mercoledì 16 marzo 2016

Il mondo ha bisogno di polonio, Volodja


Kasparov: contro le dittature serve una Magna Carta globale 
Un’anticipazione dell’ultimo libro dello scacchista e dissidente russo che domani esce in Italia. “Le democrazie aiutino chi non è libero” 
Garry Kasparov  Busiarda 16 3 2016
Il 9 novembre del 1989 è stato uno dei giorni più gloriosi della storia mondiale. Centinaia di milioni di persone furono liberate dal comunismo totalitario dopo generazioni di tenebre. Non vi è certo carenza né di dottrine né di opinioni sul perché a suo tempo sia caduto il Muro. Io sono ben felice di imbarcarmi in simili discussioni infinite, tuttavia dobbiamo riconoscere che cercare una causa precisa per un evento specifico significa perdere di vista l’essenziale. Sappiamo bene che, senza l’unità del mondo libero contro un nemico comune, e senza una presa di posizione forte basata sul rifiuto di negoziare sul valore della libertà individuale, il Muro sarebbe in piedi ancora oggi e io starei ancora giocando a scacchi per l’Unione Sovietica. [...] Singoli individui hanno giocato un ruolo da ambo le parti, da Roland Reagan a Margaret Thatcher, da Lech Walesa a papa Giovani Paolo II, fino a Michael Gorbaciov, scatenando delle forze che quest’ultimo non poteva controllare. L’argomento decisivo era tanto semplice quanto vero: la Guerra Fredda era una guerra dei buoni contro i cattivi e, cosa ancora più importante, non era una faccenda meramente filosofica, ma una battaglia reale che valeva la pena di combattere. [...]
Il Muro è caduto e il mondo ha tirato un sospiro di sollievo. La lunga guerra che andava avanti da generazioni era finita. La minaccia nucleare che pendeva sulle nostre teste sarebbe presto scomparsa. Tuttavia le vittorie, perfino le più grandi, hanno un prezzo, anche se si tratta semplicemente di abbassare la guardia. Non ci sono state commissioni per la verità sul comunismo, né processi né condanne per gli impressionanti crimini perpetrati da questi regimi. Il Kgb ha cambiato nome ma non pelle. È stata chiaramente la compiacenza dell’Occidente ad aver dato mano libera a tutti i suoi nemici, non solamente a Putin. Le odierne dittature possiedono ciò che i soviet potevano a malapena sognare: un facile accesso ai mercati globali per finanziare la repressione al loro interno. Non soltanto i petrol-Stati come la Russia, l’Iran e il Venezuela, ma anche gli Stati industriali. L’idea che il mondo libero avrebbe usato a favore dei diritti umani la linea del compromesso per esercitare pressioni sui dittatori è stata vanificata dagli stessi Stati autoritari, giacché questi ultimi sono disposti a sfruttare quel tipo di leva senza alcuna esitazione, laddove nel mondo libero non c’è una simile volontà. Anzi, la linea del compromesso ha fornito alle dittature ancor più consumatori del petrolio che estraggono e degli iPhone che assemblano. Questi regimi utilizzano l’Interpol per perseguitare i dissidenti all’estero; finanziano o creano partiti politici e Ong per esercitare pressioni a favore della propria causa; scrivono editoriali sul New York Times zeppi di appelli ipocriti per la pace e l’armonia. E tutto questo mentre a casa propria attuano un giro di vite più duro che mai. 
[…]
Che cosa bisogna fare, dunque? Ogni situazione, ogni crisi, ha chiaramente le proprie necessità. Negli scacchi, lo spostamento di una singola pedina cambia l’intera posizione. È per questo che mi piace dire che io invoco i principi, non e politiche. Quando si possiedono principi solidi e tutto il mondo li conosce, le politiche poi tendono a essere più semplici da sviluppare e da rafforzare. Spetta ai leader, a coloro che sono responsabili del proprio popolo, formulare delle politiche. [...] Fare delle raccomandazioni senza l’autorità per renderle esecutive o la responsabilità di doverne rispondere è una stravaganza. Offre il fianco all’ipocrisia e alla follia della peggior specie. Mi rendo conto che una simile strategia, per quanto onesta e appropriata, risulta essere anche una forma di fuga. Nessuno sarebbe contento se un medico gli diagnosticasse una malattia mortale per poi rifiutarsi di indicargli un rimedio. Ci sono molti passi che possono essere compiuti e che richiedono coraggio e volontà. Una Magna Carta globale è uno di questi, un documento che possa condurre alla creazione di un’organizzazione delle nazioni democratiche unite che sostenga e rinforzi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. [...]
