venerdì 3 giugno 2016
"Il nostro problema più grave non è Israele, ma Hamas": negre bianche e dissidentesse di professione anche per i palestinesi
Emanuela Zuccalà Avvenire 3 giugno 2016
Israele boccia il summit di Hollande
Medio
Oriente. Per il governo Netanyahu il vertice internazionale che si è
svolto ieri a Parigi «allontana la pace» e «radicalizza i palestinesi».
Il presidente francese va avanti e punta ad organizzare una conferenza a
fine anno per rilanciare il negoziato. Ieri è tornata in libertà la
parlamentare palestinese e dirigente del Fronte popolare (Fplp) Khalida
Jarrar detenuta in Israele per 14 mesi
di Michele Giorgio il manifesto 4.6.16
GERUSALEMME
La Conferenza di Parigi «allontana la pace». È stata immediata e
pesante la reazione del governo Netanyahu alla conclusione ieri del
summit internazionale con i rappresentanti di una trentina di Paesi – ma
senza israeliani e palestinesi -, organizzato dalla Francia per
rilanciare la soluzione dei “Due Stati” e che dovrebbe portare, nei
desideri dei francesi, a una conferenza internazionale entro la fine
dell’anno. «Si tratta di una occasione perduta. – ha protestato con
forza il ministero degli esteri israeliano – Invece che insistere con il
presidente palestinese Abu Mazen affinchè riprenda le trattative
dirette senza precondizioni la comunità internazionale gli ha permesso
di continuare a sfuggire. Nella storia questa conferenza sarà ricordata
per aver contribuito ad irrigidire le posizioni palestinesi». Per il
premier israeliano Netanyahu c’è un’unica strada, quella degli ultimi
venti anni: il negoziato bilaterale, ossia la trattativa dove Israele
può imporre le sue condizioni al debole presidente Abu Mazen e ottenere
un accordo svantaggioso per i palestinesi. Qualche ora prima
dell’apertura del vertice parigino, il giornale filo-governativo Israel
ha-Yom, aveva espresso apprezzamento per l’azione svolta dietro le
quinte dall’Egitto, finalizzata a portare i laburisti nel governo
Netanyahu, a conferma che l’esecutivo israeliano guarda con più fiducia
alle iniziative degli alleati arabi che a quelle europee. A inizio
settimana Netanyahu si era detto interessato a discutere il Piano Arabo
di pace del 2002, elaborato dall’Arabia saudita con cui Tel Aviv ha
segretamente stretto i rapporti negli ultimi 2-3 anni.
A Parigi
non è stato deciso nulla che possa portare a uno spostamento effettivo
del negoziato dal binario bilaterale a quello multilaterale, come teme
Israele. Il presidente Hollande, aprendo il summit, ha detto che lo
status attuale in Medio oriente, in Israele e Territori occupati,
favorisce «gli estremisti di ogni parte». Quindi ha esortato israeliani e
palestinesi a «fare la scelta coraggiosa della pace» altrimenti «questo
vuoto verrà riempito da estremisti e terroristi». Il primo obiettivo
della conferenza, ha aggiunto Hollande, «è confermare collettivamente
che la pace passerà da due Stati, Israele e uno Stato palestinese, che
vivono fianco a fianco nella sicurezza». Parigi non nasconde la speranza
che la conferenza di fine anno, alla quale vuole anche israeliani e
palestinesi, stabilisca i “parametri” che dovranno guidare la futura
trattativa tra le due parti. Su tutto pesa non solo il rifiuto di
Israele ma anche l’atteggiamento degli Stati Uniti. A Parigi c’era il
Segretario di stato John Kerry ma Washington è tiepida verso
l’iniziativa di Hollande e a fine anno potrebbe addirittura schierarsi
contro la conferenza internazionale quando le chiavi della Casa Bianca
verranno consegnate al repubblicano Donald Trump o alla democratica
Hillary Clinton, entrambi, con motivazioni diverse, lontani dalla linea
dell’Amministrazione Obama su questi temi.
