Demografia è destino
Le proiezioni danno la popolazione europea in declino, ma in modo difforme. Più colpiti saranno i paesi grandi e con poco sostegno alla natalità, come l’Italia. Gli effetti sociali ed economici. I rischi geopolitici. L’immigrazione come antidoto alla senescenza.
di Massimo Livi Bacci Limes 1.4.16
QUASI OTTANT’ANNI FA, IN UN FAMOSO discorso tenuto alla Eugenics
Society, John Maynard Keynes affermò: «Una popolazione crescente ha
un’importante influenza sulla domanda di capitale. Non solo la domanda
di capitale aumenta – al netto del progresso tecnico e del miglioramento
delle condizioni di vita – in approssimativa proporzione alla
popolazione. Ma poiché le aspettative degli imprenditori si fondano più
sulla situazione attuale che su quella futura, un’èra di popolazione
crescente tende a promuovere l’ottimismo, dato che la domanda tenderà a
superare le aspettative, piuttosto che deluderle». In un’èra di
popolazione declinante, aggiungeva Keynes, avviene invece il contrario:
«La domanda tende a deludere le aspettative e una situazione di eccesso
d’offerta è difficile da correggere, sicché si può determinare
un’atmosfera di pessimismo. (…) Il primo effetto del cambiamento da una
popolazione crescente a una declinante può essere disastroso» 1 . Per
Keynes e i keynesiani, fino ai nostri giorni, il declino della
popolazione avrebbe lo stesso effetto oggi imputato alla deflazione: un
rinvio degli acquisti da parte dei consumatori, un conseguente calo
degli investimenti da parte delle imprese, un cedimento della domanda,
l’arresto o l’inversione di segno della crescita. Prima di continuare,
occorre chiedersi: ma il futuro della popolazione europea 2 è davvero il
declino? La risposta, deludente per chi si aspetta indicazioni certe,
è: dipende. Non tanto dai fattori di base che determinano la dinamica
intrinseca della popolazione – natalità e mortalità, riproduttività e
sopravvivenza – ma da quelli estrinseci, legati alle entrate e alle
uscite, cioè all’immigrazione e al l’emigrazione. Se consideriamo solo i
primi (c’è un discreto consenso sull’aumento ulteriore della longevità e
su una lieve ripresa della natalità) e immaginiamo un’Europa a porte
chiuse, la prospettiva è il declino. Da qui al 2050 la popolazione
diminuirebbe del 10% circa (da 738 a 665 milioni): apparentemente non un
declino catastrofico, ma preoccupante perché si articola in un -22% per
la popolazione in età attiva tra i 20 e i 70 anni e in un +62% per
quella oltre tale età (gli ultrasettantenni nel 2050 sarebbero molto più
numerosi dei giovani sotto i 20 anni), con ovvie implicazioni
economico-sociali. Se invece consideriamo le migrazioni e presupponiamo
il proseguire di flussi paragonabili a quelli dell’ultimo decennio, sia
pure a ritmi più moderati, il declino sarebbe più lieve: -4% in totale e
-16% per la popolazione attiva, accompagnato però dal fortissimo
aumento degli anziani (+64%). Questi numeri valgono per l’insieme
dell’Europa, ma con qualche disuguaglianza interna: al netto
dell’immigrazione, crescerebbero Francia, Regno Unito, Svezia, Norvegia e
Irlanda. Tutti gli altri paesi diminuirebbero, specie quelli più
popolosi: Russia, Germania, Italia, Spagna, Polonia. La velocità della
discesa, poco percettibile nei primi anni, accelererebbe nel corso del
periodo considerato. L’orizzonte demografico europeo dipende, dunque,
dai ritmi d’immigrazione: una variabile assai difficile da prevedere,
perché legata – tra l’altro – alle politiche adottate dai vari paesi. Un
esempio che ci riguarda da vicino è il seguente: le previsioni
pubblicate nel 2002 dalle Nazioni Unite (con ipotesi condivise dalla
comunità scientifica) consegnavano Italia e Spagna al declino
demografico, prevedendo una popolazione complessiva di meno di 97
milioni nel 2015. Tuttavia, l’anno scorso, la popolazione dei due paesi è
risultata – secondo i loro uffici statistici – di oltre 107 milioni: la
rivoluzione migratoria della prima parte del XXI secolo non era stata
prevista, di certo non nelle dimensioni in cui si è manifestata. 2.
