile da raccontare. Bisogna badare a quel “tutto”, non dimenticarselo, riconoscerlo sotto ogni suo travestimento, anche se i legami affettivi, le consuetudini acquisite con l’infanzia, gli odori, i sapori, i suoni carichi di dialetto ci seducono, ci inteneriscono, ci fanno oscillare, ci rendono eticamente instabili. Forse ottenere sulla pagina la qualità cangiante delle esistenze significa sottrarsi ai racconti troppo rigidamente definiti.
Tutto, ne L’amica geniale, volevo che si formasse e si sformasse. Nello sforzo di raccontare Lila, la sua amica si vede costretta a raccontare tutti gli altri e se stessa tra loro, incontri e scontri che lasciano le tracce più diverse. Gli altri nell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero. A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza — le figure eleganti, la bella forma — stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli stereotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospingendoci nel panico. Nel romanzo, almeno nelle intenzioni, c’è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smarginatura ».
Ci sono critici che l’hanno accostata ad Anna Maria Ortese e a Elsa Morante. Secondo me a ragione. Eppure la sua plebe è più simile alla terribile orda umana descritta da Curzio Malaparte ne “La pelle” che non a quella raccontata da “Il mare non bagna Napoli”. Questo tipo di plebe è davvero irredimibile?
«Malaparte non so, dovrei rileggerlo. Non ho mai avvertito alcuna consapevole affinità con La pelle, una lettura che risale a molto tempo fa. È il capitolo de Il mare non bagna Napoli intitolato La città involontaria che, anche in fasi diverse della mia vita, mi è sembrato un punto di partenza necessario, se mai avessi provato a raccontare ciò che mi pareva di sapere sulla mia città. Ma delle suggestioni letterarie è sempre difficile parlare: un verso zoppicante, due righe dimenticate, una pagina bella che sul momento non abbiamo apprezzato, spesso, per vie traverse, fanno più dei blasoni letterari che in buona fede esibiamo per darci importanza. Comunque cosa posso dirle? La città plebea che conosco io è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna e insieme violenta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultura, che sfotte chi pensa di salvarsi con lo studio e tuttavia allo studio attribuisce valore».
Per Lila e Elena lo studio è fondamentale. Farsi una cultura è l’unico percorso degno per uscire dallo stato di minorità. Anche quando studiare non porta a un risultato pratico, non mettono in discussione la sua importanza nella costruzione di ogni individuo. Lei cosa pensa dell’Italia di oggi, così piena di laureati allo sbando?
Tutto sommato, lo studio non mi sembra uno strumento d’emancipazione come un altro.
«Non lo ridurrei a solo strumento di emancipazione. Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale alla mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma ha anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli, tanto che anche chi restava in basso poteva dirsi: sono finito così perché non ho voluto studiare. La storia di Lenù, ma anche di Nino, mostra questo uso dell’istruzione. Ma nel racconto c’è anche il segnale di una disfunzione: alcuni personaggi studiano e tuttavia il loro percorso si inceppa. Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento. C’è però, nel racconto, un altro modo di intendere lo studio, quello di Lila. Privata dell’intero percorso scolastico, all’epoca fondamentale innanzitutto per le femmine, e per le femmine povere, smistate su Lenuccia le proprie ambizioni di ascesa socioculturale, lo studio per Lila diventa la manifestazione di un’ansia permanente dell’intelligenza, una necessità imposta dalle disordinatissime circostanze dell’esistenza, uno strumento di lotta quotidiana (funzione quest’ultima a cui Lila cerca di ridurre anche la sua amica “che ha studiato”). Mentre Lena è il tormentato punto d’arrivo del vecchio sistema, Lila ne mette in scena la crisi e un possibile futuro.
COME LA CRISI SI RICOMPORRÀ nel tumultuoso mondo cui apparteniamo è da vedere. Le contraddizioni del sistema formativo diventeranno sempre più evidenti segnandone la decadenza? Avremo una buona cultura diffusa senza alcun nesso con il modo di guadagnarsi da vivere? Avremo più diligenza colta e meno intelligenza? In genere io sono incantata da quelli che producono idee, non da quelli che le chiosano. Anche se un mondo di fantasiosi realizzatori di grandi idee mi sembra una meta formidabile.
