venerdì 3 giugno 2016
Un altro dissidente di professione: il golpe contro Ceausescu diventa Bildungsroman di iniziazione alla mente neoliberale
Memoria, spiritualità e la rivolta contro Ceausescu nell’opera monumentale dello scrittore romeno
Corriere della Sera 3 giu 2016 Di Cinzia Fiori
Ha una capacità di scrittura straordinaria, Mircea Cartarescu. Una rara densità nel periodare e un talento per l’immaginazione che finiscono per sedurre anche il lettore abituato a tanto romanzare standardizzato. Perché se il sessantenne scrittore e poeta romeno, tradotto in undici lingue tra gli encomi della critica, se l’autore giunto in finale al von Rezzori e allo Strega europeo è senz’altro un visionario, non è però un visionario oscuro. Cartarescu si spiega, eccome. Basta seguirlo con un po’ di fiducia e, alla fine, tutto si tiene, regalando avventura, conoscenza, riflessione e stupore.
La trilogia che si conclude con Abbacinante. L’ala destra è un libro-viaggio, un testo che trasporta per ogni campo del sapere, ponendosi le eterne domande sul nostro esistere. Già la struttura dei tre volumi pubblicati da Voland e ottimamente tradotti da Bruno Mazzoni è peculiare, indicativa del pensiero che sostiene l’opera: c’è un Abbacinante. L’ala sinistra (il primo tomo, 2003), un Abbacinante. Il corpo (2015) e Abbacinante. L’ala destra (esce il 9 giugno). Le due ali e il corpo compongono una farfalla, che era per i greci il simbolo dell’anima e dello spirito ed è, di conseguenza, per l’autore una grande metafora del destino umano. Siamo bruchi fatti di carne che il tempo mangia, destinati a chiudersi nella crisalide della tomba, con la speranza di uscirne farfalle. Il libro è zeppo di farfalle come visioni, ma anche come proiezioni, uno dei modelli «catastrofici» di René Thom è a forma di farfalla, nel nostro corpo l’osso alla base del cranio ha la stessa morfologia, che appartiene pure alle sezioni delle vertebre. C’è poi tutto un gioco di «doppi imperfetti» come le due ali, simili ma non identiche: dal gemello sparito a circa un anno, il «fantasma» della trilogia, che riappare in quest’ultimo testo, per non dire delle molte corrispondenze tra uomo e cosmo nell’opera.
Suddividendo il libro per filoni narrativi, c’è in primo luogo il vissuto del protagonista, letto spesso tenendo conto della quarta dimensione, relativistica, e della fisica quantistica. E in questo vissuto di Mircea come io narrante scorrono le vicende del personaggio principale e dell’intera Romania vista da Bucarest. Con L’ala destra si giunge al periodo della rivolta contro Ceausescu e della sua caduta, raccontato in molti modi, uno dei quali, efficacissimo, è il monologare della madre su cose banali, il cibo che non c’è e che c’era, le relazioni mutate, il passato della famiglia, la paura, la vita piccola, che non fa storiografia ma che Cartarescu riesce a trasformare in un potente strumento per esperire la storia. E scorreranno anche immagini mirabolanti, la rivoluzione che scende in piazza accanto alla gente, alta fino al terzo piano e vestita, nel suo trionfo, col costume tradizionale. Un’allegoria potente che, pagine più avanti, con un colpo di scena, si rivelerà tutt’altro. O le statue, che già si animavano nei volumi precedenti, e qui scendono dai piedistalli e si ribellano, stufe della loro condizione. Polo d’attrazione per tutti la gigantesca, sempre più surreale con l’avanzare del racconto, Casa del popolo. In questo vissuto (o visto) di Mircea in prima persona confluiscono anche i sogni, ed è la parte apparentemente più oscura, finché non si scopre che tutto quel girare dapprima vuoto per cunicoli e visioni non è altro che il sognare di una persona alla ricerca del trauma rimosso che gli tormenta i giorni.
C’è poi, per continuare a offrire qualche chiave di lettura, il filone della memoria, il tempo incantato e tribolato dell’infanzia, rivissuto in un periodare lungo e sonoro, ricco, come l’intero testo, di digressioni. Qui il piccolo Mircea è narrato in terza persona. Si potrebbe parlare di Bildungsroman, se non fosse all’interno di un libro mondo. Perché a narrare il bambino è un Mircea più anziano, cinquantenne, l’autore del manoscritto destinato a sostituirsi alla realtà e coevo con il bambino e col protagonista, adulto, ma trentaquattrenne nell’anno di grazia 1989 in cui la trilogia si conclude. Non solo «i Mircea» sono coevi, tutto lo è nel pensiero di chi scrive e se «la realtà è la costruzione più complessa della mente», tutto (o nulla) è ugualmente reale. Hanno lo stesso statuto: corpi, oggetti, fatti, atti, sogni, allucinazioni e memorie.
C’è infine il piano cosmologico-spirituale. Il parlare di Herman, qui ritrovato, col suo indagare e raccontare al giovanissimo Mircea il mistero del nostro vivere e morire basandosi specialmente sul Pentateuco, del quale Herman, specie di sant’uomo ai margini, contesta ogni lettura simbolica o allegorica. Herman, che indaga la tecnica divina, parla usando le figure e i motivi della tradizione giudaico-cristiana, scatenando un florilegio barocco di immagini nella fantasia dell’autore, a partire dallo strano «dispositivo tecnomistico» che si installa sul cielo di Bucarest. Una specie di trono divino. A un livello ultimo, più in linea con il sapere d’oggi, quello di chi narra: siamo immanenti all’universo e tutto ciò che è esistito esisterà sempre. Tocca al lettore scoprire come, con l’avanzare delle pagine, e farsi una propria opinione. Mentre il libro anche da questa dimensione continua a partorire storie, e ne vedremo delle belle.
Dopo quindici anni di lavoro su un testo che rifiuta la definizione di fiction, Mircea Cartarescu, nato come poeta della cosiddetta generazione Blue jeans, ha dato alle stampe la sua opera in prosa più ricca: 1.600 pagine totali, 640 quelle dell’ultimo libro. E sono pagine di rara ricchezza lessicale, che usano tutti i mezzi espressivi e immaginativi con una fiducia granitica nella scrittura.
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