Queste considerazioni sono utili anche a comprendere le posizioni
politiche in merito alla questione migratoria che angustia e divide
l’Europa. Una parte dei paesi europei – Francia, Regno Unito e paesi
nordici – in ragione della loro demografia equilibrata, o comunque
orientata a un moderato declino, non ritengono l’immigrazione essenziale
al loro sviluppo. Londra ritiene anzi che la crescita demografica
prevista sia eccessiva e che vada attuato un robusto contenimento
dell’immigrazione. In genere, in questi paesi l’immigrazione è ritenuta
utile solo se ricca di «capitale umano», cioè per dirla in buon
italiano, quando è istruita, tecnicamente e professionalmente preparata e
disposta a integrarsi con facilità. È vero che in molti di questi paesi
l’invecchiamento procede di buon passo, però si ritiene che possa
essere contrastato dalle politiche di «invecchiamento attivo»: il
miglioramento della salute degli anziani e la loro accresciuta cultura,
l’estensione della vita attiva, adeguate riforme del mercato del lavoro,
investimenti in tecnologia e lo smaterializzarsi dei processi
produttivi, i cui addetti necessitano di sempre minori sforzi fisici.
Questa posizione è condivisa anche da altri paesi BRUXELLES, IL FANTASMA
DELL’EUROPA 147 la cui demografia è assai più evanescente ed è molto
popolare tra gli economisti e altri studiosi, nonché presso molte
influenti istituzioni. Assai diverse sono le posizioni dei paesi nei
quali la demografia appare decisamente orientata a un avvitamento
negativo. Non c’è molto ottimismo circa una decisa inversione della loro
bassissima natalità, anche perché le politiche per la famiglia, le
nascite e l’infanzia sono molto onerose per i bilanci pubblici. I
processi d’invecchiamento sono molto rapidi, la necessità dell’apporto
migratorio evidente. La crisi e il conseguente aumento della
disoccupazione hanno attenuato la percezione delle implicazioni negative
di queste tendenze di fondo, che tuttavia presto ridiverranno
pressanti. Certo, le negative conseguenze economiche e sociali
dell’invecchiamento demografico possono essere attenuate nei modi sopra
descritti, ma non cancellate, data la rapidità del fenomeno. Due esempi a
contrasto: nell’«equilibrata Francia» l’età mediana della popolazione
passerebbe da 41 a 44 anni, ma nelle confinanti «squilibrate» Germania e
Italia, salirebbe da 46 a 53- 54 anni, quasi dieci anni in più. Nel
caso francese, l’invecchiamento ha un corso moderato e sicuramente
gestibile; in Germania e in Italia è dubbio che gli effetti negativi
possano essere contenuti. La maggior parte del continente europeo
(Francia, Regno Unito e paesi nordici ne rappresentano meno di un
quarto) è accomunata da fenomeni di ripiegamento demografico e rapido
invecchiamento. Il senso comune tende a rifiutare il catastrofismo e i
timori esagerati sul declino della civiltà occidentale che da cent’anni
(almeno dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato nel
1922) riemergono periodicamente con rinnovata intensità. Ma se la
posizione catastrofista è inaccettabile, non è nemmeno realista la
posizione di quanti, e sono molti, tendono a minimizzare le conseguenze
negative di una popolazione declinante. 3. Il peso economico e
demografico dell’Europa nel sistema globale è andato rapidamente
scemando nel corso del tempo e continuerà a ridursi: l’Europa conteneva
quasi un abitante su quattro del mondo all’inizio del secolo scorso,
oggi ne contiene uno su dieci e ne conterrà uno su quattordici nel 2050.