Il mondo libero possiede risorse e potere al di là dell’immaginazione e questo deve essere usato per aiutare i non liberi a unirsi a noi, altrimenti è un potere sprecato. Un altro motivo per cui non serve fare raccomandazioni per delle politiche specifiche sta nel fatto che queste diventano inevitabilmente obsolete. Nel corso degli anni ho compilato una lunga lista di cose che andrebbero fatte per rispondere, ad esempio, alla dittatura di Vladimir Putin. Perfino adesso che questi ha dato prova di quanto fossero fondate le mie peggiori paure e che tutti mi dicono quanto io avessi ragione, ben poche delle mie raccomandazioni sono state messe in atto. Altre sono state portate avanti, come ad esempio le sanzioni e l’espulsione della Russia dal G7, ma in modo troppo debole o lento perché avessero l’effetto deterrente da me auspicato.
©2015 by Garry Kasparov, Edizione Italiana Fandango Libri 2016, published by arrangement with Berla & Griffini Rights Agency BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Saviano vs Kasparov I dittatori a scacchi non giocano
Il più grande campione di sempre oggi ha un unico obiettivo: dare scacco matto a Vladimir Putin
Il perché lo spiega ora in un libro. E a un suo fan d’eccezione in questa (breve) partita a New YorkROBERTO SAVIANO Restampa 13 3 2016
NEW YORK SONO CRESCIUTO GIOCANDO A SCACCHI. La mia prima scacchiera l’ho avuta da bambino, dono di un uomo che con i suoi racconti e il suo volermi bene mi ha indirizzato la vita. Si chiama Vittorio Marguccio. Perché quando qualcuno ti inizia agli scacchi ti sta regalando una nuova strada attraverso cui stare al mondo. I pedoni scardati, le caselle scolorite, le rigature sul legno, la sabbia o il terriccio testimoni dei luoghi in cui giocavo. Ricordo tutto di quella mia prima scacchiera.
Il gioco degli scacchi è un gioco violento, forse il più violento tra gli sport — anche se io non riesco a considerarlo uno sport quanto piuttosto un modo di stare al mondo. Si può vivere con gli scacchi e si può vivere senza gli scacchi: sono due distinte categorie di persone, non ce n’è una terza.
Incontrare Garry Kasparov, quindi, è stata per me una sorta di epifania. Kasparov è un giocatore geometrico, ma allo stesso tempo, e a differenza di molti altri, non inizia una partita con una tattica prefissata. Per farsi un’idea della complessità di questo gioco basti pensare che le mosse possibili in una partita si indicano con un 1 seguito da 120 zeri. È in questo infinito che si misura la potenza di uno scacchista. Kasparov è un giocatore duttile, sa essere solido nello schieramento del suo esercito riuscendo a ottenere attacchi fulminei e letali. Giocare con lui significa provare a perdere gustandosi il proprio macello scacchistico o — ma solo se lui vorrà — lasciarsi guidare nel gioco come una novizia viene iniziata al tango da un ballerino professionista. Non danzerà bene ma almeno si divertirà.
Disponiamo la fila dei pedoni, lui mi lascia i bianchi. Durante la partita non si parla, quindi prima di iniziare gli dico che ho letto il suo libro, L’inverno sta arrivando, un lavoro tagliente che racconta con coraggio quello che Putin sta facendo ma che soprattutto farà. Ora, in base al sistema Elo (che valuta gli scacchisti di ogni epoca attribuendo un punteggio in base a vittorie, sconfitte e pareggi tenendo conto della forza degli avversari) Kasparov è in assoluto il più grande giocatore della storia. E dunque senza riuscire a trattenermi gli chiedo perché il più grande scacchista di sempre ha deciso di diventare il vero oppositore di Vladimir Putin. «Perché è giusto» mi risponde lui, «perché è... una vocazione», e sorride. Insisto. Chiunque critichi il potere viene sommerso e divorato dal fango. In Russia si è maestri assoluti di delegittimazione e, in molti casi, di eliminazione fisica del rivale. Non mi viene niente di meglio che essere diretto: perché rovinarsi la vita? Kasparov mi guarda come se avessi pronunciato la più ingenua delle domande. Dice testuale: «Se piove, apro l’ombrello». La pioggia di fango gli scivola addosso. La cosa che veramente lo inquieta è che il suo attivismo possa nuocere alla sua famiglia: mentre lui ormai vive a New York la madre è ancora a Mosca, e poi ha una moglie, quattro figli. «Hanno capito che la mia vita è questa e in qualche modo l’hanno scelta con me». Poi passa a utilizzare gli scacchi per una metafora: «Gli scacchi richiedono una strategia trasparente: io so quello che hai tu e tu sai quello che ho io; non so quello che stai pensando, ma almeno so quali sono le tue risorse. Putin, come tutti i dittatori, odia la trasparenza. Preferisce giocare a carte coperte perché solo così, come nel poker, è possibile bluffare. I dittatori possono essere grandi giocatori di carte, ma non saranno mai abili scacchisti perché per vincere devono mentire e intimorire l’avversario. Cosa che negli scacchi non è concessa».
È un amore sano quello che lo lega a questo gioco. «Gli scacchi occupano il trenta per cento della mia vita». Ciò che adesso gli sta più a cuore è la democrazia. Ed è sull’Europa che pone il suo sguardo. Ha una visione chirurgica quando parla di «una cultura di compromesso che dal ’45 protegge l’Europa, garantendole una certa stabilità. Le frontiere erano sicure, era un continente in pace. A rompere questo equilibrio è stato proprio Vladimir Putin». Per Kasparov non comprendere questo è la più grande inge- nuità che le democrazie del mondo libero possano commettere. Mi spiega tutto questo come se mi stesse mostrando la più lapalissiana delle verità: «Putin costituisce per l’Europa un pericolo maggiore dell’Is, minaccia l’esistenza stessa dell’Europa. Putin ha fisiologicamente bisogno del crollo delle sue istituzioni. La sua strategia è creare e alimentare il caos. Per questo ha puntato sulla guerra in Siria, un conflitto che ha messo in moto un numero impressionante di rifugiati che fanno pressione sui confini dell’Europa mettendone a dura prova la tenuta e la stabilità». Angela Merkel è la sua principale avversaria, Kasparov la considera invece «l’unico vero politico coraggioso oggi in Europa». Inoltre, aggiunge, essendo nata e cresciuta nella Ddr, sa che cos’è la mentalità comunista, sa come lavora il Kgb e sa quali sono le modalità con cui vengono gestiti gli oppositori politici.
Fisso la scacchiera e ora la vedo con occhi nuovi. È vero che il potere non può giocare a scacchi, perché in questo gioco non è possibile misurare e valutare ogni mossa e ogni tattica dell’avversario. Napoleone avrebbe voluto essere un grande giocatore di scacchi ma non lo è diventato mai. Dagli scacchi voleva far derivare nuove strategie da applicare al campo militare e alla formazione dell’esercito, non rendendosi conto che anche i trucchi, o le esche, negli scacchi devono fondarsi sulla lealtà. «Putin», mi sorprende Kasparov, «non si chiede perché fare una cosa, ma piuttosto perché non farla ». Ogni volta che viene concesso qualcosa a quello che lui definisce senza mezzi termini «il dittatore», il suo potere cresce. Non rispetta le regole, non ha bisogno di trovare una motivazione. Kasparov descrive il presidente russo come un uomo che non ha alcuna concezione del bene, del male, forse nemmeno una strategia a lungo termine. Semplicemente «fa tutto ciò che è utile a rafforzare il proprio potere».
Nel suo libro ci sono pagine da cui non si torna indietro. «La Russia», argomenta Kasparov, «sta avendo gravi problemi economici e finanziari, dati anche dal ribasso del prezzo del petrolio, dunque la spesa pubblica vede tagli in tutti i settori. Tranne due». Kasparov alza due dita della mano destra ma non è il segno della vittoria: «Primo: la sicurezza. Secondo: la propaganda». Mi parla della madre che ha settantotto anni, che è nata sotto Stalin e che ha vissuto in prima persona la caduta dell’Unione sovietica. È usando i suoi occhi che Kasparov mette a nudo la grande differenza tra le strategie di comunicazione del passato e quelle di oggi: «La macchina della propaganda sovietica aveva sempre una visione del futuro, proiettava il popolo verso una speranza di crescita e di grandezza, era sempre presente uno scopo pronto a giustificare l’infinità di sacrifici e sofferenze del presente, che un giorno sarebbero stati premiati dalla fratellanza comunista. La propaganda di Putin, invece, parla di nemici, di conflitti, di un mondo avverso alla Russia contro il quale Putin si erge come unico baluardo. Parla esclusivamente al presente. Senza il Boss la Russia non esisterebbe ».
