giovedì 17 marzo 2016

Sfortunata la Spagna che non ha un Matteo

Litigi, tradimenti, epurazioni in frantumi il sogno di Podemos 
ALESSANDRO OPPES Voce del Matteo 16 3 2016
MADRID LA CHIAMANO “normalità democratica”, ma in realtà è un durissimo scontro di potere, una resa dei conti per il controllo dell’apparato del partito. Podemos è in crisi, e non si tratta di una semplice “crisi di crescita” di una formazione arrivata troppo in alto e troppo in fretta.
Dietro, non c’è neppure la mano nera dei socialisti che, secondo la versione di comodo fornita dalla formazione “viola” quando cominciavano ad apparire le prime avvisaglie di una frattura, avrebbero ordito un “complotto” per indebolire Pablo Iglesias nei giorni più delicati di una trattativa per la formazione di un governo che — tre mesi dopo le elezioni — non riesce ancora a vedere la luce. Iglesias alla fine ha gettato la maschera e, martedì poco prima di mezzanotte, con un gelido comunicato, ha silurato il segretario organizzativo di Podemos, Sergio Pascual, accusato di una «gestione inefficace » che avrebbe «danneggiato gravemente » il partito. Pascual non era solo uno dei fondatori della formazione, ma anche un dirigente legato a doppio filo con Iñigo Errejón, il vice di Iglesias che, contrariamente alla messinscena di un amichevole scambio di cinguettii su Twitter, è di fatto sempre più distante dal leader.
I primi segnali di un tensione erano emersi la scorsa settimana, con le dimissioni in blocco di dieci componenti del “consiglio cittadino” di Madrid, tutti vicini a Errejón, con l’obiettivo di forzare l’uscita di scena del segretario regionale Luis Alegre, uomo della massima fiducia di Iglesias. Una crisi, quella di Madrid, che si somma ai pesanti malumori che si sono scatenati negli ultimi mesi — ad essere messa in discussione è soprattutto la mancanza di democrazia interna — in altre organizzazioni territoriali, dalla Galizia alla Cantabria, dal Paese Basco a La Rioja. Senza dimenticare il caso, molto intricato, della Catalogna, dove Podemos si è presentato alle legislative in coalizione con altre forze di sinistra con la sigla di En Comú Podem che ora, sotto la guida della sindaca di Barcellona Ada Colau, progetta di trasformarsi in un vero e proprio partito con piena autonomia da Madrid. Con buona pace dell’ormai famoso bacio sulla bocca tra Pablo Iglesias e il capogruppo parlamentare della formazione catalana, Xavi Domènech.
«Scorre l’amore nella politica spagnola » diceva giorni fa Iglesias all’indirizzo del leader socialista Pedro Sánchez, suggerendo che l’ultima effusione mancante è ormai solo un bacio tra loro due che suggelli un’alleanza di governo (i due leader si sono sentiti ieri al telefono e si vedranno nei prossimi giorni, ma il negoziato per la formazione di un governo di sinistra è in alto mare). Ed è proprio sulla strategia, confusa e ondivaga, seguita in queste settimane dal numero uno di Podemos — un giorno definisce Sánchez “miserabile”, un altro gli tende la mano — che all’interno del partito si sono sviluppate le frizioni. A nessuno è sfuggito, in piena seduta parlamentare lo sguardo glaciale di Errejón (su posizioni più moderate) mentre, accanto a lui, Iglesias diceva che Felipe González «ha il passato macchiato di calce viva » (in riferimento al terrorismo di Stato anti-Eta degli anni ‘80). Non il modo migliore per favorire un’intesa con i socialisti. Che peraltro l’ala più radicale di Podemos, gli anticapitalistas, vogliono evitare a ogni costo. «Meglio nuove elezioni anticipate», dicono.


Corrida  all’italiana
Madrid 2016 sembra Roma 2013. Un sessantenne ha vinto le elezioni ma non ha i numeri per la fiducia Un leader populista detta condizioni e un capo dello Stato cerca soluzioni Ma all’orizzonte non ci sono vie d’uscita

SEBASTIANO MESSINA 
MADRID VISTA DA Madrid, la Spagna che diventa Italia è un rebus che sarebbe piaciuto ad Andreotti. C’è un sessantenne che ha vinto le elezioni eppure non ha i numeri per la fiducia, ma non si chiama Bersani. C’è il leader di un partito anti-sistema che ora vuole dettare le sue condizioni, ma non è Grillo. C’è un capo dello Stato che si arrovella per risolvere questo rompicapo senza soluzione, ma non è Napolitano. E intanto un premier incaricato prova a formare un “governo di cambiamento” potendo sperare solo nelle benevole astensioni dei suoi concorrenti.
Sembra l’Italia del 2013, e invece è la Spagna del 2016, che una mattina s’è svegliata senza un capo e ora assiste impotente alla disordinata marcia a zigzag dei suoi politici, diventati improvvisamente leader virtuali di un paese senza leadership. «Abbiamo un Parlamento all’italiana, però senza gli italiani per gestirlo» ha ammesso Felipe Gonzalez, che vent’anni dopo la sua caduta è ancora il più autorevole dei politici spagnoli. Il tempo sembra scorrere placido, e i giovani camerieri dritti come toreri servono come ogni giorno tapas croccanti e chato freddo sui tavoli allineati come pedine di dama sulla scacchiera quadrata di Plaza Mayor, ma tutti sanno che ogni mattina, quando il re Felipe si alza, la sua prima domanda è: «Quanto manca?». «47 giorni», gli hanno risposto oggi. Il conto alla rovescia è imposto dall’articolo 99 della Costituzione: se entro la mezzanotte del 2 maggio — due mesi dopo la prima bocciatura del candidato proposto dal re — il Congresso non eleggerà il nuovo presidente del governo, Felipe di Borbone scioglierà le Camere e farà riaprire le urne il 26 giugno, a sei mesi e una settimana dalle elezioni del 20 dicembre.
Quarantasette giorni basterebbero, in Italia. Non qui, dove c’è stato un terremoto politico. Per la prima volta il complicato sistema elettorale spagnolo — ricordate l’Ispanicum che qualcuno voleva importare da noi? — ha fatto cilecca. Il bipartitismo è diventato un quadripartitismo e ora nessuno i numeri per governare. Non il premier uscente, il popolare Mariano Rajoy, che è stato il più votato ma ha solo 123 seggi su 350 e ora è accerchiato e senza alleati, unico sessantenne su una scena dove tutti gli altri, compreso il re, sono trentenni o quarantenni. Non il suo principale avversario, Pedro Sanchez, segretario di un Psoe uscito dalle urne con il suo peggior risultato di sempre: 90 seggi. Ma neanche Pablo Iglesias, il leader col codino di Podemos che voleva diventare il Chavez spagnolo e s’è fermato a 69 deputati, e neppure Albert Rivera, un Monti giovane con venature radicali che era la novità rassicurante, il cambio ortodosso, arrivato quarto con Ciudadanos: 40 seggi.
Risultato: Rajoy ha rifiutato l’investitura perché aspettava il fallimento degli altri, Iglesias s’è presentato dal re in jeans e maniche di camicia dettando con spavalderia le sue condizioni, mentre il socialista Sanchez — al quale il re alla fine ha affidato l’incarico — ha fatto la mossa del cavallo stringendo un patto di ferro con Rivera, la sinistra che si allea con il centro-destra. Non è bastato, perché ha ottenuto solo 131 voti, facendo registrare una bocciatura che per gli spagnoli è “ el fracaso”. Ora tutto è fermo. Rajoy non vuole dare i suoi voti a nessuno, e nessuno vuol dare i suoi voti a Rajoy. Podemos vuole trattare col Psoe, ma senza Ciudadanos, mentre il Psoe ormai non incontra nessuno, senza che al tavolo sia seduto Ciudadanos. Sembra un labirinto senza via d’uscita. Servirebbero gli italiani, dice Gonzalez, forse ricordando le parole di Andreotti quando gli chiesero cosa pensasse della nuova classe politica spagnola: «Manca finezza», rispose, e non si riferiva all’astuzia ma alla raffinata arte del compromesso, della sottigliezza capace di insinuarsi in una crepa invisibile e far crollare il muro.
Alla Spagna di oggi servirebbero le “convergenze parallele” o la “non sfiducia”, ma anche un “preambolo” miracoloso o la scoperta di “equilibri più avanzati”. Eppure, anche se la mediterraneità ci unisce, molte cose ci dividono. Noi crediamo nella virtù del compromesso, mentre gli spagnoli sono abituati a scegliere, o di qua o di là, o bianco o nero, o sei monarchico o sei repubblicano, o tifi Real o tifi Barça, o stai col toro o stai col torero (e solo oggi qualcuno s’è inventato una corrida senza la morte del toro: tipica soluzione all’italiana). Qui l’anticlericalismo erano i comunisti che sparavano alle statue della Madonna, da noi era Peppone contro don Camillo. E del resto ci sarà una ragione se loro hanno avuto il cinema surrealista e rivoluzionario di Bunuel e noi quello visionario e poetico di Fellini, se loro hanno inventato il passo sensuale del flamenco e noi quello scanzonato della tarantella.
Eppure oggi gli spagnoli si domandano se non sia conveniente somigliarci un po’, almeno in politica. «Italianizzarsi — mi dice il direttore di El Pais, Antonio Caño — per noi significa due cose, una cattiva e una buona. Quella cattiva è l’instabilità, le crisi continue, le trattative interminabili. Quella buona è la capacità della società di andare avanti e di crescere nonostante il governo. Però forse ci conviene attrezzarci, perché in Spagna il sistema bipartitico è finito: la società non è più bipolare. C’è un nuovo sistema che chiede di uscire, e giorno dopo giorno ci sta riuscendo».
Un segno inequivocabile di questo cambiamento lo si può leggere nella sorprendente preferenza degli spagnoli — il 53%, secondo l’ultimo sondaggio El Pais — per un governo composto da Psoe e Ciudadanos: la prima forza del centrosinistra insieme al partito minore del centrodestra. E’ la rivincita degli italiani di Spagna. «Quando sono arrivato — racconta Pietro Moncada Paternò Castello, che da vent’anni vive tra Madrid e Siviglia — mi dicevano: ah, voi italiani, tutti corrotti. Adesso che anche loro hanno scoperto di essere immersi in un sistema di tangenti, bustarelle e fondi neri, quando glielo ricordo arrossiscono. Però va detto che a Madrid, corruzione o no, le cose funzionano: aeroporti, scuole, ospedali, trasporti sono tra i migliori del mondo».
La verità, sostiene Alberto Bocchieri, manager di una società internazionale di “cacciatori di teste”, è che anche qui la società si sta attrezzando per sopravvivere alla crisi della politica. «Il Paese sembra infischiarsene, dei problemi del palazzo. La Spagna va avanti nonostante tutto, anche se ora gli investitori stranieri si sono fermati perché vogliono vedere come va a finire questa crisi ».
Già, come va a finire? Nell’Italia del 2013 ci pensò Napolitano a sbloccare l’impasse, ma gli spagnoli non hanno un presidente della Repubblica: hanno solo il re. «E a differenza del vostro capo dello Stato — mi spiega Edurne Uriarte, ordinaria di Scienza Politica all’università “Roy Juan Carlos” di Madrid e columnist del quotidiano di destra Abc — il re Felipe vuole tenersi al margine della scena, sia per rispettare la tradizione e la Costituzione, sia perché oggi la monarchia è in discussione e lui non vuole essere accusato di parteggiare per nessuno. Dunque il re aspetterà fino all’ultimo minuto, prima di fare il suo estremo tentativo di risolvere la crisi».
Anche noi italiani faremmo così, e nascerebbe il governo. «E invece noi, quasi certamente, andremo alle elezioni. Perché la Spagna, nonostante tutto, non diventerà Italia».
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Felipe, re da poco più di un anno, è davanti a una sfida, ma vuole restare ai margini della politica Per anni il sistema bipolare ha dato vita a maggioranze stabili Ora è tutto diverso Manca un mese e mezzo Poi, se il Congresso non elegge il nuovo premier, si torna alle urne I veti incrociati dei capi di partito impediscono l’accordo. L’Ispanicum stavolta ha fatto cilecca

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