Giorgio Parisi: «Nel programma nazionale della ricerca c’è un buco di un miliardo»
Ricerca. Intervista al fisico Giorgio Parisi: «I 2,5 miliardi stanziati dal Programma Nazionale della Ricerca sono assolutamente insufficienti. Il Pnr prevede interventi per un miliardo inferiori a quelli previsti dal Governo Letta». «Bisogna modificare la qualità e la quantità degli interventi. Al momento i fondi assegnati non compensano il buco sui finanziamenti alla ricerca diffusa»
Roberto Ciccarelli Manifesto ROMA 3.5.2016, 11:44
Giorgio Parisi, uno dei più celebri fisici italiani, è
l’animatore della campagna «Salviamo la ricerca», nata da una petizione
pubblicata su
Nature che ha raccolto online oltre
70 mila firme.
In un’intervista a Il manifesto,
il fisico romano aveva esposto le misure minime per rilanciare
l’università e la ricerca italiana dopo anni di tagli. Aumentare i fondi
per gli atenei di un miliardo di euro all’anno e i fondi per la ricerca
Prin dagli attuali 92 milioni a 300 milioni. Ieri il ministro
dell’università Stefania Giannini ha presentato il «programma nazionale
della ricerca» (Pnr) che stanzia 2,428 fino dal 2015 al 2017.
Professor Parisi, questi fondi salveranno la ricerca?
Nonostante il nome ampolloso, questo piano non riguarda tutta la
ricerca. I fondi del Pnr non vanno al finanziamento ordinario degli
atenei. È sempre stato una cosa a parte. Il fondo per l’università è
invece finanziato con la legge di stabilità.
Ma allora che cos’è questo programma?
Prevede interventi addizionali, divisi in vari capitoli, rispetto ai
fondi ordinari di finanziamento. Devo ancora analizzare il testo nei
dettagli, ma in compenso possiamo soffermarci sulle cifre
macroeconomiche presentate dal ministro Giannini nella conferenza stampa
alla quale ho assistito.
Ci sono 2,5 miliardi per gli investimenti pubblici nella
ricerca, il 42% dei quali per dottorati e ricercatori, il 20% alla
ricerca industriale e cooperazione pubblico-privato, il 18% al sud, il
14% alle infrastrutture di ricerca, l’1% alla «qualità della spesa». È
soddisfatto?
Il ragionamento da fare è sulla cifra complessiva. Il Pnr precedente
dell’ex ministro Gelmini per il triennio 2011-2013 stanziava 600 milioni
all’anno. Il governo Letta approvò un piano addirittura dal 2014 al
2020 in cui stanziava 900 milioni all’anno per sette anni, 6,3 miliardi.
Il piano è rimasto lettera morta perché quel governo è caduto e non c’è
stata la delibera del Cipe per renderlo esecutivo.
Ora questa delibera c’è.
Sì, è stato approvato il piano per il 2015-2020, ma il problema è chei
soldi per la ricerca per il 2014 e il 2015 sono rimasti al livello del
piano nazionale fatto dalla Gelmini. Vorrei anche aggiungere che un
povero fisico teorico, che non e’ esperto delle sottigliezze della
contabilità, ha grosse difficolta’ a capire come il Comitato
interministeriale per la Programmazione economica (Cipe), nel maggio
del 2016 possa approvare le spese fatte nel 2015. Mi domando anche
chesenso abbia presentare l’approvazione di spese fatte l’anno scorso
come nuovi investimenti.
Sta dicendo che non siamo davanti a un investimento, ma a un buco?
Il Governo Letta aveva preparato un piano della ricerca,
ancora reperibile sul sito MIUR, in cui si prevedeva un investimento
in ricerca dal 2014 al 2020 per un totale di 6 miliardi e 300 milioni.
Il piano presentato dal governo per il 2015-2020, anche tenendo
conto degli investimenti del 2014, arriva a 5 miliardi e 300 milioni
scarsi. Quindi rispetto ai piani del governo Letta siamo in presenza di
un disinvestimento di un miliardo in 7 anni.
Cosa risponde a chi osserva: questo è meglio di niente?
Abbiamo un po’ più di soldi della Gelmini e un po’ meno di Letta. Non è
una situazione entusiasmante. Anche perché non bisogna dimenticare che
questo è un atto dovuto, in ritardo di due anni. Il governo sta
risparmiando sulla ricerca.
Trova giustificato il suo entusiasmo?
Dipende da quali sono le aspettative. Se sono molto basse allora è
giustificato. Se le aspettative sono più alte non c’è ragione di
esserlo.
Quali sono le richieste della campagna «salviamo la ricerca»?
Finanziare la ricerca diffusa, non solo qualche punto di eccellenza come
fa già l’Europa, ma la maggioranza dei ricercatori che lavorano in
Italia. Secondo: evitare che ogni anno l’Italia perda tra 2 e 3 mila
ricercatori che vanno all’estero, perché non ci sono posti dove possono
presentarsi. Bisogna finanziare 2400 posti all’anno per otto anni.
Nel Pnr si parla di 6 mila persone…
Di cui 2700 dottorati in tre anni.
Ben al di sotto della cifra minima da lei indicata per il rilancio della ricerca…
Esatto. Lo considero comunque un primo successo della nostra petizione.
Il presidente del Consiglio Renzi ha sentito la necessità di fare
qualcosa sulla ricerca. Bisogna entrare in una seconda fase: modificare
la qualità e la quantità degli interventi. Al momento mi sembrano
assolutamente insufficienti.
I conti della ricerca “Altro che investimento, i soldi sono meno di quelli che stanziò la Gelmini”
di Luca Fraioli Repubblica 3.5.16
Al
professor Giorgio Parisi i conti non tornano. Il ministro Stefania
Giannini ha appena finito di presentare il Programma nazionale per la
ricerca, con i 2,5 miliardi stanziati per il triennio 2016-2018, e in un
angolo del salone del ministero di Viale Trastevere il fisico teorico,
uno dei più brillanti d’Italia, scuote la testa guardando il foglietto
stropicciato su cui ha appuntato le cifre. Cosa succede professore?
«Questo Pnr è interessante, ma c’è una cosa che non capisco. L’ultimo
Programma aveva coperto il periodo 2011-2013. Ora arriva questo per i
prossimi tre anni. Rimangono scoperti il 2014 e il 2015: che fine hanno
fatto i soldi che avremmo dovuto avere in quegli anni?».
I numeri
della ricerca mettono a dura prova anche le menti matematiche più
raffinate. Fanno discutere soprattutto quei 2,5 miliardi annunciati dal
presidente del Consiglio Matteo Renzi. Sono tanti o pochi? «Sono
certamente meno dei 2,7 con cui la Gelmini finanziò il suo Pnr nel 2011,
altro che investimento nella scienza da parte di questo governo», è
l’accusa che circola insistentemente in Rete in queste ore. In effetti,
anche chi ha materialmente partecipato alla stesura del Programma
nazionale per la ricerca firmato Giannini non può che ammetterlo: «Ci
vorrebbero più soldi, ma dopo anni di tagli abbiamo cercato di fermare e
invertire la tendenza », dicono dallo staff del Miur. «Inoltre, chi ha
redatto il Pnr precedente ha potuto contare su fondi europei Pon
(Programmi operativi nazionali) che erano il doppio degli attuali».
Per
il ministro è comunque un successo: «Fino a pochi mesi fa i soldi
destinati a questo Pnr erano meno di 1,9 miliardi di euro, siamo
riusciti a recuperare altri 500 milioni, il 25% in più». E l’accusa di
aver tirato fuori dal cassetto un Programma che giaceva lì dai tempi del
governo Letta? «Non voglio polemizzare con nessuno, ma noi abbiamo
trovato solo un foglio con delle cifre. Quello appena presentato,
invece, è un vero programma che cambia radicalmente l’approccio
dell’Italia alla ricerca scientifica».
Il documento è di 96
pagine, sintetizzate in 10 slide che riassumono come verranno spesi i
2468 milioni stanziati. La fetta più grande della torta (il 43%) andrà
al capitale umano: una serie di azioni per attrarre e trattenere in
Italia i migliori ricercatori. Con un miliardo e venti milioni di euro
si creeranno “dottorati innovativi” (anche fuori dall’Università),
incentivi per aiutare i vincitori di Erc (i grant dello European
research council) a fare le loro ricerche in Italia, nuovi posti da
ricercatori. Il governo prevede che con tali misure si introdurranno
6mila giovani in più nel sistema della ricerca nei prossimi 5 anni, 2700
già nel prossimo triennio. «I primi bandi saranno resi pubblici già a
fine primavera e le prime assegnazioni sono previste in autunno »,
assicura la Giannini. «Dubito che basti a colmare la voragine che si è
creata negli ultimi anni», dice Carlo Cosmelli, professore di fisica
alla Sapienza di Roma. «Dal 2008 ad oggi l’Università italiana ha perso
12mila docenti su 62mila. E oggi solo un dottorando su dieci riesce a
diventare ricercatore».
La seconda voce per importo (487 milioni)
riguarda il rapporto pubblico-privato, lo scopo è incentivare le aziende
che fanno innovazione. Cifra analoga (436 milioni, pari al 18% del
totale) è quella destinata al rilancio dell’attività di ricerca al Sud,
ottimizzando i fondi europei Pon e Por (i Programmi operativi
regionali). Alle grandi infrastrutture di ricerca (dai Laboratori del
Gran Sasso al Sincrotrone di Trieste) e al loro potenziamento sono
destinati 343 milioni di euro. E ancora: 107 milioni alla
“internazionalizzazione” (progetti per attrarre più fondi Ue,
rafforzamento delle candidature italiane in Europa) e 35 milioni per il
quality spending (bandi più snelli, procedure di assegnazione certe, per
evitare sprechi e doppioni). Per un totale, appunto, di due miliardi e
mezzo.
Ma quale sarà la scienza su cui l’Italia scommetterà nei
prossimi anni? Il Pnr individua 12 aree di specializzazione della
ricerca applicata, i settori che secondo il governo saranno strategici
per il nostro Paese. I primi quattro sono conside- rati “prioritari”:
aerospaziale, agrifood, fabbrica intelligente, salute. Poi ci sono
quelli “ad alto potenziale”: design-creatività- made in Italy, chimica
verde, cultural heritage, blu growth (economia legata al mare). Due sono
le aree tecnologiche emergenti: smart communities e tecnologie per gli
ambienti di vita. Energia e mobilità, infine, sono le aree
“consolidate”, che però potrebbero vivere una seconda giovinezza
recuperando competitività. Queste 12 specializzazioni sono state scelte
incrociando le eccellenze italiane con quello che interessa all’Europa
(e che la Ue è pronta a finanziare, per esempio con il programma Horizon
2020).
«In questa scelta vedo il punto più debole di un Pnr che
ha anche diversi lati positivi», commenta Giuseppe Mingione, professore a
Parma e uno dei matematici più citati al mondo. «Io mi occupo di
matematica teorica. Se le mie ricerche, o quelle del professor Parisi,
non dovessero rientrare, come probabile, in una delle 12 aree di
specializzazione, che facciamo? Chiudiamo e andiamo a casa?».
Comprensibilmente
soddisfatto, invece, Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia
spaziale italiana: il suo settore è in cima ai pensieri del governo
perché considerato altamente strategico. «È vero, ma abbiamo anche
dimostrato che investire nello spazio può avere un ritorno economico:
sono stati già venduti ai privati 15 voli del nostro vettore nazionale
Vega ». Battiston è stato ricercatore e professore universitario, non
ignora che molti suoi ex colleghi stanno protestando per quello che
considerano un ennesimo taglio. «Li invito a non guardare solo i valori
assoluti dei fondi stanziati, ma a valutare come verranno spesi. Un
Programma nazionale per la ricerca mancava dal 2014. Dopo due anni, il
governo Renzi ha deciso di mettere l’accento sulla ricerca. Era ora».
La ricerca italiana, i finanziamenti e le priorità europee Massimiano Bucchi* Busiarda 4 5 2016
La buona notizia è che finalmente, con oltre due anni di ritardo, il Cipe ha approvato il cosiddetto «Programma nazionale della ricerca» che mette a disposizione circa 2,4 miliardi di euro per i prossimi tre anni. Una gestazione lunga di un piano che doveva inizialmente accompagnare la ricerca italiana lungo lo stesso arco temporale del «fratello maggiore» europeo, il programma Horizon 2020 (2014-2020), di cui ricalca le principali priorità tematiche. Una questione, però, resta aperta. Su quale base si ritiene che gli investimenti nazionali debbano ricalcare le priorità europee? Si tratta di convinta adesione a obiettivi comuni, coerenti con i punti di forza e potenzialità delle nostre istituzioni di ricerca, o di mera imitazione basata su logiche amministrative? Forse sarebbe stato utile discuterne in questi anni, visto che il tempo a disposizione non è mancato.
Un esempio di come la discussione nazionale sulle politiche di ricerca rischi di perdere di vista il quadro generale ce lo dà un tema d’attualità in Europa, ovvero lo European Institute of Technology (Eit). È nato nel 2008 per trasferire conoscenza e innovazione dal mondo della ricerca a quello dell’impresa. Voluto dall’allora presidente della Commissione Ue Barroso, puntava a diventare una sorta di versione europea dell’americano Massachusetts Institute of Technology. Tra il 2008 e il 2013 i contribuenti europei hanno finanziato l’Eit con 309 milioni, mentre per il periodo 2014-2020 gli sono stati assegnati 2,7 miliardi.
Investimenti cospicui che però, a giudicare dal rapporto pubblicato dai revisori della «European Court of Auditors», non hanno dato finora i risultati attesi. L’impressione è che spesso si ri-finanzino attività che i beneficiari realizzerebbero comunque. I revisori parlano anche di scarsa trasparenza, conflitti di interesse (i beneficiari dei finanziamenti sarebbero in alcuni casi coinvolti nella valutazione degli stessi progetti) e finanziamenti concentrati perlopiù in alcuni Paesi.
Ma ad essere criticata è la stessa struttura operativa dell’Eit: si parla di carenza di leadership e di eccessivo turnover del personale che non permette una strategia di lungo periodo (attualmente vi è un direttore ad interim). Secondo la sociologa Helga Nowotny, già presidente dell’European Research Council, «la struttura dell’Eit non è stata ben concepita» sottolineando il pericolo di «aggiungere ulteriori livelli di burocrazia di cui la ricerca europea non ha certo bisogno». A differenza dei suoi modelli ispiratori, infatti, l’Eit non fa ricerca in proprio, ma redistribuisce i fondi che gli arrivano dalle istituzioni europee.
La speranza è che le osservazioni portino in primo luogo a ripensare e riorganizzare l’Eit, contribuendo a valorizzare quanto di buono è stato fatto. Ma sarebbe anche utile che ricercatori e istituzioni italiane facessero sentire con più forza la propria voce. È importante avere un programma nazionale della ricerca, ma ancora più importante è collocarne il senso in quel quadro europeo a cui tutti, almeno a parole, dichiarano di guardare.
* Università di Trento BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
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