lunedì 14 marzo 2016

Schiantali. Cancella la sinistra PD dalla faccia della terra, in modo che non possa andare da nessuna parte a fare altro danno

Il retroscena Il distacco di Renzi: loro sono in preda a demoni personali

Il piano per aprire il partito agli elettori-donatori

di Marco Galluzzo Corriere 14.3.16
ROMA Ci sono almeno due cose che Matteo Renzi non ha ancora detto apertamente alla minoranza Pd. La prima, veicolata in queste ore dai suoi, in fondo residuale ma significativa, è una risposta che non ha nulla a che fare con la politica, ma che spiega molto più di tante analisi: «Queste persone sono in preda a demoni personali». Insomma in molti, per il premier e il suo staff, avrebbero bisogno di una terapia di liberazione dalla rabbia, intesa come incapacità di «incassare le sconfitte».
La seconda accusa, che forse troverà spazio nella prossima direzione del Pd, prevista per le 18 del prossimo 21 marzo, riguarda un bilancio comparato delle rispettive carriere politiche: un concetto che ieri ha in qualche modo ventilato Matteo Orfini, ma che Renzi in privato affronta in modo aperto, «quando al governo c’erano altri non mi pare che abbiano avuto lo stesso nostro coraggio nei confronti dei diversi poteri del Paese, dal sindacati alle banche». Insomma quel concetto ripetuto come un mantra, «noi stiamo cambiando il Paese, siamo pancia a terra ogni giorno per governare», significa anche qualcosa che resta inespresso, almeno in pubblico.
L’impossibilità di un dialogo, sancita ieri con l’assenza di membri della segreteria alla riunione umbra, è anche una visione ormai completamente diversa del modello partito: Renzi sta riflettendo con la sua segreteria su come coinvolgere in modo strutturale i 550 mila italiani che hanno donato il 2 per mille del reddito, nella dichiarazione fiscale, al Pd. Una quota di elettori, ma non per forza di iscritti (sono 382 mila), lontana dai circoli e dalle vecchie dinamiche, che obbliga il segretario a ripensare la struttura del partito, con uno sforzo di fantasia ancora in gestazione, ma che ovviamente non prevede il canovaccio dell’eterna dialettica della scissione a sinistra. Dialettica che fra l’altro allontana e stanca sia gli iscritti che i donatori.
«Del resto a sinistra non c’è spazio, chi è uscito dal partito non mi pare che abbia fatto grande strada», è un’altra delle considerazioni di un Renzi che attende le Amministrative anche per verificare quella che a suo giudizio è l’inconsistenza elettorale dei diversi tentativi di aggiungere un’offerta politica a sinistra del partito democratico.
La scelta dei due vicesegretari, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, di non essere in Umbria e di non mandare sostituti, di fare un duro comunicato unitario con l’intenzione esplicita di non considerare utile la polemica a distanza, come se quelle di Perugia siano delle inutili provocazioni, la dice lunga della distanza fra il mondo renziano e la minoranza. Minoranza che ai piani alti del Nazareno viene ormai descritta in modo esplicito come vittima della «sindrome del Truman show»: li tengono in vita i media, le interviste, la polemica continua, «ma sono fuori asse con il Paese e alla fine conducono una battaglia solo per dimostrare una sorta di esistenza in vita». Parole dure, ufficiose, ma certamente condivise dal premier, come l’analisi contenuta nell’ incipit del comunicato di ieri, dove si accusa una classe di dirigenti rottamata da Renzi di avere «più volte ucciso i governi di centrosinistra», non solo dunque quel contenitore politico che fu l’Ulivo.
Due giorni fa Renzi ha detto in modo aperto, ai Bersani e ai D’Alema, di essere i responsabili della morte del modello dell’Ulivo, ieri veniva aggiunta una sfumatura in più: una certa classe dirigente è anche la stessa che per anni si è dilaniata con estremo masochismo politico per le poltrone di governo, conseg

Se i democratici (e non solo) non sanno più che cosa vogliono
di Piero Ignazi Repubblica 14.3.16
IN tutti i grandi partiti, e a volte anche nei piccoli, il conflitto tra le diverse componenti è la fisiologia della vita interna: l’unanimismo, invece, una pericolosa patologia. Il Pd deve molto a Matteo Renzi per aver creato una nuova corrente — chiamiamola la “leopoldina” — grazie alla quale l’antica conflittualità tra Veltroni e D’Alema è stata rottamata, e nuove idee e persone sono emerse. L’irruzione di un gruppo di outsider raccolti attorno alla magnetica personalità dell’ex sindaco di Firenze ha scompaginato dinamiche ossificate ed ha fatto entrare aria fresca. Non a caso, lo scontro tra Renzi e Bersani, con l’aggiunta di un ulteriore outsider come Civati, nel corso del 2012 aveva proiettato il Pd a percentuali mai viste prime. Questo a dimostrazione che una buona dose di conflittualità può essere salutare. A parte di non debordare in una rissa continua.
Uno dei primi problemi che la leadership laburista di Tony Blair affrontò fu proprio quello di gestire le tensioni interne con meccanismi inclusivi per evitare contraccolpi negativi sull’elettorato. I dissensi comunque rimasero, tant’è che un certo Jeremy Corbyn, dopo aver votato per 552 volte contro provvedimenti del proprio governo, senza che nessuno si fosse mai sognato di prendere provvedimenti contro di lui, alla fine è diventato il leader del Labour Party. I grandi partiti democratici sanno fare tesoro delle differenze interne.
Il Pd seguì questa strada quando Bersani, con un gesto di grande generosità, impose una modifica alla statuto per consentire a Renzi di sfidarlo alle primarie nel 2012. Ora, però, di quella generosità non c’è più traccia. Ogni critica alla segreteria è considerata un delitto di lesa maestà. Addirittura, nel corso delle votazioni per la riforma della costituzione si sono minacciate espulsioni a chi non votava la fiducia. La minoranza interna doveva essere “asfaltata”, secondo il gergo soft della attuale dirigenza democrat. Non stupisce che la segreteria, abituata alle critiche intrise di bonomia emiliana di Bersani, reagisca inviperita ad una intervista affilata e senza sconti come quella di Massimo D’Alema. Anzi, arrivi ad introdurre la categoria dell’”odio politico”, una categoria francamente infantile e dal sapore vagamente berlusconiano, se si pensa a quando il Cavaliere parlava del partito dell’amore e dei dispensatori di odio.
I partiti non sono prati di Heidi, sono campi di battaglia dove ci si scontra per la conquista o il mantenimento del potere. Ma una battaglia senza regole condivise diventa distruttiva. L’impasse del Partito democratico è quella di non avere ancora trovato un modus vivendi tra l’iper-personalizzazione della leadership e le dinamiche proprie della democrazia intra-partitica.
Nel Pd, così come in tutti gli altri partiti, gli organi collegiali sono diventati irrilevanti. Lì non si discute e non si progetta. Del resto, lo stesso Renzi non metteva quasi mai piede nelle direzioni del Pd quando era in minoranza. E non aveva tutti i torti. Però adesso non può pensare di risolvere tutto in una rapida mattinata con una direzione lampo.
Il Partito democratico per troppo tempo ha “esternalizzato” le proprie tensioni verso gli elettori utilizzando le primarie come una valvola di sfogo. E ora che la polemica sale di tono perché le opposizioni si stanno risvegliando da un lungo sonno, partono ostracismi e demonizzazioni. Così, il confronto sul profilo organizzativo e valoriale del Partito democratico non decolla. Tutto viene rimandato all’azione di governo.
Ma un governo non è per sempre, mentre i partiti hanno vita lunga, e vanno attrezzati sia per le fasi del potere che per quelle dell’opposizione. Solo che il Pd non sa ancora cosa vuole. A dire il vero tutti i partiti progressisti europei hanno difficoltà ad indicare prospettive convincenti. Certo non possono nascere dall’autoreferenzialità in cui è avvolta la dirigenza del Pd. Sorgono semmai da un confronto aperto, dialogico e inclusivo. Un compito che spetta a chi ha la guida del partito.
Forse anche l’opposizione ha qualche idea su come un partito di sinistra debba rispondere alle domande più pressanti dei cittadini quali la lotta alla corruzione e allo spreco delle risorse pubbliche, la riduzione delle diseguaglianze sociali, la protezione dei ceti più deboli anche in termini di sicurezza personale, e la creazione di futuro investendo nell’istruzione. 

