sabato 12 marzo 2016

Non c'è Speranza per Spezzaferro. Gli restano il PdCI e il Manifesto



Gli ultimi dalemiani (non richiesti)

Il Pdci conferma di essere solo una costola della corrente dalemiana anche dopo che questa corrente è stata sciolta e la costola stessa non esiste più.
L:esperienza insegna: chi tocca il PdCI prende la dalemite o muore politicamente. Da quel momento comincia a vedere la sinistra ovunque ci sia la possibilità remota di un assessorato, persino nella sentina di Bassolino, oppure viene per sua fortuna espulso.
Si tratta del resto di un fatto scientifico che i compagni di Marx XXI sperimentavano sulla loro pelle negli stessi giorni in cui venivano scoperte le onde gravitazionali.
Finché ci saranno queste posizioni nostalgiche del centrosinistra che ci ha schiantati e delle bombe cossutte su Belgrado - finché avranno un ruolo formalmente dirigente - non sarà possibile ricostruire mai nulla, perché tutto l'ambiente politico sarà dilibertamente inquinato.
Persino Brioscino gli fa i pernacchi [SGA].

D'Alema Ti Amo
PdCI
"Vediamo se posso fare un ragionamento politico senza essere coperta di insulti. Il PD è oggi perso ad ogni causa democratica. È un partito di potere e basta che ha messo in atto i dettami della UE contro il popolo italiano. Ha distrutto la condizione dei lavoratori, dei pensionati, dei malati, della scuola. È il partito dell'attuale capitalismo ultraliberista che cerca la sua vendetta di classe sugli anni 70 del novecento. Siamo d'accordo? Quel partito viene dal PCI. L'ha tradito ma mantiene al suo interno alcuni semi. Nel PD non esiste un'opposizione dignitosa, ma solo opportunista. L'uscita di D'Alema ci interessa? I soprassalti di Bassolino, dopo quelli di Cofferati, hanno per noi un interesse? La disaffezione profonda e l'astensionismo dell'elettorato vanno da noi ascoltati? Io dico di si. E non c'entra nulla il rapporto col PD che è impossibile e impercorribile"

Lo strappino di D’Alema 
Democrack. L’ex premier alzo zero sul partito, ma è solo. Opposizione interna alle prese con il referendum costituzionale: ma Renzi non consente defezioni. L’attacco: «Dirigenti arroganti e stupidi, dal malessere del Pd nascerà una nuova sinistra. La minoranza non dà battaglia». Gelo di Speranza: «Noi stiamo nel partito con tutti e due i piedi»

Daniela Preziosi Manifesto 12.03.2016 
È un fiume in piena, l’esplosione del tappo da una bottiglia troppo a lungo sotto pressione. Massimo D’Alema dalle colonne del Corriere della Sera cannoneggia il Pd, «finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», che respinge il ricorso di Bassolino «perché in ritardo. Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità», le primarie «manipolate da gruppetti di potere», diventate «un gioco per falsificare e gonfiare dati». Ce n’è per tutto il partito, da Renzi in giù, passando per Orfini, appunto quello «arrogante», giù fino al candidato sindaco di Roma Roberto Giachetti inchiodato a un fotomontaggio della rete in cui traina un risciò in cui è seduto Renzi («la città ha bisogno di una personalità più forte»). Giù giù fino alla minoranza Pd per la quale ha parole di compatimento: «non mi pare che riesca a incidere sulle decisioni fondamentali», anche perché «non c’è nessuna battaglia nel Pd». Giù ancora fino alla sinistra fuori dal Pd alla quale pure voleva suggerire, o imporre, un candidato sindaco al posto di Stefano Fassina, ovvero l’ex ministro Massimo Bray. A questa sinistra che si sforza di rifondarsi ancora una volta D’Alema non dà molto credito: «Inutile costruire nuovi partitini». 
Quando di buon mattino l’ex premier si materializza a piazza Montecitorio per recitare un magistrale intervento in un seminario sulla guerra organizzato dal professore Carlo Galli (Si), rincara la dose: «La rottura a sinistra rischia di far perdere le elezioni, i voti che porteranno Verdini e Alfano non compenseranno i voti persi», ma se il Pd perderà le amministrative «non credo che Renzi si scolli dalla poltrona». 
