I sommovimenti in corso sono molto complicati. AFD non può ad esempio essere assimilata al FN, visto che ha un programma economico ultraliberista [SGA].
Alternative für Deutschland, un movimento populista anti-migranti tutto nuovo
Germania. Eletti nel parlamento europeo nel 2014 hanno integrato i Conservatori e riformisti
di Guido Caldiron il manifesto 15.3.16
Per la Germania è una prima volta. Mai, perlomeno dall’immediato
dopoguerra, a “destra della destra” era sorta una tale minaccia. Nemmeno
nella stagione di risveglio patriottico che fece seguito alla
riunificazione del paese, i Republikaner dell’ex stella della tv Franz
Schönhuber, o la Deutsche Volksunion del potente editore di memoriabilia
bellica Gerhard Frey avevano potuto sperare in un tale successo. Per
non parlare della Npd, il più longevo partito neonazista della
Repubblica federale, capace di garantire un inquietante ombrello legale
alle bande violente che scorrazzano specie nelle regioni orientali del
paese, ma non di costituire un altrettanto significativo pericolo nelle
urne.
A soli tre anni dalla sua fondazione, e dopo una torsione dalle iniziali
campagne euroscettiche a una linea risolutamente anti-immigrati, i
numeri e l’ampiezza dell’affermazione registrata dall’Alternative für
Deutschland rappresentano una novità assoluta per il panorama politico
locale. E questo a un anno esatto dalle prossime elezioni politiche
generali. La lunga “eccezione” tedesca sembra essere già stata superata
dai fatti: anche qui come nel resto d’Europa, la nuova destra populista e
xenofoba appare destinata a mettere radici, utilizzando il
passe-partout del rigetto degli stranieri per catalizzare ogni sorta di
malessere sociale o di inquietudine identitaria.
Ma la crescita spettacolare dell’Alternativa per la Germania,
partito-movimento la cui struttura e perfino le cui linee programmatiche
seguono e non precedono l’exploit elettorale, nei prossimi mesi un
congresso dovrebbe definirne organigramma e statuto, testimonia anche di
un altro processo che è in atto in Europa.
Per quanto l’AfD, che era sorto con il plauso di settori del mondo
imprenditoriale tedesco e grazie a più d’un transfuga della stessa Cdu,
proceda, specie ad est, talvolta in aperta sinergia con i razzisti
anti-musulmani di Pegida o grazie a un personale politico, come il
leader regionale della Turingia, Björn Höcke, notoriamente vicino agli
ambienti del radicalismo nero – la stessa giovane leader Frauke Petry
proviene da Dresda, città divenuta negli ultimi quindici anni
l’epicentro della nuova cultura nazionalista tedesca -, l’immagine
prevalente del partito è più simile a quella dei movimenti populisti che
non alla vecchia estrema destra.
Forse non a caso i rappresentanti dell’AfD eletti nel parlamento europeo
nel 2014 hanno integrato quel gruppo dei Conservatori e riformisti
europei, guidato dal leader dei conservatori britannici David Cameron –
terzo gruppo del parlamento Ue con 70 membri -, che riunisce quelle
forze della nuova destra europea che intendono giocare la carta di una
sorta di “populismo di governo”: dai polacchi di Diritto e giustizia di
Jaroslaw Kaczynski, da qualche mese al potere a Varsavia, ai
neonazionalisti fiamminghi della N-Va, ago della bilancia dell’esecutivo
di centrodestra del Belgio, dal Movimento dei Veri finlandesi di Timo
Soini, che hanno integrato lo scorso anno la maggioranza di governo di
Helskinki, fino a quel Partito del popolo danese, responsabile
nell’ultimo decennio del drastico cambio di registro sull’accoglienza
avvenuto a Copenhagen.
In altre parole, una destra tutt’altro che solo chiacchiere e distintivo
che, sull’esempio di quanto è riuscito a fare Cameron che ha imposto a
Bruxelles, agitando il fantasma della Brexit, una sorta di “preferenza
nazionale” per i suoi concittadini, non punta solo a evocare allarmi e
paure, quanto piuttosto a trasformarli in sinistre pratiche di gestione
della cosa pubblica. In questo caso, una temibile “alternativa” per la
politica tedesca.