Se è vero, come ho letto in più di un pezzo, che “L’amica geniale” non ha aperture verso il trascendente (almeno per come il trascendente è stato reso letterariamente nel Novecento), ci sono le “smarginature” di Lina. I momenti in cui il mondo si scolla davanti agli occhi di una delle due protagoniste, va fuori asse mostrandosi nella sua insostenibile nudità: una massa caotica e informe, “una realtà pasticciata, collacea”, priva di senso...
«Qui voglio passare a una dichiarazione di principio: a partire dai quindici anni, non credo al regno di nessun dio né in cielo né in terra, anzi dovunque lo si dislochi mi sembra pericoloso. D’altra parte condivido l’opinione che la gran parte dei concetti che maneggiamo sia di origine teologica. La teologia aiuta a capire da dove sono scaturiti i fondi di caffè a cui tuttora ricorriamo. Mi consolano le storie che dopo aver attraversato l’orrore impongono una svolta, quelle dove qualcuno si redime a riprova che pace e felicità sono possibili o che si può tornare in un privato o pubblico eden. Ma mi sono provata a scriverne, in passato, e ho scoperto che non ci credevo. Sono attratta invece dalle immagini di crisi, dai sigilli che si spezzano, e forse le smarginature vengono di lì. Lo smarginarsi delle forme è un affacciarsi sul tremendo, come nelle Metamorfosi di
Ovidio, come in quella di Kafka e come nello straordinario
Passione secondo GH di Clarice Lispector. Oltre non si va, bisogna fare un passo indietro e, per sopravvivere, rientrare in una qualche buona finzione. Non credo però che tutte le finzioni che orchestriamo siano buone. Aderisco a quelle sofferte, quelle che nascono dopo una crisi profonda di tutte le nostre illusioni. Amo le cose finte quando portano i segni di una conoscenza di prima mano del tremendo, e quindi la consapevolezza che sono finte, che agli urti non reggeranno a lungo. Gli esseri umani sono animali di grande violenza, e fa paura la rissa che sono sempre pronti a scatenare per imporre il proprio salvifico eterno salvagente e fare a pezzi quello degli altri».
Il romanzo è pieno di litigate memorabili. I miei nonni materni erano piccoli coltivatori diretti, mentre mio nonno paterno faceva il camionista. Il modo in cui li sentivo inveire gli uni contro gli altri e più spesso contro se stessi o il destino l’ho raramente ritrovato in altri ambienti. In certi casi addirittura mi manca. Capisco che lo spettacolo del turpiloquio possa risultare triste e degradante, o addirittura bestiale. Tuttavia le domando: non è anche però un vagito di civiltà, la percezione istintiva della povertà come ingiustizia?
«Qui torniamo ai litigi. E sì, diciamo che la lite tra poveri è liminare. Il liminare è un artificio retorico interessante, rappresenta metaforicamente la sospensione tra due opposti ed è una procedura che rappresenta in modo efficace il tempo in cui viviamo. Disfatto il concetto di coscienza di classe e di conflitto di classe, i poveri, i disperati che sono ricchi solo di parole furiose, a parole li teniamo sulla soglia, tra l’esplosione degradante, che imbestialisce, e quella liberatoria, che umanizza e avvia una sorta di purificazione. Ma nella realtà la soglia è varcata di continuo, diventa guerra sanguinosa tra poveri, versamento di sangue. O approda alla riconciliazione, nel senso di ritorno all’acquiescenza, alla subalternità dei più deboli ai più forti, all’opportunismo. Il vagito di civiltà, se vuole, è l’intuizione della propria dignità che si accompagna al bisogno di cambiare. Altrimenti i litigi tra poveri sono solo l’ennesima riproposizione dei capponi di Renzo Tramaglino».
“L’amica geniale” è anche un canto dolente alzato alle illusioni del secondo Novecento, o forse di tutta la nostra modernità. Mi spaventano alcuni storici quando
dichiarano che il quarantennio 1950/1990 (periodo in cui le sperequazioni si sono ridotte, la mobilità sociale è diventata una realtà, le masse popolari sono state non di rado protagoniste) potrebbe essere letto come un piccolo momento di discontinuità in un quadro generale dove le grandi disuguaglianze rappresentano la regola. Il Ventunesimo secolo è iniziato col violentissimo riallargarsi della forbice tra ricchi e poveri. A lei sembra davvero che la seconda metà del Novecento sia stata solo una parentesi? Non è invece addirittura realistico pensare che il futuro non sia mai scritto?