Nelle strade di Israele
e dei Territori occupati il summit di Parigi non ha suscitato reazioni,
è stato ignorato dalla gente. A Ramallah migliaia di persone hanno
festeggiato il ritorno a casa della parlamentare e dirigente del Fronte
Popolare (Fplp, sinistra marxista) Khalida Jarrar dopo 14 mesi di
detenzione in Israele. Jarrar, 53 anni, era stata arrestata ad aprile
dello scorso anno e condannata a 15 mesi di carcere perché parte di una
«organizzazione terroristica» e per «aver incitato al rapimento di
soldati israeliani». Accuse gravi secondo la legge israeliana che
tuttavia avevano prodotto una condanna relativamente lieve, a conferma,
sottolineano i palestinesi, che contro Jarrar non esistevano prove e che
contro di lei si è svolto un processo politico. La condanna secondo
l’opinione di molti nei Territori sarebbe stata una ritorsione alla
decisione di Khalida Jarrar di non restare confinata per sei mesi a
Gerico su ordine dell’Esercito. Sei deputati palestinesi sono ancora
detenuti in Israele, assieme a circa settemila prigionieri politici.
Si apre la Conferenza di Parigi su Israele e Palestina, Netanyahu è contro
Medio
Oriente. I rappresentanti di una trentina di Paesi occidentali e arabi
si riuniscono oggi nella capitale francese per fissare i parametri di
futuri negoziati tra israeliani e palestinesi. Netanyahu considera
l'incontro una minaccia. Proteste in casa palestinese. Il Fplp accusa
Abu Mazen di fare tutto da solo senza consultare l'Olp
di Michele Giorgio il manifesto 3.6.16
GERUSALEMME
In una Parigi piegata dal maltempo, con la Senna pericolosamente in
piena e un Francois Hollande al minimo dei consensi per il Jobs Act che
ha fatto infuriare i lavoratori, i rappresentanti di circa 30 Paesi
occidentali e arabi (Italia e Usa compresi) si riuniscono oggi per un
incontro internazionale sulla questione israelo-palestinese. Mancheranno
proprio loro, israeliani e palestinesi. L’idea della Francia è che
questo summit diventi il primo passo per arrivare il prossimo autunno a
una Conferenza internazionale, questa volta anche con israeliani e
palestinesi, che apra la strada alla soluzione dei Due Stati. Hollande e
il suo governo si aspettano che dal vertice escano i “parametri” su
confini, sicurezza, profughi palestinesi, lo status di Gerusalemme, le
colonie ebraiche costruite nei Territori palestinesi occupati e lo
sfruttamento delle risorse naturali. Parametri che dovrebbero segnare il
percorso di ogni futura trattativa diretta tra israeliani e
palestinesi, insieme ad un timing preciso per un accordo.
Non
sorprende che Benyamin Netanyahu si sia scagliato contro il summit. Il
premier respinge a muso duro la possibilità che la questione
israelo-palestinese sia affrontata anche nel quadro di incontri
internazionali e non più soltanto con l’inutile negoziato bilaterale,
mediato dagli alleati americani, che in 20 anni ha solo prodotto
fallimenti. «Se i Paesi riuniti a Parigi – ha protestato Netanyahu –
vogliono far avanzare la pace, dovrebbero unirsi al mio appello al
presidente palestinese Abu Mazen per arrivare a trattative dirette.
Questa è l’unica strada per la pace, non ci sono alternative». Una
posizione non condivisa dall’Autorità nazionale palestinese schierata a
favore dell’iniziativa francese che, pensa il presidente Abu Mazen,
rappresenta, forse, l’ultima possibilità per arrivare ad un accordo. Una
posizione che non tutti i palestinesi condividono. Il Fronte Popolare
(Fplp), la più importante delle formazioni della sinistra, chiede
manifestazioni di protesta ovunque, anche all’estero. Il Fplp spiega che
queste iniziative non mirano a realizzare i diritti palestinesi bensì a
negarli, a cominciare da quello al “ritorno” nella loro terra dei
profughi. Il Fronte popolare inoltre denuncia il “monopolio” dell’Anp
che non ha presentato la proposta di partecipazione al vertice in
Francia davanti all’Olp, per essere discussa da tutte le forze politiche
palestinesi. Oggi è prevista la liberazione di una deputata e leader
del Fplp, Khalida Jarrar, detenuta per oltre un anno da Israele.