Il laboratorio di Berlino
di Angelo Bolaffi Repubblica 15.3.16
Irisultati
delle elezioni regionali di domenica scorsa in Germania hanno cambiato
la geografia politica tedesca: risultati che è troppo riduttivo (e
semplicistico) leggere solo come una “sconfitta della Merkel”. O solo
come una svolta a destra del paese. Certo, c’è stata l’affermazione,
anche clamorosa come nel Land della Sassonia-Anhalt, della Afd.
SEGUE A PAGINA 13
UN
movimento radical-conservatore che ha “emozionalizzato” il dibattito
politico sulla immigrazione. Ma a ben vedere le novità destinate a
pesare nel futuro assetto politico tedesco sono anche altre. Intanto la
vittoria del “verde”’ Winfried Kretschmann nel Land del
Baden-Württemberg: e cioè nella regione economicamente decisiva (con la
Baviera) del paese. Produce da sola il 10 per cento della ricchezza
nazionale grazie a un tessuto molto intenso di piccola e media industria
che la rende molto simile al nostro Nord-est oltre a essere uno dei due
centri della produzione automobilistica tedesca. Ed è la regione
demograficamente più importante dopo la Renania del Nord-Vestfalia e la
Baviera. Tanto per capirci: la Sassonia- Anhalt conta poco più di 2
milioni di abitanti. Il Baden-Württemberg quasi 11 milioni. Tutto lascia
prevedere che non avendo più una maggioranza la coalizione rosso-verde
che finora aveva guidato il Land si andrà a una coalizione tra Verdi e
Cdu. E quindi, dopo la regione dell’Assia, anche il Baden-Württemberg
diverrà il laboratorio di quella che dopo le elezioni politiche
dell’anno prossimo potrebbe diventare la coalizione di governo
dell’intero paese. Una prospettiva già caldeggiata dalla Merkel dopo le
elezioni del 2013 ma fallita per l’opposizione dell’ala più “ortodossa”
del partito Verde contro la quale proprio Kretschmann (e con lui Joschka
Fischer) avevano duramente polemizzato. Ma la vera, grande svolta
rispetto a tutto il dopoguerra politico tedesco è la grave crisi dei due
grandi partiti di massa: Cdu e Spd, infatti, non appaiono più in grado
di svolgere quell’azione di integrazione e sintesi politica che ha
garantito la storica e molto ammirata stabilità della Germania. I
risultati di domenica confermano, dunque, quello che già molti analisti
avevano previsto: la Germania non dispone più della risorsa politica di
ultima istanza che si chiama grosse Koalition.
Certo la Cdu ha
perso in modo meno clamoroso della Spd anche se la sconfitta nel Baden-
Württemberg, uno dei tradizionali serbatoi elettorali del partito, avrà
conseguenze nelle prossime elezioni politiche.
Molto più
problematico, forse addirittura drammatico, appare invece il futuro
politico della Spd. Sicuramente la vittoria della esponente
socialdemocratica Malu Dreyer nel Land della Renania del Nord-Palatinato
ha evitato un vero e proprio disastro elettorale.
Ma si tratta di
una vittoria più dovuta al carisma personale che alla capacità
programmatica di un partito letteralmente in declino che ha ormai da
tempo difficoltà ad essere un punto di riferimento politico e
spirituale. È facile prevedere che tutto questo provocherà tensioni sia
all’interno dei due partiti che dello stesso governo, tensioni che
aumenteranno nei prossimi mesi con l’avvicinarsi delle elezioni
politiche. La Spd si trova stretta nella morsa tra quella che è stata
definita la “smobilitazione asimmetrica” praticata dalla Merkel che ha
occupato temi una volta patrimonio della sinistra riformista. E la
concorrenza dei Verdi che stanno riuscendo a legittimarsi quali
rappresentanti politici della “seconda modernità” ( critica pragmatica
degli eccessi della “prima modernità” senza cadere nell’antimodernismo
ideologico) e sostenitori di una visione cosmopolita e liberale della
società. La Cdu a sua volta dovrà ripensare se e come riuscire a
rappresentare ceti sociali moderati e culture conservatrici, pena
lasciare alla sua destra spazi che la Af cercherà di occupare, prendendo
sul serio paure e risentimenti di quanti si sentono culturalmente e
socialmente minacciati “dai nuovi ospiti”. In questo senso risulterà
decisivo se Merkel sarà capace di trovare una soluzione alla questione
dei profughi andando oltre il pur nobile impegno a non voler chiudere i
confini o all’appello a trovare una soluzione europea. Era già accaduto
in anni passati con il partito neonazista della Npd e poi con quello dei
Republikaner che rappresentanti dell’estremismo di destra entrassero
nei parlamenti locali di regioni e comuni. Salvo poi scomparire nel
breve volgere di una stagione politica. Sarà così anche con la Afd ? O
questa volta andrà diversamente e anche in Germania, come in tutti gli
altri paesi europei, un partito xenofobo entrerà nel Parlamento
nazionale? Intanto sarebbe un errore fatale pensare che tutti coloro che
hanno votato Afd siano dei neonazisti. In secondo luogo se quella delle
grandi migrazioni di massa è un fenomeno dell’età globale è più che
probabile che con esso dovremo fare i conti molto a lungo. E quindi
anche con la presenza della Afd. Ma una cosa è certa: lo scenario
politico tedesco sarà occupato dallo scontro tra due Germanie. Da una
parte la Germania europea e dall’altra la Germania teutonica: una
contrapposizione che in parte coincide con quella geografica tra l’Ovest
della vecchia Repubblica federale e l’Est della ex Rdt. Dall’esito di
questo scontro , questo dovrebbe esser chiaro, dipende in larga misura
il futuro del Vecchio continente.
