domenica 19 giugno 2016
Tre figure di lavoro operaio? La borghesia riflette sulle proprie modalità di sfruttamento e sulla frantumazione della classe antagonista
La classe operaia si fa in tre nella fabbrica 4.0 (e nei servizi)
di Dario Di Vico Corriere 18.6.16
L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della
logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti,
soprattutto stranieri. Le tre classi operaie, secondo la definizione del
sociologo Antonio Schizzerotto, hanno diverse ambizioni, salariali e
professionali, rapporti col sindacato più o meno stretti. L’operaio hi
tech, uno su cinque tra i metalmeccanici, secondo alcune rilevazioni, è
l’elemento nuovo. Sostiene lo storico dell’impresa Giuseppe Berta:
«Spesso macchine da oltre 300 milioni sono controllate da addetti che
guadagnano poco più di 1.500 euro e la loro partecipazione non è
remunerata». È poi interessante annotare come l’operaio delle linee di
montaggio, la cassiera e l’operatore call center abbiano tra di loro
elementi comuni superiori a quelli che legano l’operaio cognitivo e
quello fordista. Tre classi operaie, non una dunque e la tendenza alla
differenziazione è sempre più veloce.
Non una ma tre. Ormai gli studiosi cominciano a sostenere che di classe
operaia ne esiste più d’una e la tendenza alla differenziazione è sempre
più veloce. Non basta essere sotto lo stesso capannone per avere una
condizione di lavoro omogenea, anzi per molti versi lo schema
organizzativo rigido applicato agli operai delle linee di montaggio è
più vicino a quello di una cassiera del supermercato o di un addetto al
call center di quanto lo sia rispetto alle nuove figure di lavoratore
manual-cognitivo che la tecnologia richiede. I cambiamenti investono la
qualità del lavoro ma si intravedono processi di distinzione che nel
medio periodo investiranno i sistemi di retribuzione, il rapporto con il
sindacato e più in generale l’identità. Anche perché nel frattempo si
sono sviluppati segmenti del lavoro manuale con caratteristiche in parte
nuove dentro settori come la logistica (i facchini) e i servizi alla
persona (le badanti) e di conseguenza «le classi operaie sono tre», come
sostiene il sociologo Antonio Schizzerotto.
Per ridisegnare una mappa conviene partire dalle novità della
tecnologia, dalle imprese che applicano tecniche di lean production e
Kaizen per passare a quelle che hanno adottato il sistema Wcm fino ai
primi esperimenti di Industria 4.0, tutte richiedono una forza lavoro
cognitiva molto coinvolta nei processi di controllo/regolazione delle
macchine. In termini quantitativi limitando l’osservazione al settore
metalmeccanico (1,5 milioni di addetti) le stime parlano di un 20% medio
di dipendenti già entrati nella nuova dimensione professionale, la
prima classe operaia. «Sono figure tenute in palmo di mano dai datori di
lavoro perché, oltre a interagire con sistemi tecnologici complessi,
hanno fatto proprio un concetto di responsabilizzazione — dice lo
studioso Luciano Pero —. Quando succede qualcosa questi operai non
parlano con il loro capo ma interrogano il sistema e la soluzione che
viene fuori fa scuola». Aggiunge il sociologo Daniele Marini: «Quando un
imprenditore innova sospinge verso l’alto tutte le professionalità
della sua fabbrica. Cambia lo spartito e i codici di comportamento e si
crea potenzialmente una chance di mobilità professionale». Il lavoro si
libera dall’ideologia e vincono le persone con le loro competenze
individuali.
Queste figure operaie già apprezzatissime dovrebbero in un futuro
immediato essere ulteriormente motivate ma inquadramenti e paghe non li
premiano. Superminimi, ad personam e fuori busta non sono sufficienti a
gratificare operai che hanno bisogno di un aggiornamento continuo, sono
parte integrante del cambiamento e all’estero vengono pagati di più.
Sostiene lo storico dell’impresa Giuseppe Berta: «Spesso macchine da
oltre 300 milioni sono controllate da addetti che guadagnano poco più di
1.500 euro e la loro partecipazione non è remunerata».