Cent’anni fa, secondo le elaborazioni di Angus Maddison, l’Europa
produceva poco meno della metà del pil mondiale, contro circa un quarto
di oggi. Poco male, si dice: l’Europa sia pure demograficamente ed
economicamente più piccola nel contesto mondiale. Ciò che vale, in fin
dei conti, è il benessere individuale, non la dimensione
demografico-economica di un paese. Non c’è ragione che una contrazione,
anche sostenuta, della popolazione possa tradursi in un impoverimento o
in un arresto della crescita. Ma questa posizione è difficilmente
sostenibile, per due ragioni. La prima, assai ovvia, è che a parità di
condizioni un paese più grande (per popolazione ed economia) è un paese
che conta di più nel contesto geopolitico, perché gestisce risorse
maggiori che nel bene o nel male possono influenzare i rapporti
internazionali. Per esempio può mettere a disposizione maggiori ri-
DEMOGRAFIA È DESTINO 148 sorse per la cooperazione, per gli interventi
umanitari, per gli aiuti allo sviluppo. Oppure, per rifornire di
materiale bellico uno Stato aggressivo o sobillare conflitti. Insomma,
le dimensioni di un paese contano, anche se non influenzano il benessere
individuale. La seconda argomentazione è complessa e dev’essere
articolata. Il contrarsi di una popolazione accelera e accentua il
processo di invecchiamento, che in questa fase storica, anche per
l’aumento continuo della longevità, riguarda tutta l’Europa. Gli
economisti spiegano che una compressione del benessere (o una sua stasi)
avviene se, in conseguenza dell’invecchiamento (cioè del progressivo
aumento relativo degli anziani rispetto agli adulti e ai giovani),
diminuisce la produttività della forza lavoro (cioè, del prodotto pro
capite dei lavoratori). Ne deriva che è cruciale conoscere quale sia
l’andamento della produttività nel ciclo di vita di ogni persona. Sono
moltissimi gli studi che si cimentano con questa questione e da molti
punti di vista. Una conclusione equilibrata è che le performance dei
lavoratori tendono a declinare dopo una certa età, soprattutto per
quelle attività che richiedono capacità di risolvere i problemi,
velocità di reazione, attitudine ad apprendere cose nuove. Queste
capacità si attenuano progressivamente con l’età: una tendenza che può
essere contrastata, ma non annullata, da una migliore organizzazione del
lavoro, dalla migliore salute e dalla maggiore efficienza fisica degli
anziani, dal loro crescente livello d’istruzione, dal progresso tecnico.
Sull’altro piatto della bilancia va posto il maggiore assenteismo degli
anziani, il minor vigore fisico, la crescente incidenza, con l’età, di
malattie invalidanti. È dunque indubbio che per gran parte delle
mansioni e delle funzioni l’invecchiamento individuale si accompagni a
una certa diminuzione dell’efficienza e che lo stesso avvenga in una
collettività di lavoratori, man mano che la loro composizione per età si
modifica a favore delle componenti più anziane. Può darsi che tutto
questo non sia un grande ostacolo allo sviluppo, ma non è certo un
elisir tonificante. C’è però un altro livello di funzioni nell’economia e
nella società per le quali l’invecchiamento ha sicuramente un’azione
frenante. L’invenzione, l’innovazione, l’assunzione del rischio,
l’imprenditorialità sono prerogative specifiche dei giovani che
decrescono rapidamente con l’età. Le grandi scoperte che hanno valso –
magari decenni dopo – l’assegnazione di un Nobel nelle materie
scientifiche sono state fatte da scienziati giovani, per lo più tra i 30
e i 40 anni. Idem dicasi per le tante opere d’ingegno che accendono o
sostengono lo sviluppo, o per le imprese di successo. Una società che
invecchia rapidamente trova compresse queste qualità; si trova, per così
dire, con un motore meno potente e meno brillante. 4. Tiriamo le somme:
i prossimi decenni ci consegneranno un’Europa più piccola, con qualche
handicap in più per la crescita legato all’invecchiamento. Niente di
catastrofico se si corre opportunamente a quei ripari che lo
strumentario delle politiche economiche e sociali può fornire. In prima
linea c’è sicura- mente l’intensificazione degli investimenti in
istruzione e formazione, insomma in capitale umano, particolarmente
scarso nel nostro paese; ma anche le politiche sociali che incentivano
la natalità e le politiche migratorie. La natalità è pericolosamente
bassa in buona parte dell’Europa. Espressa in termini di numero medio di
figli per donna, nel 2010-15 è stata pari a 1,6; 1,6 in Russia (che ha
messo in atto una costosissima e insostenibile politica di trasferimenti
alle coppie con figli); 1,4 in Germania, Italia e Polonia; 1,3 in
Spagna. Tra i grandi paesi, solo Francia (2,0) e Regno Unito (1,9)
esprimono livelli appena equilibrati. Nei limiti delle disponibilità dei
bilanci pubblici, occorre puntare su quelle politiche o su quei
movimenti sociali che favoriscano una maggiore partecipazione delle
donne nel mercato del lavoro; che attenuino o cancellino le asimmetrie
di genere nelle attività domestiche e nella cura dei figli; che
invertano il forte ritardo accumulato dai giovani nel diventare autonomi
e quindi capaci di fare scelte riproduttive. Fare figli implica una
certa sicurezza economica, che si consegue più facilmente quando la
famiglia ha due fonti di reddito (lavoro femminile); quando i costi
della cura dei figli non ricadono esclusivamente sulle spalle delle
donne (riduzione delle asimmetrie di genere); quando i giovani sono
autonomi e responsabili e non indotti a rinviare le scelte. I paesi
avviati da tempo in questo solco sono, in Europa, quelli con migliore
natalità: paesi nordici, Regno Unito e Francia, per l’appunto. Le
politiche di sostegno alla natalità, tuttavia, sono lente nel produrre i
loro frutti – quando li danno. Altro è il discorso per le migrazioni: i
bambini occorre desiderarli, metterli al mondo, farli crescere. I
potenziali migranti sono invece disponibili in un numero che è un
multiplo della potenziale domanda. Ma di fronte all’immigrazione, la
risposta europea è inadeguata, dissonante, perfino impossibile, visto
che il Trattato di Lisbona mantiene in capo agli Stati il diritto di
ammettere sul proprio territorio i migranti che vuole, quando li vuole e
quanti ne vuole3 . Le ragioni del marasma europeo, aggravato dalla
crisi mediorientale e dalla inetta gestione dei flussi di profughi, sono
ideologiche, politiche, ma anche economiche. Ideologiche – al netto
degli aspetti più deteriori di pura xenofobia o convinto razzismo –
perché collegate a una sorta di nativismo che nella forma più blanda e
ragionevole vede nell’immigrazione un pericolo per la coesione sociale e
culturale. Si argomenta che la coesione è un bene primario da
proteggere, un capitale prezioso, e pertanto si giustificano le
politiche di chiusura o di forte limitazione all’immigrazione. Maggiore è
la distanza culturale tra immigrati e autoctoni, maggiore è la minaccia
alla coesione. Questa posizione non considera il fatto che nel caso di
molti paesi europei il declino demografico può provocare impoverimento e
nuove fratture sociali, mettendo a rischio quella coesione che si vuole
difendere. Né ritiene che la coesione, quando spinta troppo avanti,
rischi di sclerotizzare la società o di diventare chiusura Sotto il
profilo politico, l’inettitudine europea è purtroppo evidente ed è per
così dire istituzionale: la Ue ha costruito un fiscal compact, ma nega
ostinatamente la necessità di un migration compact. Sotto il profilo
puramente economico, infine, l’idea che le conseguenze del declino
demografico e del forte invecchiamento possano essere contrastate e
minimizzate senza, o con ridotto, apporto migratorio è forte, autorevole
e diffusa, e contrasta con l’evidente necessità di intense migrazioni
nella maggior parte del continente. Queste, nel recente passato, sono
andate crescendo: l’intera Europa ha fruito di un saldo netto
immigrati/emigrati pari a 4 milioni negli anni Ottanta, 9 milioni negli
anni Novanta e 18 milioni nel primo decennio di questo secolo. Non
sarebbe sorprendente se, passata la crisi, il fenomeno si rafforzasse
ancora.
«Un piano Marshall per l’Africa L’Italia e la Grecia lasciate sole»
L’ex segretario generale dell’Onu: chi pensa di fermare i migranti con i muri sta sognando
di Sara Gandolfi Corriere 1.5.16
«Speravo
che questa crisi migratoria avrebbe unito l’Europa invece di dividerla.
Non è giusto aspettarsi che l’Italia e la Grecia sopportino da sole il
peso di questi flussi solo perché sono il primo punto di ingresso dei
migranti». L’ex segretario dell’Onu Kofi Annan, 78 anni molto ben
portati, non ha dubbi sulla strada che il Vecchio Continente avrebbe
dovuto intraprendere, da tempo, per dare una risposta a chi bussa alla
nostra porta. «Se ci fosse stata una politica europea comune, se tutti
avessero collaborato, non sarebbe stato difficile per una comunità di
500 milioni di persone assorbire un milione di migranti. E’ solo un
problema di volontà politica e di comprensione».
Invitato in
Italia da Mario Moretti Polegato — «perché l’impresa deve rimanere in
prima linea per sostenere lo sviluppo nelle aree più colpite dalle
guerre e dalle povertà», spiega il patron di Geox — Annan ha colto
l’occasione per offrire un assist alla posizione di Roma.
Lei sostiene che i politici avrebbero dovuto spiegare prima la situazione all’opinione pubblica. Come?
«Non
è facile abbandonare la propria casa, lasciare tutto alle spalle e
partire. La maggior parte dei migranti, in particolari i rifugiati,
fuggono per salvarsi. Gli europei l’hanno vissuto sulla propria pelle,
durante la Seconda guerra mondiale molte porte si aprirono per loro. Ora
tocca agli altri e l’Europa avrebbe dovuto organizzarsi per riceverli.
Ma i visto che i partiti di centro hanno taciuto, perché temevano di
perdere voti, quelli estremisti hanno cominciato a cavalcare la rabbia
della gente».
Rabbia giustificata?
«La gente è arrabbiata e
ha ragione di esserlo. Vede le ineguaglianze, fatica ad arrivare a fine
mese anche nei Paesi industrializzati. E’ facile per un politico
costruire il proprio successo sulla rabbia e molti lo stanno facendo, in
America e non solo. Ma il mondo ha bisogno di politici che costruiscano
soluzioni. La rabbia può dare soddisfazione emotiva ma non offre
soluzioni».
Pensa a Trump?
Kofi Annan sorride amaro.
Cosa ne pensa del «migration compact» proposto dal presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi?
«Non
ho i dettagli ma so per certo che le migrazioni non possono essere
fermate. Dobbiamo trovare un modo per gestirle, che sia utile per il
Paese di origine, di transito e di destinazione finale. E anche
nell’interesse del migrante. Chi pensa di fermare il flusso chiudendo la
porta sta sognando. Noi uomini e donne ci siamo spostati per millenni e
continueremo a farlo, anzi probabilmente sarà anche peggio negli anni a
venire a causa dei cambiamenti climatici. E la comunità internazionale
non è pronta».
Anche lei in passato ha proposto di creare punti di selezione nei Paesi di origine o di transito dei migranti. Funzionerebbe?
«Lavoravo
all’Alto commissariato per i profughi quando è esplosa la crisi dei
boat people, lo screening veniva fatto in Thailandia, in Cambogia… E non
si è verificato il fenomeno che stiamo osservando qui ora. I Paesi
europei stanno iniziando a capire che un controllo congiunto è la strada
giusta, ma non credo abbiano compreso l’importanza della condivisione
degli oneri. Lasciano i Paesi di prima linea, come l’Italia e la Grecia,
da soli».
Gran parte delle persone che arrivano in Italia
dall’Africa sono considerati migranti economici e non rifugiati. Come
dovremmo trattarli?
«Le leggi sono molto chiare. Se hanno diritto
d’asilo entrano, altrimenti vanno mandati indietro. Ma molti africani
fuggono da aree di conflitto, come i nigeriani che scappano dalla follia
di Boko Haram o gli eritrei o i rifugiati del Sahel. Per questo se
riuscissimo a fare i controlli vicino ai luoghi d’origine non avremmo
problemi».
E’ possibile creare centri simili in Libia?
«Sarà difficile, è necessario avere un governo stabile con cui cooperare».
Potrebbe essere utile un Piano Marshall per l’Africa?
«Sì,
un Piano Marshall o comunque un nuovo approccio che aiuti questi Paesi a
svilupparsi economicamente il più velocemente possibile, come avvenne
per l’Europa dopo il 1945. L’Africa è ricca di giovani dinamici che non
hanno lavoro. Se la comunità internazionale cooperasse con i governi
africani per creare le condizioni per fare business, osserveremmo una
drastica riduzione del fenomeno migratorio. Oggi, con la televisione e
Internet, questi giovani vedono come si vive qui, dall’altra parte del
Mediterraneo. L’Europa diventa il loro sogno».
Lei prima citava Boko Haram. E’ possibile dialogare con gruppi estremisti come loro o con Isis o al Shabaab?
«Dobbiamo
trovare la maniera per affrontare questi gruppi. La forza e l’esercito
da soli non bastano. Bisogna trovare il modo per minare l’ideologia e la
capacità di fascinazione di questi movimenti, soprattutto fra i
giovani. Bisogna creare le condizioni, e la mia Fondazione sta lavorando
anche su questo fronte, per far sì che i giovani non vengano tentati
dall’estremismo. Ma una cosa è certa: saranno sconfitti. Il terrorismo
non ha mai vinto. Non è questione di se, ma solo di quando».
Nuove regole per l’accoglienza Chi rifiuta i profughi dovrà pagare
A
ogni Stato sarà assegnata una quota massima, i restanti verranno
distribuiti tra gli altri Voci di un piano con centri in Libia, ma l’Ue
smentisce. Brennero, pressing tedesco sull’Italia
di Alessandro Alviani e Marco Zatterin La Stampa 30.4.16
Come
previsto, avanza l’«opzione uno». Rafforzata. Mercoledì la Commissione
Ue proporrà agli Stati membri una «riformina» del Regolamento di
Dublino, con una formula che mantiene la responsabilità dell’accoglienza
per lo Stato di primo approdo e la bilancia con un meccanismo di
ridistribuzione fra tutti per i casi di flussi «ampi e sproporzionati».
In pratica, se il piano sarà adottato dai Ventotto, l’Italia resterà
titolare dell’onere di registrazione e identificazione di chi arriva,
sino al momento in cui i flussi superano il 150% della quantità ritenuta
compatibile con il Paese. In tal caso, scatterà la condivisione
dell’onere con i partner comunitari che, comunque, potranno chiamarsi
fuori staccando un ricco assegno per ogni profugo rifiutato.
Il confine con l’Austria
Resta
alta la tensione alla voce «migranti». Germania e Austria continuano il
pressing congiunto sull’Italia, che a loro avviso deve garantire la
frontiere mediterranea dell’Unione: in ballo c’è «il muro-non muro» del
Brennero, che Vienna nega di voler usare ma intanto è lì a demarcare il
valico che porta a Innsbruck. Proprio alla gestione del fronte Sud si
lega la notizia apparsa su Spiegel online a proposito di un documento
del Servizio per l’azione esterna Ue che tratteggia lo schema di un
accordo con il governo di Tripoli. Tra le misure, oltre alla creazione
di «centri temporanei di raccolta per profughi e migranti» in terra
libica, si menziona l’ipotesi di «aree di carcerazione». Fonti Ue dicono
che si tratta di un testo tecnico senza investitura politica.
Il prezzo dell’astensione
Ha
invece la sostanziale approvazione dei commissari europei la proposta
su Dublino, sebbene manchi ancora una riunione in programma lunedì.
L’Italia si è battuta a lungo per riequilibrare le regole che, come la
Grecia, la vedono in prima linea da anni. Il 5 aprile il Team Juncker ha
intavolato due opzioni. La prima è quella che dovrebbe passare, la
«Dublino+». La seconda disegnava un sistema per riallocare integralmente
gli asilanti sulla base di una chiave di distribuzione europea con
quote prestabilite: è caduta per mancato consenso. Così, a quanto
risulta a La Stampa, si profilano quote di migrazione responsabile
costruite su pil, abitanti e altri fattori. Su tale base si stabilirà
l’emergenza in caso di variazione del 150% e partirà la redistribuzione
fra tutti con quote percentuali prefissate. L’astensione può essere
acquistata per 12 mesi. La cifra che gira è alta, 250 mila euro a
profugo. Ma potrebbe cambiare.
«Quello che succede al Brennero
dipende prima di tutto dall’Italia», ha spiegato intanto a Potsdam il
ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière al termine di un
colloquio col suo nuovo collega austriaco, Wolfgang Sobotka, dal quale è
emersa una forte sintonia tra Berlino e Vienna sulla questione dei
migranti. Roma «sa che deve contribuire a fare in modo che le frontiere
di Schengen restino aperte», ha notato de Maizière. «È compito
dell’Italia» impedire arrivi in massa, Roma deve rispettare i suoi
impegni, gli ha fatto eco Sobotka, che ha parlato di «200.000 fino a un
milione di persone» in attesa di mettersi in viaggio verso l’Europa
dalla Libia. Al Brennero, ha aggiunto il ministro austriaco, verranno
realizzati dispositivi per una recinzione, ma quest’ultima non verrà per
il momento montata: si tratta di far capire che, in caso di necessità,
l’Austria è in grado di impedire l’attraversamento illegale delle
frontiere.
Secondo de Maizière, facendo un confronto con la
situazione della Grecia, l’Italia potrebbe aver bisogno di aiuto se
dovesse trovarsi a fronteggiare l’arrivo di «circa 200-300-350 mila»
migranti, ma «siamo ben lontani da ciò».
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