Il populismo della paura
di Roberto Toscano Repubblica 15.3.16
NON
è uno tsunami. In nessuno dei tre Laender dove si è votato domenica si è
registrato un cambiamento radicale degli assetti politici, e sarebbe
certamente prematuro parlare di un inarrestabile declino di Angela
Merkel. E tuttavia quello che emerge dalle urne è qualcosa di più di un
avvertimento.
SI tratta di un segnale da non trascurare
soprattutto perché dimostra la forza crescente di un partito,
l’Alternativa per la Germania - AfD che ha ricavato una spinta
sostanziale (fino al 25 per cento circa ottenuto in Sassonia-Ahnalt) da
una singola questione, il problema delle migrazioni. Populismo? Certo,
se per politica populista intendiamo il dare risposte semplici a
problemi complessi e dire alla gente quello che la gente vuole sentire,
non quello che è giusto dire. Ma, soprattutto se ampliamo la nostra
ottica oltre i confini della Germania, faremmo bene a non fermarci a una
definizione — piuttosto un epiteto — che ormai, nell’uso corrente,
abbraccia troppo (da destra a sinistra, da Marine Le Pen a Bernie
Sanders), fino a perdere ogni significato.
Il populismo è sempre
esistito, e si può anzi dire che costituisca una componente di ogni
ricerca del consenso. Va anche aggiunto che i politici con tasso di
populismo uguale a zero non hanno mai avuto molto successo, mentre lo
stesso non si può certo dire degli iper-populisti, disinvoltamente
incuranti sia della coerenza che della logica, ma spesso vincenti. E
allora ha più senso passare dalla forma al contenuto. Il populismo che
in tutta Europa, e non solo in Germania, è diventato un serio fattore è
un populismo molto specifico: il populismo della paura. Paura
d’invasione da parte di centinaia di migliaia di persone che vengono a
rubarci il lavoro in tempi di stentata crescita economica e a competere
sul terreno dei benefici sociali in un momento in cui il welfare tende
ad essere ridotto. La paura non ha solo una natura economica, ma tocca
la sfera dell’identità culturale (gran parte dei migranti sono
musulmani) e della sicurezza (quanti terroristi possono infiltrarsi fra i
migranti?). Tutti problemi reali ai quali andrebbero date risposte
serie in termini sia di razionalità politica sia di sostenibilità
economica, ma senza dimenticare chi siamo come europei. O forse verrebbe
da dire come credevamo di essere, visto che in quasi tutti i paesi
dell’Unione sembra aumentare una deriva xenofoba che minaccia di
distruggere la nostra identità molto di più che non la comparsa del velo
islamico nelle nostre strade o di minareti nei nostri paesaggi.