Non si hanno però notizie di frizioni con il sindacato, prevale un
comportamento prudente. Sanno che dovranno giocare le loro chance
individuali ma temono opposizioni e veti. L’innovazione riguarda un po’
tutti i settori ed è difficile oggi descrivere una mappa esauriente ma
anche industrie come la siderurgia non sono più quelle di una volta. In
passato questa prima classe operaia sarebbe stata definita come una
aristocrazia del lavoro, oggi stenta a venire fuori un’identificazione
altrettanto precisa, a dimostrazione che si tratta di un processo in
corso.
La seconda classe operaia è quella che potremmo definire «fordista» con
un termine in verità abusato. Sono gli operai delle linee di montaggio
che sono cambiate moltissimo in questi anni ma continuano comunque ad
avere vincoli organizzativi rigidi e di conseguenza a predeterminare la
mansione degli operatori. Gli operai fordisti hanno un salario medio
attorno ai 1.350 euro, rappresentano il cuore della partecipazione
sindacale e come materia di scambio hanno principalmente la
flessibilità. Ogni elemento di discontinuità organizzativa viene di
conseguenza negoziato e monetizzato.
L’età media è appena sotto i 50 anni e in questa categoria si possono
inglobare altre figure come i carrellisti e soprattutto, pur non legati
in linea, gli operai delle Pmi. Che spesso lavorano a una macchina
singola ma hanno comunque un raggio di professionalità limitato e
bisogni formativi ridotti. A caratterizzare il tipo di impegno più che
lo stress della partecipazione a processi complessi prevale il vincolo
di star dietro ai tempi-macchina, accompagnato in molti casi dalla pura
fatica fisica. Non dimentichiamo che a fronte di tante postazioni che
sono state automatizzate restano comunque nella manifattura vaste aree
che hanno bisogno dell’intervento umano. O quelle che per tipo di
applicazione — penso all’occhialeria — richiedono un’applicazione
minuziosa da parte dell’operatore e non sono robotizzabili. È chiaro che
questo tipo di classe operaia è più portata a ragionare in termini di
egualitarismo e non vede ascensori sociali nei paraggi.
Se volgiamo l’attenzione fuori della fabbrica tradizionale altre figure
fordiste le possiamo rintracciare in settori e modalità di
organizzazione come la grande distribuzione. Un grande supermercato ne
richiede molte e la più conosciuta è la cassiera, legata anch’essa a una
sequenza di operazioni piuttosto rigida. La prevalenza delle donne è
forte e l’elemento di flessibilità è legato all’orario (part time).
Possiamo inserire nella stessa categoria anche gli operatori dei call
center? Le opinioni degli esperti divergono perché se è vero che la
risposta al cliente è comunque legata a un tempo-standard e quindi a un
vincolo rigido c’è comunque l’elemento di interazione con le persone che
rende la mansione meno ripetitiva e più ricca. È interessante però
annotare come l’operaio delle linee di montaggio, la cassiera e
l’operatore call center abbiano tra di loro elementi di omogeneità
superiori a quelli che legano l’operaio cognitivo e quello fordista.
Resta la terza classe operaia, il proletariato dei servizi che sta fuori
dei cancelli ed è destinato a crescere soprattutto per il peso che
assume il settore della logistica. È chiaro che questo segmento riguarda
per lo più facchini — le stime parlano di 400 mila — che lavorano alle
dipendenze delle cooperative spurie, al 90% sono extracomunitari
(marocchini, tunisini, pachistani) e spesso vengono reclutati grazie a
un filtro di caporalato etnico. La loro relazione con il sindacato passa
attraverso il contratto nazionale di lavoro — tutt’altro che
disprezzabile — che però viene frequentemente disatteso con forme di
dumping che partono dall’applicazione di un livello di inquadramento
inferiore (che li porta a prendere 1.050 euro in media). Stiamo parlando
di lavori che anche in virtù degli orari di impiego in cui si svolgono
sono di fatto invisibili e infatti non ci sono lavori di indagine che li
studino. Un altro segmento di lavoro che fa parte del proletariato dei
servizi è composto dalle badanti (stima: 200 mila), una mansione che si
apprende in una settimana e «spesso è solo erogazione di sforzo fisico»,
secondo il sociologo Asher Colombo. Per l’80% sono straniere e il loro
fordismo è mitigato però dall’impegno psicologico che richiede la cura
dell’anziano e la relazione con i parenti. Cosa dimostrano le tre classi
operaie? Che i processi di disuguaglianza sono più estesi di quanto si
racconti e che siamo solo all’inizio.
(continua)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento