martedì 3 maggio 2016
L'Italia che dice Sì: i giovani squali neoliberali riformano la Costituzione della Repubblica
Una Babele di voci nel fronte del “no”
La sinistra dem indecisa Gotor: libertà di coscienza. Bersani: voto sì
di Francesco Maesano La Stampa 3.5.16
Una
sola risposta per tante voci, indistinguibili ma separate: il fronte
del no al referendum confermativo della riforma costituzionale è diviso e
frastagliato. E i contorni combaciano con quelli delle appartenenze
partitiche e di coalizione.
L’unico vero esperimento di sintesi a
reggere, per ora, è quello del centrodestra. Forza Italia, Lega e
Fratelli d’Italia hanno presentato già a gennaio il loro comitato del no
presieduto da Annibale Marini. La trazione, soprattutto al sud, è
affidata a Forza Italia. Berlusconi in questi giorni ha scritto ai
coordinatori regionali e provinciali del partito per chiedergli di
iniziare a lavorare per la costituzione dei comitati locali. Su Roma
dovrebbero lavorare gli esponenti del partito di Giorgia Meloni mentre
al nord toccherà a al Carroccio mettere a disposizione la propria
macchina. L’unità referendaria del centrodestra per ora regge, ma la
realtà è che prima del risultato delle amministrative nessuno è in grado
di dire se e quanto le spaccature interne al campo che ha governato il
paese con i quattro governi Berlusconi rischino di produrre un rompete
le righe anche sul voto contro la riforma Boschi. Specie dopo la
conclusione traumatica della partita romana per la scelta del candidato
sindaco.
Oltre a quello del centrodestra ci sono anche i comitati
dei centristi di Mauro e Giovanardi e quello appoggiato da Sel. E anche
il M5S va verso la presentazione di un suo comitato, ma la sua posizione
è più complessa.
I vertici vorrebbero depotenziare il più
possibile la portata politica del voto ragionando sul fatto che,
solleticato sul tema dei costi della politica, anche il loro elettorato
potrebbe essere tentato di dare semaforo verde al testo. Per questo
l’idea di appoggiare la proposta dei Radicali di spacchettare il
referendum inizialmente era piaciuta. Ma per i Cinquestelle le
difficoltà tecniche di arrivare a una soluzione che permetta ai
cittadini di esprimersi su singoli punti della riforma rendono
impraticabile la scelta. Più agevole, invece, evitare lo scontro e
stemperare il più possibile la contrapposizione.
C’è poi il
capitolo della sinistra Pd. Anche da quelle parti si attende il
risultato del voto delle amministrative. Poi, a risultato consolidato,
si capirà se esiste lo spazio per mettere in difficoltà Renzi sul
referendum. Se il governo dovesse uscire rafforzato o senza troppe
ferite dal voto di giugno allora in molti potrebbero decidere di
svoltare convintamente sul sì. Se invece dovesse arrivare uno stop
politico al governo allora la contropartita chiesta dalla minoranza per
non spaccare a ottobre sarebbe la riapertura dell’Italicum chiesta più
volte. Ieri Miguel Gotor è tornato a chiedere al premier-segretario che
«un grande partito come il Pd lasci lo spazio per la costituzione al suo
interno di comitati del no», auspicando una sorta di libertà di
coscienza sul tema per «abbassare la temperatura plebiscitaria della
consultazione». E ieri Bersani chiariva: «Voteremo sì purché non venga
fuori un sì cosmico contro un no cosmico». Quel che pare assodato è che
né Speranza né Cuperlo promuoveranno in prima persona comitati del no:
saranno, in caso, gli attivisti legati al periodo bersaniano del partito
a farlo.
La scommessa del Premier
di Stefano Folli Repubblica 3.5.16
MANCANO
circa cinque mesi e mezzo al referendum costituzionale previsto per
ottobre, in una domenica da stabilire. Quasi un’era geologica per i
ritmi nevrotici della nostra politica. In mezzo c’è di tutto, fra
l’altro le elezioni amministrative, la verifica di quanto sia veritiera
la ripresa economica e persino le vacanze estive. Eppure nessuno si
stupisce se Renzi ha già cominciato la campagna elettorale per l’unico
risultato che gli sta davvero a cuore e su cui ha investito se stesso.