Il
populismo della paura parte dai problemi reali per passare a proposte
del tutto fantasiose. «Chiudere le frontiere»: come se l’esperienza non
avesse abbondantemente dimostrato che i movimenti di popolazione possono
essere regolati, non totalmente impediti, e che non si è ancora
inventato un confine davvero invalicabile. «Proibire l’ingresso dei
musulmani»: dimenticando che in Europa già ci sono milioni di musulmani
come prodotto dell’eredità coloniale (Regno Unito, Francia) o delle
esigenze economiche (Germania), tanto che sarebbe giusto parlare non
solo di migranti musulmani, ma anche di “musulmani europei”. «Sospendere
Schengen»: una prospettiva che minaccerebbe di essere fatale per
l’Unione Europea, e che per noi italiani risulterebbe particolarmente
negativa, dato che ci troveremmo nelle condizioni in cui si trova la
Grecia, dove sono bloccati migliaia di rifugiati senza sbocco. Una
prospettiva tutt’altro che ipotetica nel momento in cui la chiusura
della frontiera macedone sta per produrre una diversione del flusso
verso l’Albania in direzione dell’Adriatico e dell’Italia. Risposte
semplici (e insensate) a problemi complessi. Ma i dirigenti politici che
cavalcano la paura, anzi la stimolano sistematicamente, hanno un’agenda
che va oltre il problema delle migrazioni. Hanno una strategia politica
molto più ambiziosa, e — pur con tutte le differenze che li
caratterizzano — condividono un’ideologia di fondo: quella della
“democrazia illiberale”. Un sistema politico dove il popolo viene
consultato, ma dove il potere, ottenuta la legittimazione elettorale,
chiude gli spazi del pluralismo e impone l’omogeneità definendo quella
che deve essere l’identità della nazione. Le democrazie illiberali già
esistono: la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin, per esempio. E non
è un caso che il Front National di Marine Le Pen abbia la simpatia (e
anche l’appoggio materiale) di Mosca, e che Salvini, da noi, simpatizzi
apertamente con le posizioni della Russia - dove dove si è riesumata la
vecchia identità (Russo = Ortodosso) della Russia zarista. È l’opposto
di quel “patriottismo costituzionale” che si pensava caratterizzasse
irreversibilmente l’Europa: una comune e forte appartenenza, come
cittadini, aperta a una pluralità di origini etniche, fedi, tendenze
politiche. È una regressione politico-culturale che avanza accompagnata
da una retorica che non ha problemi di credibilità e nemmeno teme il
ridicolo, come non lo teme il Ministro degli esteri polacco
Waszczykowski, secondo cui bisogna respingere un mondo fatto di «una
nuova mescolanza di culture e razze, un mondo di ciclisti e
vegetariani». Purtroppo, non basterà una risata per fermarli.
Petry ora punta al Bundestag “Siamo un partito di massa”
Dopo
il successo alle regionali, si delinea l’agenda dell’AfD: dalla
privatizzazione della tv pubblica alla stretta sul diritto d’asilo.
Merkel: la nostra linea non cambia
di Alessandro Alviani La Stampa 15.3.16
Il
giorno dopo il trionfo alle regionali di domenica in tre Länder, la
leader della AfD Frauke Petry lancia un nuovo slogan: «Siamo il partito
della pace sociale». La Germania, ha spiegato ieri Petry a Berlino, è
attraversata da anni da una crescente frattura sociale, «il ceto medio
si impoverisce sempre di più» e il Paese assiste a una «etnicizzazione
della violenza», al punto che la polizia non osa più metter piede in
alcuni quartieri. Ergo: c’è bisogno di un partito che si concentri sulla
pace sociale «e quel partito siamo noi». La AfD prova insomma ad
allargare le proprie basi e a non farsi ridurre a formazione
anti-rifugiati. Petry vede la AfD già sulla strada verso una
«Volkspartei», un partito di massa. Già domenica l’«Alternativa per la
Germania» ha pescato voti non solo nella Cdu, ma anche nella Linke
(sinistra radicale) e nella Spd, ma soprattutto ha conquistato il voto
di quasi 400.000 cittadini che alle ultime elezioni erano rimasti a
casa. Dati alla mano, quella che era nata tre anni fa come una
formazione di professori anti-euro non sembra più una meteora: negli
ultimi due anni ha superato lo sbarramento del 5% in tutte le regionali e
oggi è presente nei Länder in otto parlamenti su sedici. E pensare che
nel 2015 rischiava di fare la fine di tutti i partiti e partitini di
destra o populisti nati in Germania negli ultimi anni. Al termine di un
lungo scontro interno il gruppo riunito intorno a Frauke Petry ha infine
messo in minoranza l’ex numero uno, Bernd Lucke. La AfD si è spaccata,
Lucke ha fondato un suo mini-partito, Frau Petry ha virato a destra - e
ha tratto profitto dalla politica delle porte aperte imboccata da
Merkel. Che però, nonostante la sconfitta nelle urne, ribadisce di non
voler cambiare la sua linea. La AfD è riuscita a intercettare il
malumore di quella fetta di tedeschi indignati coi partiti tradizionali,
scettici sulle politiche sui rifugiati, preoccupati di retrocedere
nella scala sociale e temono l’aumento della criminalità o un peso
eccessivo dell’Islam in Germania. Ed è proprio su quest’ultimo fronte
che la AfD potrebbe concentrare la sua prossima battaglia. «Il diritto
d’asilo e l’euro sono temi logori, non portano nulla di nuovo», ha
scritto Beatrix von Storch, una dei tre vice di Petry, in una mail
interna citata dallo Spiegel. Ecco allora che nella bozza del programma,
la AfD chiede di vietare di indossare in pubblico il burqa e il niqab e
di proibire minareti e canti dei muezzin. Resta la volontà di mettere
limiti l’applicazione del diritto d’asilo.