La contraerea del Pd renziano e diversamente renziano si alza subito: sono solo «le ultime ruote di un pavone dai colori sbiaditi» (l’ortodosso Federico Gelli), «la strategia che per ricostruire il centrosinistra va sfasciato il Pd ricorda Tafazzi» (il turco Francesco Verducci), «è ormai un antagonismo radicale al Pd» (il veltroniano Walter Verini). Matteo Orfini, ex pupillo dell’ex premier risponde con ironia tagliente: «È un non senso essere disconosciuti da D’Alema per l’arrganza». Il pezzo grosso dell’artiglieria, c’è da scommettere, arriverà domenica da Renzi, che parlerà alla scuola di formazione politica del Pd. 
Ma a occhio i più arrabbiati per le esternazioni dell’ex premier sono quelli della minoranza interna, soprattutto quelli di rito bersaniano che ieri inauguravano la tre giorni a San Martino in Campo (Perugia) che dovrà consacrare Roberto Speranza candidato alternativo al futuro congresso. D’Alema «gli ha rovinato la festa», come sbotta Stefano Fassina con un collega. C’è del vero: l’ex premier ruba la scena a una minoranza del resto ormai ridotta all’afasia. Era già successo esattamente un anno fa: durante un’altra kermesse della minoranza, stavolta all’Acquario di Roma, D’Alema dal palco aveva fatto numeri a colori e i titoli erano stati tutti per lui. Anche quella volta. Quella volta Gianni Cuperlo, altro ex pupillo dell’ex premier, aveva replicato don durezza, stavolta suggerisce ai dirigenti Pd di interrogarsi «sulle ragioni che spingono una personalità di spicco della sinistra italiana a un’accusa così severa». 
Su tutto aleggia l’eterno spettro della scissione. D’Alema non ne parla, ma stavolta fa un passo in più: prevede che «l’enorme malessere» alla sinistra del Pd può trasformarsi in un «nuovo partito», chiede di «ricostruire il centrosinistra» «dall’interno del Pd e dall’esterno, perché in molti se ne sono andati». Per quanto lo riguarda dichiara che a Roma voterà «liberamente da cittadino romano» quindi non necessariamente il candidato del Pd (e aggiunge che la candidatura dell’ex ministro Bray, quella che spaventa il Pd, sarebbe «quella di maggior prestigio per la capitale»). Infine sul referendum costituzionale spiega di non sentirsi vincolato «se non dalla coscienza». Non è l’annuncio di un imminente addio ma poco ci manca. Infatti da Perugia scende il gelo sulle sue parole. Roberto Speranza, senza mai nominarlo, gli risponde: «La nostra sfida è dentro il Pd, senza ambiguità: abbiamo due piedi dentro il Pd. È il nostro partito, ci crediamo, lo amiamo». 
Certo, a parole anche qui viene invocato il ritorno al centrosinistra. È stato anche invitato Ciccio Ferrara, che in Sinistra italiana è il capofila di quelli che temono la deriva minoritaria della nuova forza politica postvendoliana. Ferrara dal palco chiede di «preparare, già adesso, la prospettiva della sinistra italiana del futuro». Pier Luigi Bersani risponde sì, ma a condizione che questo non significhi uscire dal Pd: «Può esistere un centrosinistra di governo se si dà per perso il Pd? No, può esistere una sinistra di testimonianza, cosa nobile ma che a noi riformisti non può bastare». Bersani incita i suoi a «alzare la voce su cose indigeribili». In realtà i suoi lo fanno da sempre. Salvo poi votarle. 


Il bazooka di D’Alema 
Norma Rangeri Manifesto 
Ai vituperati giornalisti, Massimo D’Alema ne regala tali e tante sul Pd da far invidia a Beppe Grillo. Con la differenza che le bordate sparate dal primo rottamato dell’era Renzi non sono affidate al linguaggio urlato del Blog, ma recitate nel freddo e lucido linguaggio della battaglia politica e della lotta di partito.