«Sì, il futuro non è mai scritto. Ma la Storia e le storie sono scritte, e scritte guardando dal balcone del presente la tempesta elettrica del passato, vale a dire niente di più mobile. Il passato, nella sua indeterminatezza, si offre o attraverso il filtro della nostalgia o attraverso quello dell’istruttoria. Non amo la nostalgia, porta a non vedere le sofferenze individuali, le ampie sacche di miseria, la povertà culturale e civile, la corruzione capillare, il regresso dopo progressi minimi e illusori. Preferisco l’acquisizione agli atti. Il quarantennio che lei cita è stato faticosissimo e dolorosissimo per chiunque muovesse da una condizione di svantaggio. E intendo per svantaggio anche e soprattutto essere donna. Non solo. Le grandi masse che si sono sottoposte a sacrifici disumani per guadagnare qualche gradino nella scala sociale, già a partire dagli anni Settanta hanno sperimentato i tormenti della sconfitta, loro e dei loro figli. Senza contare una sorta di guerra civile latente, la cosiddetta pace mondiale sempre a rischio e gli esordi di una delle più devastanti rivoluzioni tecnologiche parallela a una delle più devastanti destrutturazioni del vecchio ordine politico ed economico. Il fatto nuovo non è che il millennio si inaugura con l’allargarsi della forbice ricchi-poveri, questo è un dato diciamo di sistema. Il fatto nuovo è che i poveri non hanno più altro orizzonte di vita che il sistema capitalistico e altro orizzonte di redenzione che quello religioso. È la religione a gestire sia la rassegnazione in vista di un regno di dio nei cieli, che l’insurrezione in nome di un regno di dio sulla terra. La teologia, cui accennavo prima, si sta prendendo la sua rivincita. Ma niente è scritto e ciò che accadrà non potrà che sorprenderci. Non amo i tecnici della previsione. Lavorano sul passato, e nel passato vedono solo il passato che fa comodo vedere. È meno progressiva e impetuosa, ma più sensata, la navigazione a vista, specialmente quando i gorghi abbondano. A me sembra inevitabile vivere sul bordo del caos, è ciò che tocca a chi sente — e chi scrive non può non sentirlo — l’equilibrio precario di tutte le esistenze e di tutto l’esistente. È giusto e stimolante avere sempre bene a mente che se lì, in quel determinato luogo, le cose un po’ funzionano, altrove non funziona niente e lo squilibrio distante è il segno di un cedimento che presto ci investirà».
SEMBRA CHE LA FINE del romanzo coincida con la fine di una certa idea d’Italia. Qualcosa che aveva ricominciato a vivere nell’immediato dopoguerra mostra la corda. Mi chiedo se sia davvero così, o se l’Italia sembri spesso spalancata su un qualche tipo di abisso. Ci ritroviamo non di rado senza terreno sotto i piedi. Oppure questa volta il nostro paese sta voltando (o sta finendo di voltare) pagina per sempre?
«Non mi piacciono né i pessimisti né gli ottimisti. Cerco solo di guardarmi intorno. Se la meta deve essere una vita non dico felice ma agevole per tutti, non c’è capolinea, ma un continuo ripensare il percorso, che non riguarda solo le singole vite, ma le generazioni. Io o lei — chiunque — non siamo solo questo “tempo-adesso” e nemmeno “gli ultimi decenni”».
Siamo il paese del familismo amorale e ogni rito di passaggio ha un prezzo, d’accordo. Ma emanciparsi dalla famiglia in Italia è ancora oggi impossibile senza passare per una parte di violenza (e sofferenza) assolutamente
inutili?
«La famiglia è di per sé violenta, lo è tutto ciò che si fonda su legami di sangue, legami non scelti, che ci impongono la responsabilità dell’altro anche se non c’è stato mai un momento in cui abbiamo deciso di assumercela. I buoni sentimenti e i cattivi sono sempre eccessivi, nella famiglia: affermiamo esageratamente i primi e neghiamo esageratamente i secondi. È eccessivo Dio padre. Abele è eccessivo quanto Caino. I cattivi sentimenti sono particolarmente insopportabili quando è il consanguineo a suscitarli. Caino alla fine uccide per recidere il legame di sangue. Non vuole essere il custode di suo fratello. Essere custode è un compito insopportabile, una responsabilità sfiancante. Non è facile accettare che i cattivi sentimenti siano suscitati non solo dall’estraneo, il rivale — colui che è sull’altra riva del “nostro” corso d’acqua, che non sta sul nostro suolo e non ha il nostro sangue — ma forse, con maggiore cogenza, da chi ci è vicino, il nostro specchio, il prossimo che dovremmo amare, noi stessi. L’emancipazione senza traumi è possibile solo in un nucleo in cui l’autoreferenzialità è stata combattuta da subito e si è imparato ad amare l’altro non come noi stessi — formula rischiosa — , ma come l’unica modalità possibile del piacere di stare al mondo. Ciò che ci corrompe è la passione per noi stessi, la necessità e l’urgenza del nostro primato».
Chi è davvero conficcato nella vita non scrive romanzi.
Il rapporto tra Elena e Lila mi sembra veramente archetipico da questo punto di vista. Molte coppie di amici/ rivali funzionano così. È Lila a sentire le cose del mondo con maggiore radicalità. Eppure, proprio per questo, non è lei a poterne dare testimonianza. Benché Elena tema che prima o poi la sua amica riesca a scrivere un libro meraviglioso, in grado di ristabilire oggettivamente le proporzioni tra loro due, questo non può accadere. L’implacabilità di una simile regola è talmente ricorrente che a me crea sgomento. È uno dei paradossi che mi sembra stringa Elena a Lila. Come si può provare a scioglierlo o a conviverci? Testimoniare per chi non lo farà potrebbe sembrare un atto generoso. O è al contrario una manifestazione di enorme arroganza. O ancora (questa l’ipotesi più dolorosa) diventa l’arma per rendere innocue, fino a rischiare di schiacciarle, le persone che amiamo. Che rapporto ha con la scrittura da questo punto di vista?
«Scrivere è un atto di superbia. L’ho sempre saputo e perciò ho nascosto a lungo che scrivevo, soprattutto alle persone a cui volevo bene. Temevo di svelarmi ed essere disapprovata. Jane Austen si era organizzata in modo da occultare subito i suoi fogli, se qualcuno entrava nella stanza in cui si era rifugiata. È una reazione che conosco, ci si vergogna della propria presunzione, perché non c’è niente che riesca a giustificarla, nemmeno il successo. Comunque io la metta, resta sempre il fatto che mi sono arrogata il diritto di imprigionare gli altri dentro ciò che a me pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere. È un compito? È una missione? È una vocazione? Chi mi ha chiamato, chi mi ha assegnato quel compito e quella missione ? Un dio? Un popolo? Una classe sociale? Un partito? L’industria culturale? Gli ultimi, i diseredati, le loro cause perse? L’intero genere umano? Quel soggetto imprevisto che sono le donne? Mia madre, le mie amiche? No, oggi tutto è diventato più spoglio ed è lampante che solo io stessa ho autorizzato me stessa. Io mi sono assegnata, per motivi oscuri anche a me, il compito di raccontare ciò che so del mio tempo, vale a dire, ridotto all’osso, ciò che mi è capitato sotto il naso, vale a dire la vita i sogni le fantasie i linguaggi di un ristretto gruppo di persone e di fatti dentro uno spazio ridotto, dentro una lingua di poco rilievo resa ancor più di poco rilievo dall’uso che ne faccio. Si tende a dire: non esageriamo, è solo un lavoro. Può darsi che ormai sia così. Le cose cambiano e cambiano soprattutto gli involucri verbali in cui le chiudiamo. Ma resta la superbia. Resto io che passo gran parte della mia giornata a leggere e a scrivere perché mi sono assegnata il compito di raccontare. E che non riesco ad acquietarmi dicendo: è un lavoro. Quando mai ho considerato scrivere un lavoro? Non ho mai scritto per guadagnarmi da vivere. Scrivo per testimoniare che sono vissuta e che ho cercato una misura per me e per gli altri, visto che gli altri non potevano o non sapevano o non volevano farlo. Bene, questo cos’è se non superbia? E cosa significa se non: voi non sapete vedermi e vedervi, ma io mi vedo e vi vedo? No, non c’è via d’uscita. L’unica possibilità è imparare a ridimensionare il proprio io, a rovesciarlo nell’opera e tirarsene via, a considerare la scrittura come ciò che si separa da noi non appena è compiuta: uno dei tanti effetti collaterali della vita activa ».
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