La rabbia dell’ex segretario: disertano i nostri incontri, una roba mai vista nel partito
di Alessandro Trocino Corriere 14.3.16
PERUGIA Ha la febbre alta, Roberto Speranza. Come il suo partito, con il termometro delle eterne divisioni interne che improvvisamente schizza verso l’alto, allarmando chi tiene alla salute del paziente. Servirebbero anticorpi e nervi saldi, ma in questi giorni sembra difficile mantenersi calmi. Anche il «padre nobile» della minoranza, Pier Luigi Bersani, dà segni evidenti di nervosismo: «Sono arrabbiato», ripete mentre passeggia nel giardino dell’hotel che ospitò l’Ulivo prodiano. La rabbia diventa sbigottimento quando scopre che Lorenzo Guerini ha deciso di disertare: «É incredibile, è la prima volta che succede una roba del genere — mormora esterrefatto — non ricordo una riunione della minoranza a cui la maggioranza non abbia inviato qualcuno».
E in effetti, l’assenza si nota, eccome. «Errore blu, gravissimo», scandisce un solitamente più moderato Speranza. «Uno sgarbo, una provocazione», dicono in molti. Solo il rispetto per la figura di Guerini fa moderare i toni. Confida Cuperlo: «Io ho grande stima, umana e politica, di Lorenzo. Ma avrebbe fatto bene a venire. Pensate se fosse venuto e avesse detto: so bene che non la pensate come me, ma il fatto stesso che io sia qui e che voi mi abbiate invitato, dà la misura di cosa sia un grande partito. Sarebbe scattato un grande applauso». Non è detto che sarebbe andata così, ma la controprova non c’è. E comunque Cuperlo è sicuro che non si ripeterà lo sgarbo: «Il 6 e 7 maggio c’è un appuntamento importante a Milano: sono sicuro che non mancherà».
I toni nella minoranza son diversi. «Alcuni sono aspri, alcuni intervengono in punta di piedi, come D’Alema», scherza Cuperlo. Guglielmo Epifani: «É un periodo frizzante per il Pd, non ci si annoia». Miguel Gotor prova a dare una spiegazione della febbre che ha colpito il partito: «Subiamo continue provocazioni da Renzi, ma non abbocchiamo. Vorrebbe dire favorire il progetto renziano, che è quello di spostare il baricentro del Pd, trasformandolo nel perno di un assetto neo centrista». Tra le «provocazioni» di Renzi, c’è quella dell’Ulivo, che fa imbestialire Bersani. E che Gotor considera «una sgrammaticatura volontaria»: «Il primo Ulivo nasce nel ’95, in Emilia Romagna. Con un certo Bersani presidente».
Le «provocazioni», dice Gotor, non sono casuali: «Rientrano nella logica schmittiana di Renzi: quella del nemico interno. É convinto che creando un nemico a sinistra, otterrà più consensi al centro o a destra. Ma ha fatto male i conti». Eppure, dice D’Alema, il partito della nazione già c’è. Gotor conferma: «Chi lo nega, o fa lo struzzo o si sbaglia».
La tre-giorni di Perugia segna l’inizio della battaglia. La sinistra affila le armi: con la richiesta di cambiare l’Italicum e la minaccia di non votare il referendum. Eppure ha bisogno di un leader carismatico e non che è tra le sue file abbondino. C’è Gianni Cuperlo. E c’è Roberto Speranza, il delfino di Bersani, che anche Gotor vorrebbe alla guida dell’alternativa a Renzi: «Quando ci sarà il congresso, spero che possa candidarsi Speranza. É giovane, è preparato e ha dimostrato con i fatti di essere capace di rinunciare a un posto di prestigio e anche a offerte per entrare nel governo».
Ma bisognerà mettere d’accordo tutte le anime. Bersani, D’Alema, Cuperlo, Lo Giudice e molti altri. E capire cosa vorranno fare i «Giovani Turchi» e il ministro Maurizio Martina. Per ora sono filogovernativi e diversamente renziani. Ma in molti pensano che Renzi potrebbe scaricare Matteo Orfini e i suoi, attribuendogli un’eventuale sconfitta alle Amministrative. A quel punto la partita si riaprirebbe. Sempre che la febbre da cavallo non porti all’improvviso decesso del paziente.  
La minoranza dem promette battaglia Botta e risposta al veleno con i vertici
Bersani: il premier governa con i miei voti. La replica: non ci faremo uccidere dalle polemiche di Al. T. Corriere 14.3.16
PERUGIA L’accusa più grave è di Pier Luigi Bersani: «Sto cercando di tenere dentro gente che non ha tanto voglia di starci: ma si ha l’impressione che Renzi voglia cacciare un pezzo di partito. Ricordi che sta comodamente governando con i voti che ho preso io. Non io Bersani, io centrosinistra». È solo l’antipasto di una mattinata bollente, nella convention della minoranza del Pd, che si apre con un’assenza illustre: Lorenzo Guerini. Assenza che scatena le ire di Roberto Speranza, un «fuoriclasse» per Bersani: «È un errore gravissimo». Guerini risponde con Debora Serracchiani in una nota: «Non inseguiremo le polemiche di chi vorrebbe riportarci al tempo delle divisioni interne che hanno ucciso i governi del centrosinistra».
La minoranza promette «battaglia». E Speranza annuncia: «Parte l’alternativa dentro il Pd. Non è una rivincita: è una nuova partita». Le accuse a Renzi sono tante: la sua rottamazione, dice Speranza, «rappresenta una finzione gattopardesca. Ha mandato a casa Prodi, Bersani, D’Alema, per poi accogliere Verdini e gli amici di Cosentino. Non bisogna per forza ammazzare i padri per fare politica». Renzi «fa sgambetti», «ma è un messaggio cinico, per me la politica è altro». A chi gli chiede se uscirà dal Pd, Speranza risponde: «Noi siamo il Pd, senza di noi non esiste più». Ma bisogna combattere contro «una visione padronale del partito» e un rischio: «Che si finisca tutti a cantare “Meno male che Matteo c’è”». Le diverse anime di sinistra del Pd provano a unire le forze e allargare il campo. «Tenersi larghi», dice Bersani. «Campo aperto», dice Speranza. E a far capire la direzione, ecco i plausi al capogruppo di Sel Arturo Scotto. Ed ecco i richiami all’Ulivo: «Le parole scomposte di Renzi non aiutano — dice Speranza — un segretario deve unire, non dividere e insultare, è un comportamento da irresponsabili».
Alla convention arriva anche Gianni Cuperlo, con un intervento sarcastico e applaudito. Ricorda le segreterie convocate all’alba: «Non vi vedete da prima dell’estate, siamo oltre il tramonto. Matteo, va bene anche a mezzogiorno, ma vedetevi». Cuperlo respinge l’idea di scissione ma ironizza: «Il continuo richiamo allo “state uniti” ormai è diventato come “stai sereno”». Quanto a Sel, «l’intervento di Arturo è stato prezioso: possiamo essere corsi d’acqua diversi che riempiono lo stesso fiume». E poi ancora, la rottamazione, «parola orrenda», «il trasformismo che mi fa girare le palle» e l’avvertimento: «Rifletta bene, Renzi: se ha senso trasformare il referendum nello spartiacque di una maggioranza politica». Nell’ordalia, non è detto che la minoranza non decida di abbandonarlo: «È la salita che dice chi sei». 

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