Ad essere vietati
dovrebbe essere inoltre la circoncisione per motivi religiosi, praticata
dalle comunità ebraica e musulmana («viola la dignità umana»), così
come la macellazione rituale senza anestesia. E ancora: carcere già a 12
anni invece che a 14; tossicodipendenti e alcolisti non più curabili
con una terapia, così come i criminali con malattie psichiche dovrebbero
finire in carcere piuttosto che in una clinica; la Germania dovrebbe
tornare al nucleare e organizzare un referendum sulla permanenza
nell’euro; la tv pubblica dovrebbe essere privatizzata e il canone
abolito. Potrebbe essere questa la piattaforma programmatica con cui la
AfD tenterà nel 2017 di entrare al Bundestag.
Il dilemma della Merkel tra Mosca e Ankara
di Timothy Garton Ash Repubblica 18.3.16
PERCHÉ
la Germania e non l’Italia?» chiedo a Jawad, sedici anni, magro,
sguardo vivace, davanti alla sua casa, una tenda di sei metri quadri, in
una palestra di Berlino Est adibita a centro di accoglienza per i
profughi. È venuto dall’Afghanistan con la famiglia. Sei mesi fa non
sapeva una parola di tedesco ma ora risponde senza esitazione: « Italien
hat kein Geld! ». L’Italia non ha soldi. Chiaro e semplice.
Un
milione di Jawad in arrivo in un solo anno hanno scosso la Germania
ricca e liberal-borghese al punto che un partito xenofobo,
anti-immigrati, si è appena aggiudicato un quarto dei voti in uno stato
della Germania orientale. In tutto il mondo ci si chiede se il centro
d’Europa terrà.
Sotto il profilo politico e economico la Germania è
il centro d’Europa. La “grande coalizione”, il governo formato dal
centro destra cristiano democratico e dal centro sinistra
socialdemocratico, è il centro della Germania. E Angela Merkel è il
centro di quel governo centrista. Davvero, quindi, la Merkel è il centro
d’Europa.
Di fronte a un esito elettorale negativo per il suo
partito, la Cdu, in tre stati federali, la Merkel resta all’apparenza
impassibile, fedele alla sua proclamata strategia Ue-turca che il
vertice dell’Unione è chiamato ad approvare a Bruxelles oggi. Si tratta
della paziente, pragmatica fermezza che le ha conquistato tanta stima?
Oppure è l’arroganza che subentra, quasi per legge fisica, quando un
politico è al potere da più di dieci anni? (Margaret Thatcher, Helmut
Kohl, Recep Tayyip Erdogan – la lista è lunga).
Per ora il centro
della politica tedesca ha retto, ma è addentato ai margini, come una
cialda croccante. Anche i sui partner di coalizione, i
socialdemocratici, sono andati male in queste elezioni e nel grande e
prospero Baden-Württemberg hanno vinto i Verdi. Sono sei ora i partiti
da prendere seriamente in considerazione, sette se si scorpora l’Unione
Cristiana Bavarese (Csu), apertamente critica nei confronti della
politica della cancelliera sui profughi. Il giornalista Stefan Kornelius
fa presente che l’asse della politica tedesca potrebbe spostarsi
passando dal confronto tra sinistra e destra a quello tra il centro e le
estremità. I politici dei partiti tradizionali usano normalmente la
dizione “partiti democratici” per distinguerli dall’ultrasinistra e ora
da Alternativa per la Germania (AfD), il partito anti- immigrazione e
anti-euro.
Il successo elettorale di AfD ha fatto notizia in tutto
il mondo. Certi suoi candidati hanno detto cose terribili. Michael
Ahlborn, in Sassonia-Anhalt, uno stato dell’Est, ha definito i turchi
Drecksvolk, un popolo di merda. Günter Lenhardt, riservista militare e
candidato del partito nel Baden-Württemberg, ha detto che «Ai profughi
non cambia nulla se muoiono alla frontiera greca o a quella tedesca ».
Ma queste affermazioni, vicine alla retorica di Pegida, il movimento
xenofobo di estrema destra, possono nascondere ai nostri occhi il vero
problema. Tutti quelli con cui ho parlato nel corso dell’intensa
settimana passata a Berlino concordano che l’elemento sorprendente di
AfD è il sostegno di cui gode tra gli appartenenti alla classe media
colta: professori, medici, imprenditori, avvocati, gente che sa
perfettamente quando usare il titolo di Frau Doktor essendo spesso loro
stessi a fregiarsi di quello di Herr Doktor, se non di Herr Professor.
Per
contrastare questa radicalizzazione e frammentazione, il centro – e il
centro del centro, alias la Merkel – deve fare due cose molto
impegnative: dare dimostrazione ai tedeschi che ne dubitano della
capacità della Germania di integrare con successo più di un milione di
nuovi ingressi, portatori di una cultura diversissima e, in seconda
battuta, tamponare il flusso di nuovi arrivi. Quanto al primo punto,
basta una visita a un centro di accoglienza profughi per rendersi conto
dello sforzo straordinario di ospitalità pubblica civile che il Paese
sta compiendo (6 metri quadri per ciascuno, mi dice il supervisore del
centro profughi di Berlino, cibo, abiti, cure mediche, inserimento nelle
scuole in classi speciali, una piccola somma versata mensilmente su un
conto corrente) ma è anche chiaro che i numeri stanno mettendo a estrema
prova le risorse dello Stato e la pazienza della cittadinanza.
Tamponare
il flusso, anche se tutto procede secondo i piani della Merkel, implica
una allarmante dipendenza da due sovrani imprevedibili e non
democratici, Erdogan e Vladimir Putin – il sultano e lo zar. Per
mantenere l’apertura, fondamentalmente etica e umana, della Germania nei
confronti dei veri profughi, la Merkel ha appoggiato una proposta che è
etica, ma anche giuridicamente problematica: radunare i profughi in
campi in Grecia e quindi procedere a uno scambio “uno contro uno” con i
profughi siriani in Turchia. Questo significa inoltre che l’Ue accetta
il sultano turco anche se sta calpestando la libertà di stampa e
violando altrimenti i diritti umani e gli standard europei. Significa
poi dipendere dalla Russia di Putin per mantenere in atto la rischiosa
“cessazione delle ostilità” in Siria. Parlando con fonti vicine alla
cancelliera risulta purtroppo chiaro che tutta la loro politica dipende
dai rapporti con la Turchia e con la Russia. Per descriverla si è
ricorsi al termine Überrealpolitik ma, come sempre, bisogna chiedersi
quanto sia realistico il “realismo” in politica estera. Questo prima
ancora di arrivare all’ipotesi che molti altri profughi tentino la
pericolosissima traversata dalla Libia all’Italia, rischiando la morte
in mare, o per altre vie. La crisi dei profughi in questo momento domina
la politica tedesca ma è solo una delle tante crisi che aggrediscono il
potere centrale d’Europa. Ci sono anche l’eurocrisi, il conflitto
armato di bassa intensità e la corruzione ad alto livello in Ucraina, un
governo nazionalista conservatore nella vicina Polonia, Marine le Pen
in Francia – e poi, dimenticavo, il rischio Brexit. In realtà i tedeschi
non vogliono che la Gran Bretagna esca dall’Ue, ma non è la loro
priorità. Se noi britannici voteremo la Brexit, non offriranno alla Gran
Bretagna un accordo più favorevole, ma si rivolgeranno alla Francia,
con l’intento di dar vita a un forte nucleo centrale europeo. Se la
sedicente nazione isola non aiuterà il resto d’Europa, dovrà cavarsela
da sola. I tedeschi hanno un lavoro importante da fare: ristabilizzare
un Paese e anche un continente.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Migrazioni Tzvetan Todorov, «Il problema non va posto in termini solo morali L’accoglienza ci conviene»
intervista di Stefano Montefiori Corriere 18.3.16
PARIGI
«Sono stato migrante anche io, cinquant’anni fa, sia pure in condizioni
completamente diverse. Gli immigrati in arrivo dall’Est comunista
venivano accolti con piacere, tanto più se erano illegali. Una cosa
abbastanza comica, il contrario di adesso», dice lo storico Tzvetan
Todorov, nato in Bulgaria 77 anni fa e dal 1963 a Parigi.
Che cosa pensa dell’atteggiamento dei leader europei?
«Si
stanno comportando in modo miope. L’unica che mesi fa ha avuto uno
scatto e si è mostrata diversa dagli altri è stata la cancelliera
tedesca Angela Merkel».
Perché, secondo lei?
«Questo è il
fondo della questione. Merkel ha promesso di accogliere i migranti non
perché aveva una morale più pura degli altri, perché era più generosa o
voleva farsi perdonare le colpe passate del popolo tedesco: si è
semplicemente dimostrata più lucida. Ha pensato all’avvenire del suo
Paese a lungo termine, e ha potuto permetterselo perché era una leader
popolare, forte. Ha capito che, alla distanza, queste persone — spesso
istruite, dinamiche, vogliose di recuperare delle condizioni di vita
decenti — faranno del bene alle nostre economie e alle nostre società.
La diversità è un fattore positivo».
Ma poi ci sono stati i fatti
di Colonia, il clima è cambiato, anche la Germania sembra avere mutato
posizione e negozia un accordo con la Turchia che va in direzione
opposta.
«È vero, prevale di nuovo il sentimento di paura. Ed è
poco credibile mercanteggiare con la Turchia, proporre lo scambio “voi
prendete i migranti e noi vi facciamo entrare nell’Unione Europea”.
Anche se non bisogna essere troppo severi con i turchi, che ospitano un
numero considerevole di rifugiati siriani».
L’Europa ha sfiorato
il disastro con la crisi della Grecia, è divisa sulla politica
economica, ora sembra abdicare anche ai suoi valori e non si vergogna
dell’egoismo. È il momento della crisi ideale?
«Non dovremmo
fondare la nostra politica su considerazioni puramente morali. Ci piace
pensare che siamo eredi di tradizioni di generosità e che quindi
dovremmo aprire le porte. Messa così, sembra che i migranti siano un
peso ma noi abbiamo un cuore grande. Invece le cose non stanno in questi
termini. Dovremmo accoglierli perché è nel nostro interesse.
L’importanza del gesto iniziale di Merkel resta, dimostra che almeno lei
ha capito».
L’Unione Europea rischia, sui migranti, a tre mesi dal referendum britannico, un crollo senza ritorno?
«È
vero che l’Europa oggi non si mostra all’altezza della situazione, ma
credo che le ragioni obiettive dell’appartenenza all’Unione siano molto
profonde. Non perdo tutte le speranze. Sono dispiaciuto per la freddezza
attuale ma credo che una maggiore integrazione finirà con l’imporsi,
comunque. Non so in che forma, magari attorno a un nocciolo duro di
Paesi capaci di costituire un avanguardia».
Crede che le ragioni profonde avranno ragione dei populismi antieuropei?
«Lo
spero. Oggi i leader europei sono paralizzati dalla paura di un voto
xenofobo, le scadenze elettorali fanno sì che i governi abbiano paura di
prendere le decisioni più giuste. Ma io confido che arriveranno delle
congiunture più favorevoli, dei leader capaci di pensare al futuro dei
loro Paesi e non alla prospettiva di qualche mese».
IL DILEMMA DELLE DESTRE
MARC LAZAR Restampa 19 3 2016
PRIMA, in Europa, la situazione in campo politico era chiara. La sinistra, ormai da decenni, perdeva elettori, iscritti, influenza culturale, ed era profondamente divisa su quasi tutti gli argomenti. Era in preda a un declino, definito talvolta come irresistibile. I suoi avversari se ne rallegravano, i suoi sostenitori lo deploravano, gli studiosi ne facevano uno dei loro campi di studio prediletti. La destra, al contrario, sembrava sprizzare salute: alcuni saggisti affermavano che la sua vittoria era ormai ineluttabile e le pronosticavano un radioso avvenire, visto e considerato che le nostre società sono dominate dall’ideologia liberista, popolate da esseri profondamente individualisti, narcisisti, consumisti e sempre più vecchi e dunque conservatori inveterati.
Ora sta esplodendo un fatto nuovo: anche la destra si sta frantumando e indebolendo. L’Italia ne offre un eccellente esempio, con i conflitti tra Forza Italia, Lega Nord, Destra e Fratelli d’Italia. In Germania, la Cdu-Csu sta affrontando una grande crisi sulla questione dei migranti e sotto la pressione dei successi elettorali dell’Afd (Alternativa per la Germania), che ha registrato un’avanzata clamorosa nelle ultime tre elezioni regionali. Il Partito popolare spagnolo alle elezioni dello scorso dicembre ha perso più di 3 milioni e 600mila elettori, in gran parte confluiti nell’astensione o passati a Ciudadanos, ed è scosso da scandali di corruzione e finanziamento illecito. Il Partito conservatore britannico sta andando in pezzi sulla questione del referendum per la permanenza nell’Unione Europea previsto per giugno. In Francia, la destra si sta spaccando in vista delle primarie del prossimo autunno, che designeranno il candidato alle presidenziali del 2017.
A sconquassare la destra è la crisi economica, ma soprattutto l’evoluzione dell’Unione Europea, gli effetti della globalizzazione e la gestione dei migranti. E oltre a queste ci sono altre due grandi sfide. La prima nasce dei successi dei nuovi partiti contestatari e populisti, che sono diversissimi tra un Paese e l’altro, ma fanno tutti appello al popolo, si presentano come nuovi (e a volte lo sono davvero) e criticano la collusione dei partiti tradizionali che cercano di bloccare la competizione politica per impedire ad altre formazioni di accedere al potere e beneficiare delle sue risorse, simboliche e materiali. L’Afd in Germania, l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte nazionale in Francia, la Lega Nord, Fratelli d’Italia o – in modo diverso – il Movimento 5 Stelle in Italia, Ciudadanos in Spagna, presentano delle differenze reali, ma sfidano tutti tanto la sinistra quanto la destra. Da qui il dilemma dei partiti che si trovano ad affrontare una concorrenza a destra (non è il caso della Spagna): continuare a fare riferimento ai loro valori tradizionali per conservare gli elettori moderati o addirittura sedurre quelli della sinistra e gli ecologisti, come fa per esempio Angela Merkel? Oppure spostarsi il più possibile a destra sperando di recuperare gli elettori perduti, come cerca di fare Sarkozy in Francia? Bisogna ispirarsi a Marine Le Pen o Donald Trump, come fanno Matteo Salvini e molti altri esponenti della destra italiana, a rischio di perdere gli elettori centristi?
La seconda sfida è quella della leadership. La destra si era adattata molto più facilmente della sinistra alla democrazia del pubblico, che accorda un ruolo fondamentale al leader che si rivolge direttamente all’opinione pubblica. L’adattamento variava a seconda dei Paesi e delle loro istituzioni, sistemi elettorali, partiti e tradizioni politiche. Ma la tendenza era netta.
Ora la destra sperimenta amaramente che più il leader è forte più è debole, perché costantemente esposto. La minima sconfitta elettorale lo mette direttamente in pericolo. E l’usura del tempo e del potere produce effetti devastanti, specialmente quando si tratta di gestire la successione: la fine di Berlusconi diventa patetica; il tentativo di ritorno in campo di Nicolas Sarkozy sta assumendo i tratti di una via crucis; Mariano Rajoy si gioca la sua sopravvivenza politica e giudiziaria e una sua eventuale caduta potrebbe trascinare con sé anche il partito che guidava come un dittatore; la sorte di Cameron si giocherà sull’esito del referendum che lui stesso ha scelto di organizzare; solo Angela Merkel sembra riuscire a cavarsela, forte dell’assenza, almeno per il momento, di rivali seri.
Certo, la destra e la sinistra rimangono le principali forze di governo. E incontestabilmente la destra se la passa molto meno male della sinistra. Ma entrambe sono destabilizzate, e questo per l’Europa rappresenta un cambiamento considerevole, se non addirittura storico, che si declina in forma variabile da un Paese all’altro. Destra e sinistra sono lacerate tra posizioni inconciliabili: alcuni sono tentati dalla radicalizzazione del loro campo (bisogna essere “veramente” di sinistra o “veramente” di destra), altri si battono per trasformazioni profonde o addirittura per il superamento degli schieramenti tradizionali. Siamo entrati con ogni probabilità in una fase di profonda ricomposizione: non solamente dei partiti, ma delle culture e identità politiche dell’Europa.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
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