Da
settimane Tel Aviv tenta di ostacolare l’iniziativa francese. Netanyahu
ha persino ripescato il Piano arabo di pace del 2002 che Israele non ha
preso in considerazione per 14 anni, pur di sparigliare le carte. A
nulla sono serviti gli sforzi di Parigi per convincerlo ad appoggiare
l’incontro. Il ministro degli esteri Jean-Marc Ayrault, il premier
Manuel Valls e l’inviato speciale di Hollande Pierre Vimont sono giunti
in diverse occasioni a Gerusalemme, dove però si sono trovati davanti a
un muro. La presenza oggi nella capitale francese del Segretario di
stato Usa John Kerry, letta inizialmente da alcuni osservatori come uno
schiaffo dell’Amministrazione Obama a Netanyahu, in realtà avrebbe il
fine di evitare che l’incontro vada “troppo avanti” nella formulazione
dei “parametri” di un eventuale negoziato. Indiscrezioni circolate nelle
ultime ore dicono che Usa e Israele hanno avuto consultazioni su come
affrontare insieme questa (piccola) sfida lanciata da Hollande per
rilanciare la trattativa israelo-palestinese.
Gaza, il cemento-fantasma e la ricostruzione che non c’èGaza.
Come funziona la ricostruzione? L'Onu si è inventato un sistema
complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele
blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19miladi Chiara Cruciati il manifesto 3.6.16
GAZA
Una donna guida tre capre dentro il perimetro dell’asilo. Prende un
pallet di legno, lo appoggia all’ingresso di una delle aule e la
trasforma in un piccolo recinto. Approfitta dello stop ai lavori per la
ricostruzione della scuola distrutta durante Margine Protettivo dalle
bombe israeliane: da settimane l’ingresso di cemento dentro la Striscia
di Gaza è bloccato dalle autorità israeliane, convinte che non arrivi ai
legittimi destinatari ma finisca nelle mani di Hamas per la
ricostruzione dei tunnel sotterranei. Come tanti altri progetti anche
questo, l’asilo di Umm al-Nasser, comunità a nord di Gaza, è fermo.
Sono
trascorsi quasi due anni dalla fine dell’operazione militare che
nell’estate del 2014 devastò come mai prima la Striscia di Gaza. In
mezzo la promessa mai mantenuta della comunità internazionale di donare
5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione e un sistema di
distribuzione dei materiali edili che differenzia tra progetti
infrastrutturali di Qatar e Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati
palestinesi), progetti delle organizzazioni non governative e
ricostruzione di abitazioni da parte di privati. Ideato dalle Nazioni
Unite e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, è stato
immaginato come un fiume da cui partono tre torrenti diversi. Ma il
fiume è quasi a secco.
I progetti di ricostruzione delle ong
internazionali per rimettere in piedi scuole, cliniche, pozzi, reti
idriche sono alimentati dal primo torrente e dal cosiddetto Grm (Gaza
reconstruction mechanism): «Il Grm è l’ente che gestisce l’ingresso di
materiali di ricostruzione a Gaza – spiega al manifesto Mitia Aranda,
architetto dell’ong italiana Vento di Terra, impegnata nella
ricostruzione dell’asilo di Umm al-Nasser – È formato da tre soggetti:
il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il
governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale
introdotto».
«La procedura da seguire è la stessa per tutte le
organizzazioni: si presenta il progetto e si seleziona una compagnia
locale riconosciuta come legittima dallo Stato di Israele. Progetto
strutturale e architettonico e contratto con la ditta locale vengono
portati al Ministero di Gaza, con l’indicazione delle quantità e la
natura di materiale necessario ai lavori. A quel punto il progetto
viene iscritto nel Grm. La ditta locale chiede lo sblocco delle quantità
di materiali edili che saranno consegnati al distributore, anche questo
locale e anche questo approvato da Israele. Il cemento viene quindi
portato in cantiere e l’Unops ne monitora l’utilizzo».
Oggi di operai
nel cantiere di Umm al-Nasser non ce ne sono. Il cemento non entra da
settimane: la data prevista per l’inaugurazione dell’asilo (entro inizio
luglio, la fine del mese sacro di Ramadan) potrebbe restare un
miraggio.