L’avvio
della battaglia è nello stile del personaggio: irruente e ricca di
iperboli ben al di là del merito di una riforma che archivia, certo, il
“bicameralismo” paritario, ma forse non è lo spartiacque definitivo fra
il bene e il male. O l’inizio del mondo nuovo. Anche qui, nessuna
meraviglia. Il premier si sta giocando una partita politica che è molto
nelle sue corde e, a quanto pare, le sfumature lo infastidiscono. Come
non lo preoccupa affatto la divisione degli italiani. Anzi, egli stesso
scava un solco profondo fra il “sì” e il “no”. Un solco che solo in
apparenza riguarda le misure costituzionali — dove c’è dell’altro oltre
la riforma del Senato — , ma in realtà mira a generare una maggioranza
di veri riformatori, protesi verso il futuro, soldati del premier
(l’esercito del “sì”) e una minoranza di conservatori, “gufi”, amici dei
sindacati e nemici del progresso (la forza oscura del “no”).
Si
tratta, come è ovvio di una semplificazione utile a coinvolgere la gente
e spingerla al voto, sia pure fra cinque mesi e mezzo. Renzi è
piuttosto abile nella comunicazione, si muove nel suo recinto prediletto
— la campagna elettorale — ed è possibile che il suo messaggio
attecchisca. Del resto, sappiamo che nessuno sforzo sarà risparmiato per
convincere gli italiani. Andandoli a cercare, se necessario, “casa per
casa”. Sono lontani i giorni dell’astensione sulle trivelle. Ora è tempo
di una mobilitazione estesa su tutto il territorio nazionale — anche
nel Mezzogiorno prima trascurato — e quasi militare.
Ovvio che
questa logica plebiscitaria alimenti già da settimane aspri contrasti.
Ma, come detto, Renzi adora il conflitto e lo ritiene — non del tutto a
torto — essenziale alla lotta politica. Il punto è che egli non si
limita a spaccare in due il Paese di oggi, con le sue contraddizioni e
sofferenze. Lo frattura anche sul piano storico, ponendo il suo governo
come l’unico che ha realizzato in appena due anni “un cambiamento
radicale” dopo “63 governi dormienti”. Questa è forse l’affermazione
meno meditata e sarà opportuno che il premier la corregga quanto prima;
63 governi... ossia tutti quelli che si sono susseguiti nell’Italia
repubblicana dal dopoguerra al 2014. Oltre sessant’anni di vicende
storiche in cui l’Italia, prima della crisi, ha conosciuto tassi di
sviluppo che oggi sono un remoto ricordo.
La sciabolata non
riguarda quindi Enrico Letta o Mario Monti o magari i governi della
Prima Repubblica declinante. Vengono cancellati tutti in un colpo solo, a
cominciare da Alcide De Gasperi fino a Romano Prodi, passando per
un’icona della ministra Boschi come Amintore Fanfani; e gli altri a
seguire. Il messaggio, anche in questo caso, è trasparente: votando “sì”
voterete per me e votando per me entrerete nella nuova era. Non c’è più
il vecchio Pd, residuo di un’epoca tramontata; c’è a tutti gli effetti
il “partito di Renzi” che emerge dalle urne e da vincitore si preparerà
alle future elezioni politiche nel sistema monocamerale. O me o il caos.
Da
un lato, non si può non riconoscere la personalità e il coraggio al
limite della temerarietà del premier, capace di perseguire un progetto
con inesausta energia. Dall’altro, si obietta che in realtà una certa
inquietudine serpeggia sotto la baldanza. I sondaggi non sarebbero così
orientati a favore del “sì” e quindi occorre una sferzata vigorosa e in
anticipo sui tempi. In ogni caso, la spinta verso il plebiscito presenta
evidenti opportunità, in quanto personalizza la campagna intorno al suo
protagonista. Ma offre anche gravi incognite. Se il Paese non segue, il
cortocircuito può diventare drammatico.
La Costituzione non si cambia con un plebiscito
di Salvatore Settis Repubblica 3.5.16
CHIUNQUE
intenda il referendum d’autunno sulla Costituzione come un plebiscito
pro o contro il governo fa un errore di grammatica istituzionale. La
Costituzione non è un regolamento condominiale.
NON si riforma per
comodo di chi governa, né si respinge se l’attuale governo non ci
piace. Le Costituzioni vanno pensate “per sempre”: come quella
americana, che dal 1789 ha avuto solo 27 emendamenti, dei quali dieci
tutti insieme, e dal 1992 nessuno. Ma l’equivoco del plebiscito oscura
la sostanza dei problemi, spinge a trattare il tema come una
competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da valere
nei tempi lunghi. Dimenticando che dalla tenuta della Costituzione
dipende la vita della democrazia, anzi della Repubblica. Certo, non è
facile discutere nel merito una riforma che modifica in un sol colpo 47
articoli della Carta; mentre dal 1948 ad oggi si erano cambiati 43
articoli, a uno a uno, seguendo l’aureo principio secondo cui le
revisioni della Costituzione devono essere «puntuali e circoscritte, con
una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento»
(Pizzorusso). Nonostante questa valanga di modifiche, è assolutamente
necessario entrare nel merito. Con un intervento tanto invasivo, è
statisticamente improbabile che vada tutto bene o tutto male. Proverò a
indicare due punti che ritengo accettabili e due che mi paiono da
respingere. Va bene aggiungere la “trasparenza” tra i requisiti dei
pubblici uffici (art. 97). La parola non era nel linguaggio politico del
1948, lo è adesso. Forse non è proprio la Costituzione il luogo per
dirlo, ma in fondo perché no? Altro punto su cui si può esser d’accordo,
la restrizione del potere del governo di emanare decreti legge (art.
77). Ma punti ancor più importanti suscitano gravi preoccupazioni. Ne
indico solo due. L’art. 67 della Costituzione vigente dice: «Ogni membro
del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato» (ossia senza obbligo di ubbidienza verso il
partito, ma con piena responsabilità personale). Questo principio è
stato già svilito dall’indecorosa migrazione di parlamentari da un
partito all’altro (a fine gennaio 2016 si contavano 325 metamorfosi dei
voltagabbana di questa legislatura). Ma nella proposta di riforma
costituzionale il testo vigente, breve e chiaro, viene smembrato e
disfatto. Il nuovo articolo 67 direbbe infatti: «I membri del Parlamento
esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato ». Scompaiono le
parole «rappresenta la Nazione», trapiantate (depotenziandole) nell’art.
55, da cui risulta che «Ciascun membro della Camera dei deputati
rappresenta la Nazione». Avremo dunque un Senato i cui membri non
rappresentano piú la Nazione, perché «il mandato dei membri del Senato è
connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale» (cosí la
relazione esplicativa). Ma siccome gli ex Presidenti della Repubblica
saranno senatori a vita, avremo l’assoluta meraviglia di Presidenti come
Ciampi e Napolitano che non rappresenteranno più la Nazione, bensì le
istanze locali.
Ma come verrà eletto, secondo la riforma, il
Presidente della Repubblica? Lo faranno deputati e senatori, come ora
(art. 83). Ma con una differenza importante. Oggi il Presidente è eletto
con una maggioranza di due terzi dell’assemblea nei primi tre scrutini
(così nel caso di Ciampi, 1999), con la maggioranza assoluta dal quarto
in poi (così Napolitano, 2006). In futuro, se la riforma sarà approvata
nel referendum, non sarà più così. Nei primi tre scrutini resta valida
la maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto in poi si passa
ai tre quinti dell’assemblea; ma la vera novità della riforma scatta a
partire dal settimo scrutinio: da questo momento in poi basterà la
maggioranza assoluta non più dell’assemblea, bensì dei votanti. In altri
termini, se al settimo scrutinio dovessero votare solo 20 fra deputati e
senatori, a eleggere il Presidente basteranno 11 voti. Gli assenti
dall’aula avranno sempre torto. Si aprirebbe così la gara a colpi di
mano, delegittimazioni, conflitti procedurali. Un Presidente eletto
cosí, certo, non «rappresenta la Nazione» nemmeno quando è in carica,
figurarsi da senatore a vita. Chi ha votato questo articolo in aula
doveva essere davvero assai distratto.
Nel merito bisogna entrare
(non lo farò ora) anche sul neo-bicameralismo che nasce dal nuovo Senato
non elettivo. E’ difficile, è vero, render conto dell’intrico di
competenze fra le due Camere quale risulta dall’ammucchiata verbale
della riforma (l’art. 70, nove parole nella Costituzione vigente, ne
conta 434 nel nuovo). Ma è importante parlarne nel merito: perché
criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non
vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che «non funzionerà mai
e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento» (Ugo De
Siervo).
Davanti a enormità come quelle degli artt. 67 e 83 (e non
sono le sole), c’è da chiedersi perché mai l’elettore debba essere
obbligato a votare in blocco con un SI’ a tutto (comprese le modifiche
che detesta) o con un NO a tutto (comprese quelle su cui è d’accordo).
E’ stato uno svarione istituzionale cucinare in un unico testo una
riforma tanto estensiva; ma è ancora possibile rimediare in parte
segmentando i quesiti referendari in più punti, come propone il
documento firmato da 56 costituzionalisti, fra cui 11 presidenti emeriti
della Corte Costituzionale. Sarebbe più rispettoso della Costituzione,
degli elettori, della democrazia. Ma il governo avrà il coraggio di
farlo?
La strategia ora è evitare il plebiscito personale
di Marcello Sorgi La Stampa 3.5.16
Ci
sono un paio di ragioni per cui Renzi ha deciso di aprire con congruo
anticipo, ieri, la campagna per il referendum costituzionale di ottobre.
La prima, anche se non la principale, è che preferisce di gran lunga
questa alla più impervia, per lui e per il centrosinistra, campagna per
le comunali di inizio giugno, in cui, a parte Torino e Bologna, la
situazione è incerta a Milano, difficile a Roma, data per persa a Napoli
e complicata nel resto delle città medio-piccole in cui si vota. Questo
non vuol dire che Renzi, prima o poi, non sia portato a partecipare
anche alla corsa per i sindaci, ma un conto è inquadrarla nella partita
più grossa, su cui premier e governo mettono la faccia, della Grande
riforma, e un conto è trovarsi a combattere su due fronti.
Così il
motivo vero per cui Renzi ha scelto la sua Firenze per dare il via alla
battaglia che, nelle sue aspettative, dovrebbe vedere la nascita di
diecimila comitati per il “Si” in tutta Italia, dando forma a
un’effettiva partecipazione dal basso alla svolta introdotta con
l’approvazione del disegno di legge Boschi, è che la campagna per il
“No” è ormai entrata nel vivo, e vede in prima linea, non solo il
variegato fronte partitico che va dal Movimento 5 stelle a Berlusconi e
Fratelli d’Italia, passando per la Sinistra italiana e forse perfino una
parte della minoranza Pd, ma pezzi importanti di società civile, a
cominciare dallo schieramento di professori e costituzionalisti decisi a
dimostrare che quella che il governo vuole imporre è una “svolta
autoritaria”.
Contro queste elites - ci sono almeno due documenti
di professori, oltre a un terzo, che invoca, cosa mai avvenuta nelle
precedenti esperienze di referendum costituzionali, la suddivisione del
quesito referendario in almeno tre parti, in modo da spezzettare gli
eventuali consensi e dissensi a parti della riforma, e renderne
praticamente impossibile l’approvazione popolare - Renzi vorrebbe
costruire un’autentica mobilitazione popolare, disgiunta dalle insegne
di partito e affidata soprattutto a giovani che dovrebbero organizzarsi
per dare corpo e voce all’Italia del “Si”, contrapposta a quella che
resiste alle riforme e vota “No”. Già da questo esordio si può dunque
dedurre la novità della campagna, rispetto alla prima uscita di un paio
di mesi fa: non più, o non soltanto, un referendum su Renzi, ma sui
cambiamenti che il governo, tra mille contrasti, ma finora senza
arrendersi, sta cercando di introdurre in Italia.
Il governo alla sfida più difficile
di Giovanni Sabbatucci La Stampa 3.5.16
Aprire
una campagna elettorale con quasi sei mesi di anticipo sulla data della
consultazione è impresa inconsueta e non priva di rischi. In gergo
ciclistico, è come lanciare una volata a molti chilometri dal traguardo.
Evidentemente, Matteo Renzi, anticipando la mobilitazione dei comitati
per il sì al referendum costituzionale da lui promosso, ha voluto
enfatizzare ulteriormente il senso politico di una prova elettorale al
cui esito ha legato le sue fortune di leader e la sua stessa permanenza
al governo. Non solo, dunque, una tappa per quanto importante
nell’attuazione del suo programma, ma l’inizio di una nuova fase nella
storia del paese: quella in cui i governi durano una legislatura, le
riforme non restano sulla carta, le risorse si indirizzano dove sono più
necessarie. Inoltre, con l’annuncio dato ieri di forti investimenti in
ricerca e cultura e di nuovi stanziamenti per il Mezzogiorno, il
presidente del Consiglio intende dare sostanza a queste promesse – una
sorta di New Deal di mezzo termine – su un terreno in cui attaccarlo
sarà più difficile per i suoi critici.
Questi i vantaggi
auspicati. Ma i rischi da affrontare non sono da poco. E riguardano non
tanto l’esito del voto referendario, quanto le difficoltà del percorso
da coprire e i loro possibili effetti sulle dimensioni di una vittoria
che i più danno per scontata. Il primo ostacolo riguarda le
amministrative di giugno: scadenza importante di per sé (parliamo delle
quattro maggiori città italiane), che in quanto tale non andrebbe
sottovalutata. Concentrando il fuoco sul referendum di ottobre, Renzi
non rende un buon servizio ai suoi candidati-sindaco e fa crescere per
il Pd le incognite di una competizione già incerta; mentre, al
contrario, un risultato almeno in parte positivo nelle città avrebbe sul
partito un effetto tonico in vista della battaglia principale.
I
fattori decisivi che possono complicare la lunga volata del presidente
del Consiglio sono però altri, e rinviano al quadro generale, italiano e
non solo. Se l’economia reale dà qualche segno di ripresa, i numeri
della finanza pubblica sono sempre preoccupanti. Il debito non smette di
crescere e i partner dell’Unione europea non sembrano disposti a farci
sconti. Anzi minacciano di lasciarci soli sulla questione dei migranti.
Poi c’è l’imbroglio libico, che potrebbe costringere il governo, sinora
assai prudente in materia, a una qualche forma di intervento diretto,
con gli inevitabili strascichi polemici. Nessuno sa come potrà evolvere
la situazione sui vari scacchieri da qui a ottobre. Ma è certo che,
allungandosi il tempo della campagna elettorale, cresce per il governo
la possibilità di complicazioni.
Paradossalmente, un fattore che
potrebbe favorire la campagna renziana sta nella debolezza, a volte
nella pretestuosità, delle critiche rivolte alla riforma. Da sinistra ci
si erge, quasi per un riflesso automatico, a custodi della Costituzione
violata e si paventano improbabili derive autoritarie. La destra e i
grillini ripropongono svarioni come quello su Renzi abusivo perché non
eletto dal popolo (o sul Parlamento illegittimo perché eletto col
Porcellum). Se la partita si giocasse sul merito delle innovazioni
proposte, il successo dei sì sarebbe probabilmente largo. Ma discutere
sul merito di qualcosa in Italia è sempre più difficile. E la
personalizzazione imposta da Renzi alla campagna referendaria in questo
senso non aiuta.
I sondaggi danno i contrari in testa Al premier servono 20 milioni di voti
Il tema della “mobilitazione” al centro del primo comizio
di Fabio Martini La Stampa 3.5.16
Nello
spumeggiante comizio al teatro Niccolini di Firenze, Matteo Renzi ha
pronunciato tre frasi, distanti tra loro, ma collegate da un filo rosso
che corrisponde alla preoccupazione inconfessabile del presidente del
Consiglio: riuscire a motivare e a trascinare alle urne del referendum
di ottobre milioni e milioni di elettori, almeno venti, perché tanti
presumibilmente ne serviranno per vincere una consultazione che Renzi
stesso ha voluto trasformare in un plebiscito sulla sua leadership. Le
tre frasi rivelatrici scandite ieri dal palco del Niccolini sono queste.
La prima: «Io non sarei mai arrivato a Palazzo Chigi se non avessi
avuto una straordinaria esperienza di popolo». La seconda: «Ora c’è una
partita che da solo potrei anche vincere ma non basterebbe». La terza:
«Sono sicuro che vinceremo il referendum sulle riforme costituzionali.
Non ho paura di perdere, ma ciò che è più importante è coinvolgere gli
italiani, ho bisogno di voi, ho bisogno che ci siano 10mila comitati in
tutta Italia».
Spinto dall’adrenalina, dalla sua proverbiale fame
di vincerle tutte, Renzi riscopre il popolo delle Primarie, ammette che
ha «bisogno» della base del suo partito, solitamente oggetto trascurato
nella propaganda e nella prassi renziana, arrivando a sostenere che non
ha paura di perdere e che la cosa più importante è «coinvolgere» gli
italiani. Frasi da comizio, perché è evidente che per Renzi la cosa
migliore sarebbe vincere - e non perdere - il referendum, mentre è
verace l’auspicio del presidente del Consiglio sul coinvolgimento del
maggior numero di elettori possibile. E Renzi sa che non basterà portare
milioni di elettori a votare: la vittoria del “sì”, che nel Palazzo
viene data scontata, non lo è per uno degli istituti più seri in fatti
di sondaggi. Per Euromedia Research, guidata da Alessandria Ghisleri,
per anni sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi, la più recente
rilevazione parla chiaro: i “no” sono in vantaggio sui “sì”, sia pure di
misura: 52 per cento contro 48.
Nell’analisi fatta a palazzo
Chigi dei risultati del referendum sulle trivelle del 17 aprile, si
valuta che non tutti i 15 milioni e mezzo di italiani che sono andati a
votare, lo abbiano fatto perché “anti-renziani”. È vero che il
presidente del Consiglio aveva consigliato di stare a casa, ma parecchi
elettori sono andati alle urne motivati dalla ostilità alla normativa
sottoposta a referendum, come dimostra l’alta partecipazione nelle
regioni adriatiche, le più interessate alla questione. E dunque, neppure
il totale dei sì (13 milioni e 334mila) alla abrogazione alla legge (la
posizione più lontana da quella del governo) sono totalmente
ascrivibili al fronte degli elettori anti-Renzi. Eppure, fatte queste
premesse contabili e logiche, si valuta in 10-12 milioni il numeri degli
elettori che sono andati a votare con l’obiettivo di mandare un
messaggio a Renzi. Con una partecipazione che a ottobre si immagina non
si fermerà al 31,18% e possa superare quota 50, Renzi dovrà motivare
18-20 milioni di elettori per superare i suoi antipatizzanti. Calcoli
non sufficienti, anche perché Renzi sa che non basterà motivare i
“propri” elettori. Gli ultimi, attendibili sondaggi sono allarmanti.
L’unico
istituto che si è occupato in modo sistematico di testare l’opinione
degli elettori sul tema referendum è Euromedia, che ha compiuto il primo
sondaggio il 5 febbraio: anche allora prevalsero i “no”, ma di
strettissima misura: 51 a 49. Il problema, visto da palazzo Chigi, sta
proprio in questo: in tre mesi nulla di sostanziale si è modificato
nella opinione degli italiani interpellati dall’istituto.
Referendum costituzionale, volontari “modello testimoni di Geova” Per il ministero dello Sviluppo economico ha scelto Chicco Testa
di Carlo Bertini La Stampa 3.5.16
La
campagna dei cinque mesi 15 maggio-15 ottobre assume un profilo
militaresco, strategia e tattica studiate al millimetro perché la posta è
troppo alta e perché la battaglia finale si disputerà dopo una tornata
di comunali ad alto rischio: la prima data fatidica dunque è il 15
maggio, lì partiranno i 10 mila comitati per il sì al referendum
costituzionale, dalle dieci alle cinquanta persone l’uno, «una
gigantesca campagna porta a porta, casa per casa» con decine di migliaia
di volontari. Che nei voleri del premier e della sua squadra d’assalto
dovranno entrare nelle case degli italiani, sul «modello testimoni di
Geova», scherza un dirigente, «per darti una brochure e spiegarti perché
va votata la riforma». Insomma se è vero quello che dice il premier che
«dopo due anni di cambiamento radicale la sfida più grande parte
adesso»; se è vero che lui ci mette la faccia e si gioca la pelle - «io
sono in prima fila», garantisce con piglio da comandante in campo -
nella sua war room si sta mettendo a punto tutto, fino all’ultimo
dettaglio: dal format stile primarie 2012, con Renzi che dopo aver
venduto il sè stesso rottamatore oggi vende quanto fatto nei due anni al
governo, al tour dei teatri italiani e sequenza di uscite tivù; fino al
profilo che avrà la Boschi eretta a testimonial della sua riforma, che
testerà nel suo giro d’Italia la tenuta del suo gradimento dopo gli
scossoni di questi mesi dovuti all’affaire banca Etruria.
Testimoni di Geova
«Noi
scegliamo di andare a vedere da che parte sta la gente. Io ho bisogno
che ci siano 10 mila comitati in tutta Italia perché ora diventa un
bivio tra l’Italia che dice sì e quella che dice solo no», dice il
premier nella rampa di lancio scelta per dare il “la”, il teatro
Niccolini di Firenze. I fedelissimi in prima fila, il «giglio magico»
dei Lotti, Bonifazi, Ermini, Parrini, è caricato al massimo e lui non li
delude. Ad un certo punto mostra una spilla, «tacchino e felice di
esserlo», regalo del senatore Esposito del Pd, un modo per dire che i
pennuti sono pronti a finire in tavola il giorno del ringraziamento:
alias i politici accettano di ridursi le poltrone abolendo il Senato
eletto e quindi danno il buon esempio a tutto il paese. È solo uno dei
refrain della campagna del referendum costituzionale, Renzi li sta
analizzando meticolosamente con il guru della comunicazione Jim Messina
che seguì la campagna di Obama nel 2012. Un sequel di parole chiave,
studiate per far presa e con uno scopo preciso: far capire ai cittadini
come cambia la loro vita, quale impatto la riforma avrà sulle loro
esistenze, che benefici possono avere da un sistema istituzionale più
snello. Eccone alcune: «Porteremo gli italiani a votare per dire sì al
futuro e no alla vecchia politica». Oppure: «Per scegliere se rimettere
le lancette indietro di due anni!». E ancora: Finalmente con questa
riforma non ci sono più senatori. La politica ha indicato la strada!
Aspettiamo il giorno in cui saranno gli altri a farlo, sindacati,
associazioni di categoria». Applausi e ovazione come quando cita il
partigiano Sarti presente in sala per dire che le radici della
Costituzione affondano nella Resistenza. Un assaggio della campagna dei
cinque mesi. Racconta chi non usa giri di parole, tratto comune nel giro
renziano, che il vero timore però è un altro: non tanto quello del
referendum in sè perché le armi per vincerlo sono molte e tutte cariche;
quanto del modo in cui ci si arriverà, se indeboliti o meno dalle
amministrative che sono un terno al lotto.
Unioni e nuovo ministro
E
non è un caso che Renzi mostri proprio in questa sede la sua
determinazione a portare a casa legge sulle unioni civili con la fiducia
alla Camera l’11 maggio: un modo per avere una bandiera da sventolare
con l’elettorato più di sinistra in tempo utile per le urne del 5 e 19
giugno. Avanti tutta sulla legge che dà un profilo di sinistra al
governo, mentre la nomina del nuovo ministro dello Sviluppo, cioè del
prescelto Chicco testa, arriverà in settimana.
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