Da anni cerco di studiare il ruolo delle organizzazioni mafiose russe, la loro diffusione nel mondo, la conquista di New York e di Londra. Sono tra le meno studiate e raccontate. Nei pochissimi casi, ci si concentra sul mero aspetto gangsteristico. L’analisi che Kasparov mi propone della mafia russa è senza paracadute: «La Russia di Putin si può in un certo senso considerare il paese più mafioso del mondo, perché tutto il sistema si basa sulla fedeltà: a Putin prima di tutto, e poi in linea verticale verso il basso. Se sei fedele al Boss sei fedele al sistema, e quella è l’unica cosa che conta. Non importa se ti macchi di qualche crimine ». Descrive la Russia di Putin come un grandissimo polipo che estende i suoi tentacoli anche fuori dai confini, anzi: «La maggior parte degli investimenti del regime non sono sul suolo nazionale ». Secondo Kasparov, Putin ha costruito la più sofisticata rete di agenti nel mondo, un network basato sui soldi e non sull’ideologia, che opera da Riga e Londra, da New York a Miami. Essendo un ex agente del Kgb, poi, il presidente russo sa come costruire rapporti personali con i capi di Stato all’estero. Relazioni che si fondano sostanzialmente su due meccanismi correlati tra loro. Il primo è mantenere all’estero l’illusione di una Russia conforme alle regole del gioco democratico; il secondo è permettere alla burocrazia russa, agli imprenditori, ai miliardari, agli agenti, di potersi interfacciare alla politica e all’economia del mondo libero senza regole.
Kasparov è calmo mentre mi parla, controllato, conosce l’argomento e lo espone da politico quale è, ossia da uomo che deve convincere ripetendo sempre i suoi concetti chiave. Ma come si può pensare di fronteggiare tutto questo con un libro, con degli incontri, con delle lezioni? È una impresa ingenua ancor prima che titanica. La risposta di Kasparov non è per nulla romantica. Cita un libro di Victor Sebestyen, giornalista ungherese, intitolato 1946. Leggendolo si capisce che, a un anno dalla fine della Seconda guerra mondiale, il mondo era un inferno. In Grecia c’era la guerra civile; in Inghilterra il cibo era razionato; la Germania era in preda alla carestia; in Cina era scoppiato un massiccio conflitto interno; a Calcutta erano all’ordine del giorno massacri di musulmani e hindu. Kasparov mi parla di questo libro per farmi vedere come la situazione ci paia sempre disperata, anche quando, come in questo momento, lo è meno del passato. La forza del nostro mondo è di pensare a lungo termine, dare vita a istituzioni e leggi che funzionino anche tra dieci anni. Per questo ha fiducia nella parola come arma.
Poi mi guarda e dice: «La cattiva notizia è che non ci è dato sapere quando cadrà un dittatore. La buona notizia è che neanche lui lo sa. Putin potrebbe rimanere al potere a lungo come per molto poco: l’attuale situazione economica in Russia è a uno stadio talmente grave che non è da escludersi una caduta improvvisa del regime ». Sa che l’eventuale caduta di Putin potrebbe generare un caos illimitato per il suo paese, ma sa anche che più a lungo «il dittatore » continuerà a governare, maggiore sarà il prezzo da pagare per la Russia e per l’Europa.
La psicologia ha un ruolo fondamentale negli scacchi. Capablanca, ad esempio, perse contro Alekhine nel 1927 sebbene fosse molto più forte di lui: era talmente sicuro di vincere che quando perse la partita nella fase iniziale si lasciò tormentare dagli errori commessi al punto da non riuscire più a essere sufficientemente lucido negli incontri successivi.
Una piccola sconfitta, non serve molto di più. Questa, dunque, la strategia che bisognerebbe adottare con Putin. Inaspettatamente costringerlo a una capitolazione, anche piccola, e questa sarà sufficiente a far crollare il suo impero.
Finalmente giochiamo. Decidiamo di muovere in pochi secondi. Ora Kasparov sta sacrificando un alfiere. So che è un’esca, l’ha fatto apposta, ma sono talmente pochi i centesimi di secondo in cui mi è dato ragionare che mangio l’alfiere, pensando che — poiché avrei perso in ogni caso — almeno potrò raccontare di aver mangiato una pedina importante al campione di tutti i tempi. Poche mosse mi separano dall’inevitabile tracollo e dallo scacco matto. Raccogliamo i pezzi, chiudiamo la scacchiera e Kasparov, con un pennarello, me la dedica.
Torno a casa sapendo che forse non si potrà mai vincere contro un avversario così grande, ma anche consapevole che il solo tentativo di metterlo in scacco è un’opera straordinaria. Capisco così perché proprio uno scacchista ha deciso di fare il grande oppositore di Putin. Uno scacchista non può che giocare d’intelligenza, di strategia, di lealtà. Non ci sono scacchi se non c’è libertà.
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