Poco più a sud, nel campo profughi di Beach camp, gli
operai si muovono veloci nel cantiere della scuola dell’Unrwa: a piano
terra spostano i sacchi di cemento, al primo piano fissano le reti di
metallo a protezione delle finestre. Il 72% dell’edificio è stato
completato, si prevede di finire i lavori ad agosto, prima dell’inizio
dell’anno scolastico. L’ingegnere Abdul-Karim Barakat ci fa visitare la
scuola, un edificio di 42 classi a forma di U: «Oggi [19 aprile] abbiamo
ricevuto una comunicazione dall’Access Coordination Unit dell’Onu che
ci ha assicurato l’ingresso del cemento. Per il resto della Striscia
l’accesso è stato bloccato, ma non per i progetti infastrutturali di
Nazioni Unite e Qatar, che proseguono».
La ricostruzione è in stand
by solo per le abitazioni civili e i progetti delle ong, qui si continua
a lavorare perché Onu e Qatar hanno accordi bilaterali direttamente con
Israele: il secondo torrente. Ma non mancano gli ostacoli: «Siamo
comunque in ritardo di due mesi – ci spiega Barakat – a causa del lento
afflusso dei materiali che Israele considera a doppio uso, metalli,
legno, acciaio. Ovvero materiali che Tel Aviv reputa utilizzabili anche
per la costruzione dei tunnel sotterranei. Per questo dobbiamo chiedere
un permesso speciale, che richiede tempo. Le reti per le finestre, ad
esempio, non arrivano da mesi». Per il resto il sistema è apparentemente
lo stesso del Grm: si presenta il progetto, si indice la gara d’appalto
e si indicano i materiali necessari. La compagnia locale assunta
dall’Unwra, obbligatoriamente registrata alla Palestinian Union
Contractors, gestisce poi i subappalti per le diverse attività di
costruzione, dalla falegnameria all’idraulica.
A monte sta la linea
diretta che dal 2010 collega le autorità israeliane all’Unrwa e che
permette l’accesso di materiali edili senza grossi intoppi per i
progetti infrastrutturali: «Il cemento non entra per la ricostruzione
delle abitazioni civili – ci spiega il vice direttore dell’ufficio Unrwa
della Striscia, David de Bold – perché Tel Aviv ritiene ci sia una
‘perdita’ nel sistema di distribuzione. Questo rallenta la ricostruzione
delle case distrutte e danneggiate, seriamente provata anche dalla
mancanza di fondi: secondo la Banca mondiale del denaro promesso dalla
comunità internazionale è arrivato solo il 20%. L’Unrwa aveva chiesto
700 milioni, ne abbiamo ricevuti 270. Con quel denaro possiamo
ricostruire 2mila case su un totale di 7mila di proprietà di rifugiati.
Ciò significa che dobbiamo investire fondi per sostenere le famiglie
sfollate: distribuiamo denaro alle famiglie rifugiate per pagare
l’affitto, per un totale di due milioni ogni mese. Denaro che potrebbe
essere usato per ridare loro una casa».
Case fantasma e decine di
migliaia di gazawi ancora schiacciati dal peso dello sfollamento: ad
oggi le unità residenziali ricostruite sono meno di 2mila su un totale
di 12.576 abitazioni totalmente distrutte e 6.455 gravemente
danneggiate, quindi inabitabili. Fuori, oltre il muro che assedia Gaza,
c’è Israele che, dopo aver distrutto, oggi gestisce tempi e modi della
ricostruzione. Mettendo in piedi un ingente giro d’affari: «Il 70% del
costo di un edificio va per i materiali da costruzione – ci spiega J.
A., cooperante che segue da vicino il sistema della ricostruzione – Dopo
il golpe in Egitto il 2013, tutto il materiale entra da Israele. Fate
da soli il calcolo, quanto incassa Israele con il business della
guerra».
Sullo sfondo restano i privati, le famiglie di Gaza,
individuate dal Grm come beneficiarie ma che di cemento ne vedono ben
poco: è il terzo torrente, ma di acqua non ce n’è. «Mentre l’Unrwa ha
condotto un censimento sulle case dei rifugiati demolite, il Ministero
dei Lavori Pubblici di Gaza si è occupato delle abitazioni dei non
rifugiati. 9mila i primi, 3mila i secondi: un totale di 12mila case.
