venerdì 11 marzo 2016

Vendola Nero scalda l'arsenale e bacchetta i vassalli che non sanno nemmeno tirare due bombe


Trump, le bistecche e la transustanziazione
di Massimo Gaggi Corriere 11.3.16
Un palco in stile presidenziale, circondato da bandiere a stelle e strisce. E a fianco un banchetto da televendite colmo di prodotti col marchio dell’immobiliar-populista che vuole arrivare alla Casa Bianca: vino, bistecche, riviste, acqua minerale, vodka. Donald Trump ha dato spettacolo, attirando l’attenzione con mosse non convenzionali in molti modi. L’altra sera è riuscito di nuovo a sorprendere tutti. Celebrava, in uno dei suoi resort in Florida, una vittoria squillante: la conquista con ampio margine del Michigan e del Mississippi. Bastava il palco presidenziale, ma lui aveva il dente avvelenato con Mitt Romney che lo aveva trattato da imprenditore fallito. E allora ha esposto la mercanzia mostrando al pubblico cose comuni nella vita di tutti: acqua, carne, vino. Evento politico trasformato in infomercial, hanno scritto i giornali americani: un caso discutibile (o agghiacciante, a seconda dei punti di vista) sotto almeno tre profili. Intanto per la molla che lo ha fatto scattare: Romney gli ha dato del misogino e del bullo, ma Trump si è offeso solo quando l’ex candidato alla Casa Bianca ha parlato dei suoi insuccessi imprenditoriali. E poi lo show sa di dimostrazione primitiva di potenza: la «roba» ostentata come trofeo davanti agli avversari. La terza questione ci è più familiare: poca sensibilità per i conflitti d’interessi (Trump, bontà sua, ha promesso che non ripeterà lo spettacolo da piazzista alla Casa Bianca). In realtà l’aspetto più grottesco è un altro: salvo il vino (viene da una vigna in Virginia gestita dal figlio, Eric), i prodotti mostrati non esistono: la Trump Vodka, un fallimento, è stata ritirata nel 2011. L’acqua, imbottigliata da altri e con la faccia di Trump appiccicata sopra, è disponibile solo negli alberghi, casinò e resort dell’immobiliarista. Le Trump Steak sono un esperimento finito in disastro diversi anni fa. E infatti, ingrandendo l’immagine, si scopre che la carne mostrata viene da una macelleria che, ironicamente, si chiama Bush Brothers. Anche il Trump Magazine, a suo tempo definita una rivista porno per ricchi, non viene più stampato da anni. E allora? Forse, suggerisce il New York Times, Trump pensa a una versione capitalista della transustanziazione: oggetti qualunque che diventano prodigiosi solo per il tocco di Donald. Non sarebbe male: Trump a Raqqa da presidente Usa e i ribelli dell’Isis che, davanti a lui, depongono le armi per andare a fare i croupier e i portieri d’albergo.  


The U.S. president talks through his hardest decisions about America’s role in the world.
In the April issue cover story, Obama says he’s proud of not enforcing “red line” in Syria; rejects “the Washington playbook”; believes Middle East is unfixable, and Saudi Arabia needs to “share” the region with Iran; blames European “free riders” for mess of Libya; says Ukraine will always be vulnerable to Russian domination; and explains pivot to Asia and Latin America
Atlantic
Sfogo sugli alleati 'scrocconi', sauditi ed europei  In una lunga intervista il bilancio della sua politica estera
Repubblica

Obama contro tutti: «Libia nel caos per colpa di europei e Clinton» 

Medio Oriente. Il presidente è un fiume in piena: affondi su Cameron, Sarkozy e sauditi. Ma se critica l'operazione contro Tripoli del 2011 oggi sta partecipando alla preparazione di una nuova campagna
Chiara Cruciati Manifesto 11.03.2016 
«La Libia è nel caos». Il presidente Usa Barack Obama segue le orme dei predecessori e a 5 anni dalla campagna Nato contro la Libia critica quell’operazione. Ma non se ne assume del tutto la responsabilità: la scarica sui suoi consiglieri, sull’Europa e sul Golfo. 
In un’intervista alla rivista The Atlantic, Obama si è tolto tutti i sassolini che aveva nella scarpa. Interventi a gamba tesa su tutti: ha lamentato la mancanza di sostegno da parte degli alleati europei e delle petromonarchie del Golfo, le divisioni tribali del paese, gli errori commessi dai suoi stessi consiglieri. Come Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, il cui piano di intervento «non ha funzionato». L’affondo del presidente arriva nei giorni caldi delle primarie democratiche e fa tremare la campagna elettorale della Clinton. 
«Quando guardo indietro e mi chiedo cosa è andato storto, mi critico perché ho creduto che gli europei, per la vicinanza alla Libia, si occupassero del follow-up». In particolare, Obama punta il dito sul premier britannico Cameron e sul presidente francese Sarkozy che hanno permesso che la Libia si trasformasse da entità statale a problema ingestibile. Si è «distratto», dice con ironia Obama del primo ministro di Londra, contribuendo così ad «uno spettacolo di merda». 
La Francia, invece, si vantava di «tutti gli aerei abbattuti, seppur fossimo stati noi a distruggere le difese aeree». E se gli europei sono «opportunisti» perché fanno pressioni sugli Usa per poi tirarsi indietro, i sauditi infiammano conflitti in tutta la regione e per questo hanno perso il sostegno acritico di Washington. 
Al contrario gli Stati Uniti, secondo il presidente, hanno portato avanti l’operazione come previsto. Solo che non ha funzionato: «Abbiamo avuto il mandato Onu, abbiamo creato una coalizione, l’operazione ci è costata un miliardo di dollari. Abbiamo evitato vittime civili su larga scala. Nonostante ciò la Libia è nel caos». 
Solo su un punto Obama si dice soddisfatto: non aver lanciato, nel settembre 2013, l’operazione contro la Damasco di Assad. «Sapevo che premere il pulsante di pausa avrebbe avuto il suo costo politico, ma mi sono svicolato dalle pressioni e ho pensato in modo autonomo». Più o meno: all’epoca a obbligare Washington a tirare il freno fu l’intervento diplomatico della Russia 
Il mea culpa con il senno di poi è una caratteristica di molti leader. C’è chi si scusa per l’Iraq, c’è chi dice che l’interventismo internazionale ha creato l’humus per la nascita di al Qaeda prima e l’Isis poi. Eppure la strategia resta la stessa: l’Obama che critica quell’operazione è lo stesso che ha sul tavolo il piano del Pentagono per un nuovo intervento in Libia. È il capo dell’amministrazione che fa pressioni sull’Italia per avere Sigonella e che accetta la spartizione decisa dagli europei di un paese già frammentato. Ed è colui che fu a capo della coalizione anti-Gheddafi, senza che esistesse una reale alternativa politica al colonnello. 
Difficile quindi che le critiche dell’inquilino della Casa Bianca modifichino gli attuali progetti bellici. Ufficialmente, ripetono le cancellerie occidentali, si interverrà solo per fermare lo Stato Islamico, arroccato a Sirte e Derna, ma capace di infiltrarsi lungo tutta la costa. 5-6mila uomini che approfittano del caos libico per ampliarsi: se queste fossero effettivamente le forze militari islamiste, non sembrerebbero una minaccia insormontabile. Il problema è un altro: in Libia non c’è un governo legittimo da sostenere contro il nemico islamista, ma una galassia di autorità diverse che frammentano il paese. 
Un intervento esterno, con o senza richiesta di un eventuale esecutivo di unità, non avrebbe un effetto stabilizzatore ma amplierebbe questi settarismi. In tale contesto lo Stato Islamico è consapevole di aver raggiunto l’obiettivo: l’arrivo continuo di nuovi adepti – che diminuiscono in Siria ma aumentano in Libia –garantisce l’allargamento di una struttura che ha come scopo la destabilizzazione della Libia. 
Lo ha detto chiaramente il nuovo “emiro” dell’Isis nel paese, Abdul Qadr al-Najdi, alla rivista di Daesh al-Naba: l’organizzazione «diventa più forte, giorno per giorno» tanto da fare dello Stato nordafricano «l’avanguardia del califfato», ha detto prima di minacciare Roma di una prossima conquista e i paesi vicini (in primis la Tunisia) di future operazioni. 
Intanto proprio a Tunisi ieri si apriva l’ennesimo tavolo Onu per ridare vitalità al morente dialogo nazionale. Gli incontri saranno gestiti dall’inviato per la Libia Kobler, nell’obiettivo di superare lo stallo dovuto al parlamento di Tobruk. Da settimane il governo ufficialmente riconosciuto dall’Occidente si rifiuta di votare la proposta di governo unitario promossa dal premier designato al-Sarraj. 
La giustificazione ufficiale è la continua mancanza del quorum, ma l’assenza dei parlamentari è da imputare al diktat del capo dell’esercito, Khalifa Haftar, che punta – su spinta del suo stretto alleato, l’Egitto – a ricoprire una carica di prim’ordine. Una carica che gli permetta di controllare il futuro del paese.


Guerra in Libia, il presidente americano rovescia il copione 
Guido Moltedo Manifesto 11.3.2016, 23:59 
C’è una dottrina Obama? C’è, ed è il rovesciamento del «copione che a Washington si presume i presidenti debbano seguire». E «il copione prescrive risposte a eventi diversi, e queste risposte tendono a essere risposte di tipo militare». È un copione che può portare a «bad decisions». E a errori. Come in Libia. Che «ora è nel caos». Perché fu «un errore» il sostegno dato dalla Casa Bianca all’intervento militare della Nato nel 2011, uno sbaglio gravido di conseguenze nefaste. Sono le parole di Barack Obama. 
«The Obama Doctrine» è il titolo di un lungo colloquio a tutto campo con Jeffrey Goldberg, il giornalista di The Atlantic che ha una relazione personale con il primo presidente africano americano. 
E da tempo ne raccoglie i punti di vista, senza i veli dell’ufficialità, sui temi più delicati della politica internazionale. È un titolo semplice, quello dato all’intervista, ma pregnante. Perché a Obama è stato spesso, da più parti, rimproverato di non avere una visione organica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, una dottrina, appunto. La sua riluttanza, peraltro più volte illustrata e spiegata, a usare la forza militare non come estrema risorsa ma come mezzo principale è stata vista dall’establishment washingtoniano, dagli alleati europei e mediorientali (e dalle macchiette di certi nostri commentatori che fanno da cassa di risonanza) come incertezza e debolezza di leadership, inadeguatezza di pensiero strategico, e dunque assenza di dottrina. 
L’attacco alla Libia fu dunque «un errore». Non fu un errore, invece, la rinuncia all’intervento in Siria dopo che sembrava tutto predisposto per porlo in atto. Parla chiaro Obama, anche quando rammenta che c’era chi, nella sua stessa amministrazione, aveva un’idea opposta. I falchi, non cercateli però al Pentagono, ma al Dipartimento di stato, dove Hillary Clinton predicava l’uso della forza, in sintonia con leader come Sarkozy e Cameron (che Obama non esita a definire free riders, scrocconi, che – nel caso libico – si pavoneggiavano degli obiettivi colpiti… dalla forza aerea statunitense). 
Napolitano non è chiamato in causa, ma l’Italia allora si unì alla logica interventista. Retrospettivamente, data anche la vantata relazione personale con Obama, bene avrebbe fatto a offrire una sponda al presidente statunitense, e cercare di scongiurare il disastro alle porte di casa. 
Di questa intervista si discuterà molto e a lungo. Per i temi affrontati, dall’Ucraina alla Cina, dall’Arabia Saudita all’Iran. Per l’inusitata franchezza e durezza. Ma intanto colpisce la tempistica. Non è un’iniziativa che dà man forte a Hillary, confermata nel suo ruolo di falco. Lei, la responsabile del drammatico pasticcio di Bengasi, mai veramente chiarito e destinato a tornare in primo piano nel confronto diretto con il suo rivale repubblicano. Ma Clinton non gode del sostegno di Obama, anche se non ancora dichiarato ufficialmente? Già, ma probabilmente Obama pretende che chi si candida a succedergli dica parole chiare di continuità nella politica internazionale, per poter avere il suo endorsement esplicito. Troppo spesso Clinton lascia capire che volterebbe decisamente pagina. 
E a proposito di Libia, è ovvio che le parole del presidente statunitense sono un chiaro monito nei confronti di chi di nuovo si eccita all’idea di fare il bis dell’intervento del 2011. Un’idea che, a maggior ragione, dopo questa intervista, è pura follia.

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