Il giudizio di D’Alema sul gruppo dirigente del Nazareno è pesante e senza appello, sul filo delle carte bollate: le primarie sono fatte apposta «per falsificare e gonfiare» i voti. Renzi è «oggettivamente» come Berlusconi. Jobs act, Imu e riforma elettorale non hanno niente a che vedere «con un progetto riformatore». I dirigenti sono «oltre l’arroganza, siamo alla stupidità». Come quella di credere che andando con Alfano e Verdini si vince mentre si perdono tutti i voti del centrosinistra verso il quale Renzi «non ha mai nascosto il suo disprezzo». 
Peccato che l’accusa a Renzi di non rispettare lo spirito dell’Ulivo, di non riconoscere a lui e a Prodi il ruolo di padri fondatori del Pd, venga da proprio dal pulpito da cui partì l’attacco al padre dell’Ulivo quando D’Alema, insieme a Bertinotti, disarcionò il governo, fu colpito da una sonora sconfitta del Pd alle elezioni regionali e poi si persuase alle sue stesse dimissioni da palazzo Chigi. Ma il j’accuse è lungo, non si salva niente e nessuno. A parte gli 80 euro, è tutto sbagliato, è tutto da rifare.
Nell’intervista al Corriere della Sera e successivamente a un seminario romano sulla politica estera, l’ex presidente del consiglio ha giocato a fare l’estremista. Non fino al punto di risparmiarsi la battuta sui «partitini di sinistra», ma senza dimenticare che se il Pd va avanti con Alfano e Verdini «nessuno può escludere che alla fine qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un partito». Però qui viene il punto. Per non finire nella ridotta di un partitino di sinistra e ricostruire una sinistra di larghe culture politiche e sociali, sarebbe più facile se chi se ne dice portatore all’interno del Pd si decidesse a lasciare Renzi al suo destino di fondatore del partito della nazione. 
Invece eccole le «simpatiche minoranze» dei Cuperlo e dei Bersani, che «non riescono a incidere sulle decisioni fondamentali», come nota la perfidia di D’Alema. Tutta la ricca schiera degli oppositori del leader di Rignano abbaia alla luna e non sposta Renzi di un millimetro. Tanto che basta il bazooka dalemiano per incenerire il borbottìo delle esauste minoranze.

D’Alema spacca il Pd. Bersani: sempre peggio ma niente scissioni
L’ex segretario: primarie spettacolo disgustoso, si chieda scusa Poi incorona la leadership di Speranza: per me è un giovane fuoriclasse di Giovanna Casadio Repubblica 12.3.16
SAN MARTINO IN CAMPO (PERUGIA). «Sembra che il Pd sia in una crisi progressiva, non c’è limite al peggio». Pier Luigi Bersani non vorrebbe riflettori su di sé. L’ex segretario del Pd insiste: «Ascoltate Roberto Speranza ». A San Martino in Campo l’assemblea dei bersaniani che incorona la leadership di Speranza, si muove in una strettoia insidiosa: il Pd di Renzi non va bene, quello che è successo nelle ultime primarie è “disgustoso”, ma dal Pd non si esce. «Nel partito ci sono e ci resto con tutti e due i piedi. Quando ho sentito che Renzi ha detto : o lealtà sottoscritta alla prossima direzione del partito o le nostre strade si dividono, ho pensato che volesse andare via, sarebbe stata una notizia», ironizza Bersani. «Sono nel solco di quanto detto da Roberto». Ovvero che il Pd deve chiedere scusa per quello che è accaduto alle primarie. Che questo Pd sta «spalancando le porte al trasformismo altro che rottamazione», Speranza scalda così i supporter.
Alla Posta dei Donini dieci anni fa Prodi aveva riunito in conclave il governo dell’Ulivo. Bersani ricorda le 280 pagine del programma di governo: la Bibbia dell’Unione, «c’era tanta passione». Non a caso la sinistra bersaniana si rivede qui. «Si respira un bel profumo di Ulivo. A Renzi non piace? Ciascuno ha i suoi gusti», dice Bersani. E poi: «Speranza è un fuoriclasse. È il mio delfino? Non penso di avere delfini però non ne ho mai fatto mistero sin da quando lo volli capogruppo alla Camera». E il “delfino” - che dall’incarico di capogruppo si è dimesso per coerenza con la battaglia politica contro l’Italicum, la legge elettorale - chiarisce a una platea delusa e arrabbiata per un Pd che non si riconosce nella rotta tracciata da Renzi, che «le alleanze con Verdini si stanno trasformando in un disegno strategico». Aggiunge un punto di domanda, ma è retorico.
Però si sta sotto le insegne del Pd. È la risposta a Massimo D’Alema che in un’intervista al
Corriere della sera ha indicato la necessità di un nuovo soggetto politico a sinistra: «Il malessere può creare una nuova forza a sinistra», ha rincarato l’ex premier, dando a Renzi del poltronista: «Non si schioda dalla poltrona ». D’Alema lo ha ribadito intervenendo ieri a un congresso di politica internazionale di Sinistra Italiana. Alla kermesse bersaniana c’è anche l’ex Alfredo D’Attorre. Ha fatto sapere che Sinistra Italiana ha rinviato il suo congresso a fine dicembre in attesa di nuovi arrivi. Anche se qui la sinistra del Pd giura che non ci saranno addii al partito, D’Attorre è convinto che «ci ritroveremo presto, il referendum costituzionale sarà lo spartiacque e il vero congresso del Partito della nazione». Il tema della scissione scuote il Pd. Bersani usa parole dure: Non si può rispondere in tanta incertezza con linguaggi futuristi, vitalistici». Ma è nelle cose concrete che l’ex segretario dem chiede a Renzi di parlare chiaro. Sulle banche ad esempio: «Se osano insistere nel cancellare la indivisibilità delle riserve di una cooperativa io anche se mettono dieci fiducie non le voto. Te le fai votare da Verdini, noto esperto di credito cooperativo». Sui diritti: «Sì a quelli civili ma tenendo presente quelli sociali, perché se no discutiamo di maternità surrogata senza però dire anche quanto costa…». Invita a un centrosinistra di nuovo unito, perché senza il Pd anche la sinistra è solo testimonianza. Bacchetta i vari dirigenti renziani: «Parlare sulle primarie prima che si pronunci la commissione di garanzia, non va mica bene…». Stringe mani e ricevi applausi Bersani, ha accanto Errani, Zanonato, Visco, Trigilia. «Rottamazione? Qui non ce ne è bisogno, noi non chiediamo nulla, a noi possono chiedere al massimo cosa pensano i Beatles…». Sul doppio incarico di premier-segretario ricorda a Renzi che ne ha beneficiato perché lui gli permise di correre alle primarie per la premiership. Il congresso, sottolinea, ci vuole e urgentemente. Oggi arriva D’Alema.

Dietro alle frecce della sinistra c’è una partita più complessa
È la diaspora l’ultima frontiera di una minoranza senza progetto di Stefano Folli Repubblica 12.3.16
PIÙ che una scissione, oggi la prospettiva che si apre davanti alla minoranza del Pd è quella di una dispersione. Una lenta, inesorabile diaspora intessuta di rancori personali e di insofferenza politica verso la guida di Renzi. Le liste di sinistra di cui si vocifera, da mettere in campo nelle varie città contro i candidati “renziani” alle amministrative, equivarrebbero a una frattura insanabile.
EPPURE non segnerebbero l’avvio di una classica scissione. Per la quale manca un progetto politico coerente, una tensione di fondo e un’idea del “che fare”. Sulla base di una generica frustrazione si può contribuire alla sconfitta elettorale di Renzi, ma non si alimenta ancora un disegno alternativo.
Ecco perché le dichiarazioni rese ieri da D’Alema al
Corriere della Sera hanno fatto rumore, certo, e suscitato persino sconcerto per la durezza degli attacchi personali rivolti non solo al premier, ma a qualcuno dei suoi ex collaboratori. Eppure l’intervista non può esser letta come l’annuncio che sta per nascere una nuova formazione alla sinistra di Renzi. La partita è molto più complessa e tutti devono saper distinguere le speranze dalla realtà. Chi è contro Renzi nel Pd giocherà con attenzione le proprie carte, se non vorrà dissolversi in modo definitivo agevolando, anziché frenarla, la marcia del premier- segretario.
Un critico assai severo dell’attuale presidente del Consiglio, ossia l’anziano Emanuele Macaluso, uno dei superstiti dell’antico gruppo dirigente del Pci, ha scritto sul suo “blog” frasi piuttosto critiche nei confronti di questa uscita di D’Alema. Di cui non contesta l’analisi quando vuole descrivere il malessere del Pd e la crisi oggettiva della sinistra. Tuttavia Macaluso non ritiene che D’Alema sia oggi credibile come ricostruttore del centrosinistra. E lo spiega con argomenti politici, ricordando che «quando Renzi vinse le primarie e fece fuori Letta (anche lui fondatore del Pd) non protestò, non si schierò, non avviò una lotta allora. La lotta per lui cominciò quando Renzi gli preferì la Mogherini nell’incarico europeo per la politica estera ». Questo per dire che talvolta «è difficile capire quando comincia la lotta politica e quando finisce una questione personale».
Tuttavia è vero che D’Alema ha posto una serie di interrogativi che non possono essere ignorati con un’alzata di spalle. Lo ha fatto con un linguaggio aspro mentre a Perugia si apriva il convegno della minoranza Pd, occasione per riflettere sulle amarezze del presente e sugli errori commessi. E qui anche chi non lo ama, chi lo vorrebbe tenere a distanza o lo considera un personaggio del passato, non può non tener conto del suo “contributo culturale” al dibattito. Perché in effetti l’area a sinistra di Renzi è di fronte a un bivio cruciale. Lo scenario della diaspora equivale a una condanna all’irrilevanza. Ma riscoprire un profilo riformatore legato alla tradizione rischia di essere un esercizio tardivo.
In ogni caso, Cuperlo chiede al gruppo dirigente del Pd, cioè a Renzi, di non rigettare i problemi posti da D’Alema. Ed Enrico Rossi, convinto che la “battaglia per rifare la sinistra” debba svolgersi all’interno del partito, si appella a Renzi affinché imbocchi la via del confronto. Entro domani sapremo quale sarà la risposta del premier. L’uomo è capace anche di pragmatismo, quando gli conviene, ma stavolta la sfida è molto dura. Sono in gioco le amministrative nelle grandi città e il centrosinistra ha offerto fino a oggi uno spettacolo di divisioni che ne ha accentuato tutti i limiti politici. Anziché duellare con D’Alema sui media, forse a Renzi converrebbe pagare qualche prezzo per evitare l’inizio del logoramento. Che può cominciare anche sul terreno concreto dell’azione di governo. Per esempio la lettera dei venti senatori che contestano la riforma del credito cooperativo rappresenta per lui un’insidia persino peggiore delle guerre di corrente. Da dove cominciare quindi per far rientrare le tensioni? Il caso Bassolino può essere un buon terreno, visto che il rigetto del ricorso presentato dall’ex sindaco dopo le primarie è un episodio non solo grave, ma umiliante. Soprattutto è un danno per l’intero Pd.

Il leader avverte: “I conti si fanno al congresso e lì vedremo chi ha i numeri Verdini ? Nel governo D’Alema c’era di tutto”
Renzi contro l’ex premier “Il suo è odio distillato vogliono farmi perdere” di Tommaso Ciriaco Repubblica 12.3.16
ROMA. I puntini del disegno ribaltonista di stampo dalemiano li ha uniti da tempo: «La verità è sotto gli occhi di tutti - ricorda Matteo Renzi - vogliono soltanto colpirmi alle elezioni amministrative». Non è tanto l’ultimo affondo dell’ex premier a stupire, dunque, perché «quello è solo odio distillato ». È soprattutto la «slealtà» verso il partito. La posta in palio, ragiona il capo del governo, è lo scalpo del segretario e il controllo del Nazareno: «Vogliono far perdere il Pd, sperando di riprenderselo». Provateci pure, è la sfida renziana, ma lasciate fuori dalla contesa le amministrative: «C’è una sede in cui possono sfidarmi: il congresso del prossimo anno. E lì vedremo chi ha i numeri. Fino ad allora niente polemiche, da parte nostra. Testa bassa e lavorare ai risultati concreti». L’appuntamento, in teoria, è già stato fissato per l’autunno del 2017. Ma in queste ore cresce il fronte di chi vorrebbe anticiparlo al prossimo gennaio.
Il blitz di D’Alema è l’ultimo tassello di un’escalation pianificata dall’avanguardia più bellicosa della sinistra interna. Agli attacchi diretti contro il premier vanno sommate le possibili candidature anti-Pd di Massimo Bray a Roma e Antonio Bassolino a Napoli. Un po’ troppo anche per chi ha costruito la sua scalata “rottamando” la vecchia classe dirigente: «Io governo - ripete il premier - mentre loro cosa hanno fatto in questi anni? Verdini non è nell’esecutivo, mentre nel suo D’Alema fece entrare un po’ di tutto». Articolerà una risposta più completa già oggi pomeriggio, di fronte alla scuola di partito per i giovani dem. Ricorderà alcuni dati macroeconomici (produzione industriale e occupazione) che giudica positivi. Metterà in fila la battaglia sulla flessibilità, la partita dell’immigrazione e il delicato risiko internazionale, «mentre loro aprono l’ennesima polemica contro di me...». E finirà per togliersi qualche macigno dalle scarpe: «Dicono che non mi occupo del partito, ma quando andiamo in direzione dicono che quella non vale. Sostengono che non sono di sinistra, ma all’estero quelli che prima parlavano con D’Alema - come Clinton e Blair - ora parlano con me».
Il Partito democratico, a dire il vero, resta un autentico vulcano. I renziani fanno da scudo al leader, ribattendo colpo su colpo agli argomenti della sinistra. E anche il presidente Matteo Orfini si prepara a schierare la contraerea contro D’Alema, in occasione dell’intervento che chiuderà domenica mattina la scuola di formazione dem. Dietro la polvere, però, già si intravede un nuovo, possibile scenario: l’anticipo del congresso al gennaio del 2017, subito dopo il referendum costituzionale. Non è solo la minoranza a sperarci, a questo punto. La tentazione si fa spazio anche in settori importanti della maggioranza renziana e dei Giovani turchi. Impossibile affrontare due micidiali tornanti come le amministrative e la conta referendaria, sostengono, senza immaginare un attimo dopo la resa dei conti interna. Anche se l’ultima parola spetterà naturalmente al segretario.
La guerriglia, intanto, si combatte centimetro per centimetro. E contano parecchio anche i simboli. Di buon mattino il premier, accusato di aver fondato un “partito della Nazione”, volerà a Parigi per il vertice del Pse. Si mostrerà seduto allo stesso tavolo con Hollande e con il greco Alexis Tsipras, che è ospite d’onore alla kermesse del socialismo continentale. In ore così convulse, poi, è utile non trascurare i dettagli. Ieri il portavoce di Renzi, Filippo Sensi, ha rilanciato su Twitter un’antologia del Center for American Progress, di impostazione obamiana. La ragione? Ospita scritti di Clinton, Blair, Trudeau e Renzi. Un messaggio, insomma, che il quartier generale renziano invia agli oppositori interni. E che suona così: dopo i big del passato, la scena è tutta per l’ex rottamatore che ha chiuso con la sinistra dei «conservatorismi». La battaglia, si intuisce, sarà ancora lunga.

Renzi: è una guerriglia
Faremo i conti e vincerò anche al referendum di Maria Teresa Meli Corriere 12.3.16
ROMA È una guerra? No, è una guerriglia. Massimo D’Alema attacca? E Matteo Renzi non gli risponde pubblicamente. Quello che colpisce il premier è «il distillato di odio» contenuto nell’intervista al Corriere dell’ex premier.
A Palazzo Chigi ritengono che l’affondo di D’Alema sia indirizzato più alla minoranza del Pd che al premier. È un appello ai bersaniani per mobilitarli e spingerli fuori dal partito.
Al Nazareno guardano con un certo sospetto a tutti i movimenti di D’Alema. Tra breve la testata dell’ Unità andrà all’asta, perché la società è stata liquidata. Tutto ciò è stato fatto perché l’attuale proprietario del giornale la possa finalmente rilevare. Ma non è detto che questo accada. Pare che Matteo Arpe sia interessato all’acquisizione. E quindi al Pd tutti pensano che dietro questa operazione ci sia D’Alema.
Un giornale per una scissione? Fantapolitica? Fino a un certo punto, perché il premier, quando parla con i collaboratori, è netto: «D’Alema lavora in modo organico alla scissione, ma figuriamoci se mi faccio impaurire da uno come lui».
Eppure lui, D’Alema, sta cercando sponde altrove, sta cercando di creare una rete con Prodi ed Enrico Letta.
Ma il premier è convinto che tutti quei movimenti non portino a nulla. «Chi ha perso la battaglia politica, ha perso anche la testa», è solito dire Renzi. Aggiungendo: «Adesso si vede veramente il loro obiettivo, far perdere il Pd».
«Ma come — si interroga il premier — mentre noi siamo in prima fila in Europa per flessibilità, crescita e investimenti, mentre combattiamo per una gestione diversa dell’immigrazione, nel partito si apre l’ennesima polemica contro di me?». Renzi non si capacita. Quello che lo colpisce, al di là delle esternazioni dalemiane, è l’atteggiamento della minoranza in genere: «È un atteggiamento sleale. È in atto un tentativo di far perdere il Pd per darmi un segnale. Detto questo nessun problema, i conti li faremo al Congresso e lì vedremo chi ha i numeri».
Oggi il premier interverrà alla scuola dei giovani democratici, proprio per spiegare che il Pd «è con me» e non con chi cerca di «affossarlo».
Sarà lì, dove il Pd dimostra la sua esistenza, che il presidente del Consiglio parlerà.«La mia risposta è nei fatti», è il suo ritornello.
E i fatti sono la sua partecipazione al vertice del Partito socialista europeo, a Parigi. A D’Alema che gli contesta di aver ucciso la sinistra, Renzi risponde con l’appuntamento di oggi, dove, insieme ai leader del socialismo europeo, ci sarà anche il premier greco Tsipras.
E alla critiche dell’ex ministro degli Esteri sulla mancanza di autorevolezza italiana nello scacchiere internazionale replica con la pubblicazione del think tank progressista, made in Usa, Center for American Progress, dove un suo scritto va ad aggiungersi a quelli di Bill Clinton, Tony Blair e Justin Trudeau.
Ma la sponda internazionale non annulla l’altro fronte: è in atto quella che il presidente del Consiglio definisce la «guerriglia» di ogni giorno. Senza mai strappare («altrimenti come mi logorerebbero?»), la minoranza del Pd incombe. «Vedono i primi risultati del governo e si agitano», spiega, ironico, Renzi ai collaboratori. E sembra voler passare oltre. Fino a un certo punto. Perché il premier è convinto di vincere anche questa battaglia contro la minoranza del Pd: «La prossima tappa sarà quella del referendum costituzionale». D’Alema ha già lasciato intendere, nella sua intervista al Corriere , che non è detto che voti sì. E molti esponenti del Pd non hanno ancora annunciato pubblicamente come si schiereranno.
Già, tra i sinistri del Pd e tra un timore e l’altro, si fa strada l’idea di potersi svincolare dalla disciplina di partito. Sul referendum, per esempio. Ma dalla maggioranza del Pd arriva uno stop definitivo. Insomma la minoranza può «lavorare» finché vuole, ma non con l’obiettivo di «spaccare il partito». «Perché è questo — spiega il presidente del Consiglio — quello a cui mirano effettivamente tutti quelli che stanno lì ad aspettare ogni mio passo falso. Però sul referendum ho pochi dubbi. È una grande sfida, ma la vincerò ».  

Milioni di vecchi elettori in fuga ma altrettanti si avvicinano E a sinistra un’altra casa non c’è
I sondaggi parlano di tradizionalisti che si allontanano Ma le “nuove” proposte non riescono ad attrarre elettori di Fabio Martini La Stampa 12.3.16
È un fenomeno silenzioso, ancora non certificato dal sistema politico-mediatico eppur imponente: milioni di «vecchi» elettori stanno abbandonando il Pd e più o meno un numero analogo di nuovi elettori vi si stanno avvicinando. Le intenzioni di voto al Pd ancora in queste ore restano su percentuali significative (tra il 30 e il 34%, a seconda degli istituti) ma quelle intenzioni sono la somma di un imponente ricambio di elettori, come dimostrano da due anni gli studi dei flussi elettorali del Cattaneo di Bologna e tutti i principali istituti di sondaggi.
Un ricambio di elettori all’interno di uno stesso partito che non ha precedenti nella recente storia della Repubblica: in entrata quasi tutti gli ex elettori di Mario Monti e (in misura minore) di Forza Italia; in uscita c’è un elettorato di sinistra, ma non soltanto, che dopo un innamoramento iniziale per Renzi (boom alle Europee 2014), non ama lo stile e le politiche del premier: un elettorato prevalentemente over 60 e under 25.
È esattamente questo bacino potenziale l’innesco non dichiarato, della fiammata di queste ore attorno alla suggestione di una scissione, evocata da Massimo D’Alema, in una intervista al «Corriere della Sera» nella quale l’ex premier ha indicato esplicitamente l’ipotesi di una «nuova forza». Ma quella di D’Alema non è l’unica sirena nell’area ai confini del Pd.
Attorno allo spazio politico rappresentato da milioni di elettori delusi e in gran parte «parcheggiati» nell’astensione (come dimostrano gli studi del Cattaneo) si sono manifestati diversi «acquirenti», diverse offerte, un rosario di leader potenziali dell’area, sempre in litigio tra loro: Sel senza più Vendola; i fuoriusciti dal Pd, divisi tra i «tradizionalisti» come Fassina e D’Attorre e Civati; la minoranza Pd; un leader potenziale come Maurizio Landini, che non ne vuole sapere di beghe politiche e pensa ancora a conquistare la guida della Cgil, strappandola a Susanna Camusso.
Eloquente quanto sta accadendo nelle quattro città nelle quali si voterà alle amministrative di giugno. A Torino i sondaggi sono concordi nel quotare Giorgio Airaudo, ex Fiom oggi Sel, su percentuali sorprendenti, poco al di sotto del 10 per cento; a Napoli Antonio Bassolino ha già detto che, se non avrà «giustizia» sulla questione delle Primarie, si presenterà in contrapposizione con la candidata ufficiale; ieri il vice di Renzi al Pd, Lorenzo Guerini, da Napoli diceva: «Non ci sarà una lista Bassolino». Ma se non gli daranno soddisfazione, l’ex sindaco di liste in appoggio ne ha già pronte tre. A Milano fino a 48 ore fa l’area a sinistra del Partito democratico scommetteva su una candidatura prestigiosa, quella dell’ex pm Gherardo Colombo; a Roma da settimane è in atto un pressing su un personaggio fuori dagli schemi partitici, capace di catalizzare un elettorato colto e di sinistra, l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray.
Un «poker rosso» che è entrato parzialmente in crisi nel giro di poche ore: Colombo ha declinato, mentre Bray (che resiste anche in quanto direttore di una istituzione come la Treccani) non ha ancora sciolto la riserva e nelle prossime ore potrebbe spuntare un appello di intellettuali per farlo candidare. Si tratta di quattro operazioni che insistono sullo stesso elettorato ma con registi e motivazioni diverse.
Antonio Bassolino col suo slogan «Di nuovo ci sono io», si propone come collaudato uomo di governo e al tempo stesso come espressione dell’anti-establishment, ma sicuramente non con un’etichetta di sinistra. Massimo Bray invece è sospinto da Massimo D’Alema, con l’idea esplicita di intercettare la scissione in atto nell’elettorato del Pd. Ma la minoranza di sinistra, dal suo “congresso” gli ha detto no: «Noi vogliamo dare una mano», ha detto Roberto Speranza nel passaggio più esplicito della sua relazione. E quanto a Giorgio Airaudo, la sua è sfida a viso aperto al sindaco del Pd Piero Fassino, che con il ponte lanciato verso personalità (ed elettori) del centro-destra, ha scoperto il lato sinistro. Dice Pippo Civati: «Da tempo ripeto che questa è un’area politicamente molto estesa, ma bisogna saperla coltivare con candidature di rinnovamento e comunque di alto profilo, come poteva essere quella di Gherardo Colombo o, come potrebbe essere quella di Massimo Bray. Altre candidature sembrano rispondere di meno a quei requisiti». 

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