Cosa deve fare una famiglia per avere il cemento? Si registra al
Ministero e viene inserita in una delle liste dei donatori, quella
dell’Unrwa, quella del Qatar e quella del Kuwait, i due paesi che hanno
messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione dei privati. Entra
quindi nel sistema del Grm, con la quantità di materiale accordata. Alla
famiglia viene comunicato l’arrivo dei materiali e il distributore dove
ritirarli. A monitorare il tutto è l’Unops che, con telecamere in ogni
compagnia di distribuzione, controlla le consegne ai beneficiari».
Fuori
dal sistema restano quelle famiglie che vorrebbero ampliare la propria
casa o costruirne una nuova, vista la naturale crescita della
popolazione. Hanno bisogno di cemento ma non rientrano nel sistema Grm:
«È qui che entra in gioco il mercato nero: alcuni distributori bypassano
i controlli e rivendono i materiali destinati ai beneficiari a chi
beneficario non è, a prezzi molto più alti del previsto – continua J. A.
– Se il Grm ha stabilito un prezzo di 520 shekel [120 euro circa] a
sacco di cemento, ovvero 50 kg, sul mercato nero viene rivenduto a
1.500-2000 shekel [350-470 euro]».
La mancanza di cemento crea un
gap, un vuoto dove le famiglie beneficarie restano invischiate: in molti
chiedono prestiti per iniziare a ricostruire, aspettando di ricevere la
donazione. Ma la donazione non arriva e ci si ritrova indebitati con
banche e privati e con una casa ricostruita a metà. Chi può prova a fare
economia del cemento che riceve: «Se il Grm ti riconosce 100 tonnellate
di cemento, la quantità media per un’abitazione di 100 m², la famiglia
ne usa di meno, risparmia un 5-6% del totale per rivenderlo poi sul
mercato nero».
A Gaza il sentimento che prevale è la rassegnazione.
Solo così, ci dicono, possono spiegarsi i 30 casi di tentato suicidio e i
5 di suicidio da gennaio, numeri impressionanti che raccontano la
frustrazione di chi è stato spogliato della propria dignità. Sharif
Hamad vive a Beit Hanoun, ha perso la sua casa (un palazzo di 8
appartamenti, dove vivevano 8 famiglie) e oggi vive in affitto. Da un
anno è stato inserito nella lista del Kuwait insieme ad altre 1.150
famiglie ma ad oggi non ha ricevuto nemmeno un sacco di cemento:
«Israele ha raggiunto il suo obiettivo – ci dice – Dall’ultima
operazione voleva ricavare una tregua di 15-20 anni e l’avrà. Ci ha
lasciato nel limbo della ricostruzione, o meglio della non
ricostruzione, impegnati a garantirci un tetto sulla testa invece che a
pensare ai nostri diritti di popolo sotto assedio. Lavorano sulle
frizioni interne alla società, tra chi riesce a costruire e chi no, tra
chi sfrutta il mercato nero per arricchirsi e chi è ancora sfollato. E
Israele fa affari: qui a Gaza un sacco di cemento è venduto a 520
shekel, in Cisgiordania costa 380. Dove va la differenza? In tasca a Tel
Aviv».
Solo il 3% dell’acqua di Gaza è idonea al consumo umanoTerritori
Palestinesi Occupati. Non rispetta i parametri internazionali anche
l'acqua filtrata distribuita da società private e che beve gran parte
della popolazione. L'allarme dell'Autorità Palestinese dell'Acqua:
servono subito impianti di dissalazione ma i progetti procedono
lentamente anche per l'embargo israelo-egiziano di Gazadi Michele Giorgio il manifesto 3.6.16
GAZA
«Vieni avanti…parcheggia a destra. Il serbatoio dell’acqua è da quel
lato». Tareq Yazji indica dove fermarsi all’autista dell’autobotte.
L’uomo ferma l’automezzo e con gesti rapidi allunga un tubo e lo
aggancia alla cisterna dell’abitazione. Più indietro i figli di Tareq si
preparano a riempire tre grosse taniche. «Va avanti così da anni – ci
spiega l’uomo – non abbiamo l’acqua potabile e dobbiano rifornirci con
le autobotti. I bombardamenti (israeliani del 2014) hanno aggravato la
situazione. In questa zona, tra Nusseirat e Khan Yunis, le autorità non
sono ancora riuscite a riparare completamente la rete idrica. In ogni
caso – aggiunge – quella che esce dai rubinetti serve solo per lavare,
non si può bere». Tareq, sua moglie e i figli, come gran parte dei
palestinesi di Gaza, bevono acqua filtrata. Circa l’85% degli abitanti
della Striscia fa riferimento ai 150 impianti privati che filtrano
l’acqua troppo salata di Gaza e la rendono potabile, o meglio “quasi”
potabile. Studi recenti effettuati da Ong che operano a Gaza hanno messo
in luce che il 46% dell’acqua filtrata è impura a causa di
microrganismi presenti nelle autobotti
e un altro 20% a causa dei serbatoi vecchi e malandati usati dalle famiglie. Ciò che resta presenta altre impurità.
Tirando
le somme, gli studi dicono che i palestinesi di Gaza hanno solo il 3%
di acqua idonea al consumo umano. Bevono quella filtrata ma impura
perchè non possono farne a meno. Poche centinaia di famiglie hanno la
disponibilità economica di comprare ogni giorno l’acqua minerale per
dissetarsi. Altre possono farlo occasionalmente , le rimanenti bevono
l’acqua distribuita dalle autobotti. Il mese scorso Mazin Gunaim, capo
dell’Autorità Palestinese per l’Acqua (Pwa, Palestinian Water
Authority), ha rivelato che già alla fine di quest’anno la falda
acquifera di Gaza non sarà più sfruttabile a causa della concentrazione
di sale, dovuta in gran parte allo sfruttamento che per anni è andato
oltre le possibilità, per le infiltrazioni di acqua di mare e per
l’inquinamento. Un suo collega, Ahmad al Yacouby, ci avverte che la
situazione è gravissima. «L’acqua a Gaza è un problema enorme e con
molte facce», ci dice accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city «c’è la
questione dell’acqua da bere largamente insufficiente per 2 milioni di
persone, poi quella dell’acqua filtrata non del tutto sicura, quella dei
pozzi inquinati e naturalmente c’è la questione delle acque reflue non
trattate legata alla poca energia elettrica disponibile e al
funzionamento intermittente dei depuratori. 90 milioni di litri di acque
non trattate o parzialmente trattate si riversano ogni giorno nel mare
di Gaza. Senza dimenticare che 120.000 abitanti sono ancora scollegati
dalla rete idrica pubblica e il 23 per cento della Striscia non è
collegato alla rete fognaria».
L’anno scorso le Nazioni Unite avevano
avvertito che Gaza potrebbe essere inabitabile entro il 2020. Questa
condizione in realtà è già visibile in un territorio teatro di tre
grandi offensive militari israeliane e di altre “minori” dal 2006 al
2014, con decine di migliaia di sfollati, “bloccato” da Israele ed
Egitto, con livelli di disoccupazione tra i più elevati al mondo, senza
risorse e con una popolazione che presto supererà i 2 milioni. «Il
problema più immediato è l’acqua» ricorda Ahmad al Yacouby «al quale
occorre dare una risposta rapida: servono almeno 200 milioni di metri
cubi all’anno. Se teniamo conto che i 55 milioni di metri cubi di acqua
della falda acquifera di fatto sono inutilizzabili, che l’acqua piovana
non riusciamo per vari motivi a raccoglierla e che molti pozzi sono
inquinati, è evidente che l’unica strada percorribile è quella della
costruzione di più impianti di dissalazione e di dover trattare e
purificare le acque reflue per utilizzarle in agricoltura o in altri
settori».
Non è facile però raccogliere donazioni e finanziamenti per
centinaia di milioni di dollari in un quadro politico complesso che
vede la maggior parte dei Paesi occidentali boicottare il governo di
Hamas che amministra Gaza. Inoltre il blocco israeliano all’ingresso di
materiali che, sostiene Tel Aviv, potrebbero essere utilizzati dal
movimento islamico a scopo militare, rende ardua la realizzazione di
progetti minori ma ugualmente importanti per la popolazione civile.
Secondo EWASH, una coalizione di ong e associazioni non governative, 30
progetti per l’acqua a Gaza sono a rischio per la carenza di
attrezzature. Tareq Yazji non si fa illusioni. «L’acqua sarà sempre poca
a Gaza – perché il governo (di Hamas), quello di Ramallah e gli
occidentali promettono e non mantengono. Io so soltanto che oggi ho i
soldi per comprare almeno l’acqua filtrata e che la mia famiglia può
bere, quando non li avrò la mia famiglia morirà di sete».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento