Rivoluzione in vista per l’Italiacum, la legge elettorale che da domani sarà in vigore. Il premio di maggioranza sarà spostato dalla lista alla coalizione vincente. Renzi è disposto a un ritocco «chirurgico», l’unico possibile. Il provvedimento è contenuto in una mozione che Sel è riuscita a far calendarizzare alla Camera per settembre. Sul fronte M5S, le nomine di Raggi a Roma dividono i grillini.
A sera, nella diretta Facebook, fa capire che se fosse per lui non toccherebbe nulla della sua creatura. «Mi scrivono: “Non si provi a cambiare l’Italicum...”. A me lo dite?». Un modo per provare a stoppare un tormentone che tiene banco e per contenere le aspettative. Tanto che da ore i suoi vanno ripetendo la parola magica «chirurgico»: questo deve essere l’aggettivo caratterizzante del ritocco all’Italicum che il premier potrebbe esser disposto a concedere. Spostare il premio di maggioranza dalla lista alla coalizione è l’unico cambio ipotizzabile prima di testare la legge alle urne.
Rivoluzione copernicana
Un cambio che sarebbe in sè una rivoluzione copernicana del sistema, perché i puristi della vocazione maggioritaria del Pd già storcono il naso, «coalizione significa che il premio si divide tra più partiti e i piccoli hanno il potere di veto». Dunque per Renzi e i suoi un prezzo alto da pagare casomai solo sull’altare di una battaglia più alta, quella del referendum costituzionale, nella speranza che un’apertura possa smontare le ragioni del no. Ma se si prova a riaprire il cantiere dell’Italicum salta tutto, è l’avvertimento consegnato ai suoi diplomatici dal leader Pd. Alla Camera già si respira la tensione innescata dalla notizia del voto che Sel è riuscita a far mettere in calendario in settembre: su una mozione con oggetto i possibili profili di incostituzionalità della legge elettorale.
Ma l’Italicum è un totem che Renzi non vuole sradicare, lo ha detto in tutte le salse ai suoi vari interlocutori: siccome i punti criticati sono diversi, come quelli delle preferenze o dei cento capilista bloccati, non è pensabile che si possa rivedere tutto e ricominciare daccapo. Questa è la ferma convinzione del premier, informato dai suoi che sul «ritocco chirurgico» del premio alla coalizione ci sarebbero i voti - o il placet non belligerante - di tutti, tranne che dei grillini. Da Ncd a Forza Italia ad Ala di Verdini, fino a Sinistra Italiana. Gli attaché diplomatici hanno già preso contatti pure con i leghisti che contano, traendone la convinzione che Salvini non farà barricate. Quindi si può profilare una modifica largamente condivisa. Ma mai su proposta del Pd, «perché noi apriamo uno spiraglio solo se qualcuno propone una modifica», dicono i big renziani.
Ballottaggio a rischio
I più esperti sul tema introducono una variante: che invece del premio di coalizione possa essere introdotto il sì all’apparentamento: che lascia mani libere al primo turno e consente di decidere al secondo se dividere o no i seggi con gli alleati. Mentre negli altri gruppi, specie a sinistra, si fa strada la richiesta più esplosiva: quella di abolire il ballottaggio, «perché il vero punto è quello», spiega un big della Sinistra.
Le idee fioccano, il primo a depositare un testo è Pino Pisicchio, capogruppo del Misto, forte di una sessantina di deputati. Che per smontare un possibile rilievo della Consulta farebbe scattare il premio di maggioranza solo se al ballottaggio si raggiunge un quorum del 50% più uno, per evitare che col 25% un partito possa avere il premio. Bersani chiede il doppio turno di collegio e il ritorno al Mattarellum propugnato già da Gotor, «che però con il tripolarismo non garantisce affatto la governabilità» ribattono i renziani.
La legge sarà giudicata dalla Consulta in ottobre, forse prima del voto sul referendum che «non slitta», la vera partita cui è legata la sorte dell’Italicum. Partita che il premier continua a giocarsi gettando tutta la posta sul tavolo, «non sono un pollo da batteria che se perde fa finta di niente». Dunque «se perdo ne trarrò le conseguenze», dice. Consapevole però che facendo passare il messaggio di un possibile ritocco all’Italicum il fronte del no può indebolirsi. «Un’apertura renderebbe più semplice il percorso referendario», sentenzia Gianni Cuperlo.
intervista di Goffredo De Marchis Republica 30.6.16
«Spero di sì. Renzi è un politico realista, attento ai rapporti di forza. Si rende conto che l’Italicum ha un limite strutturale: è pensato come un abito su misura del Pd al 40 per cento, presuppone lo sfondamento di una sola forza. Ma la realtà è molto diversa e presenta il conto. A livello europeo la partita non è più solo destra contro sinistra, ma establishment contro esclusi: per questo il nodo della rappresentatività è centrale . Oggi appare chiaro che l’Italicum è frutto di un eccesso di furbizia e strumentalità, ma le leggi elettorali si fanno immaginandoti sconfitto non vincitore».
La minoranza non ha votato il nuovo sistema elettorale. Ma se Renzi oggi aprisse a una modifica avrebbe il sapore di una mossa contro i grillini. Una posizione insostenibile.
«La forza della nostra linea è a disposizone dell’intero Pd. Mettiamo la nostra coerenza, con umiltà, al servizio di Renzi. Non chiediamo di cambiare la legge perché temiano i 5 stelle o la destra riorganizzata, ma perché l’abbiamo sempre detto».
Il problema è Renzi.
«Renzi può lavorare all’unità del partito e valorizzare la nostra posizione. Ci saranno critiche, certo, ma riuscirà ad arginarle ».
Gli sta chiedendo un clamoroso voltafaccia.
«Non è così. Basta che attinga al suo realismo ».
È sufficiente dare il premio alla coalizione anziché alla lista?
«Secondo noi no, sarebbe un passo avanti, ma la vera questione è la rappresentatività, il rapporto tra gli eletti e i cittadini. La proposta del Pd è sempre stata il doppio turno di collegio. Non c’è spazio per questa modifica? Lavoriamo allora su un turno unico con il 75 per cento di collegi a turno unico e il 25 che garantisce premio e diritto di tribuna ».
Volete umiliare il premier?
«Ma non scherziamo. È interesse comune prendere atto di una stagione finita. L’-I-talicum è figlio del patto del Nazareno e del rapporto con Verdini. Ora bisogna cambiare interlocutori. Romani di Forza Italia dice che la priorità è cambiare l’Italicum. I 5 stelle, con apprezzabile serietà, sono disponibili a modificarlo visto che non lo hanno votato ».
Volete ricominciare daccapo?
«La volontà politica è un’energia che fa fare le cose bene e in poco tempo. Sicuramente, a noi non basta un annuncio. Un accordo per cambiare la legge va stretto da qui al referendum di ottobre».
“E a quel punto rischieremmo davvero di perdere”
di Francesco Grignetti La Stampa 30.6.16
Professore Stefano Ceccanti, ha sentito? Si parla di modifiche alla legge elettorale e di un ritorno del premio di maggioranza alle coalizioni.
«Non ci credo».
In Parlamento lo danno per scontato.
«E io continuo a non crederci. Non ci sono i tempi tecnici per cambiare una legge elettorale prima del referendum costituzionale d’autunno: e se Renzi vincerà, molte cose cambieranno... Ma al fondo mi sembrerebbe suicida chiedere di cambiare una legge elettorale perché ti fanno paura i Cinque Stelle. Una posizione che definirei “sconfittistica”. Non reggerebbe di fronte al Paese. Avresti tutti i quotidiani che titolano sulla paura di perdere. E i grillini avrebbero, gratuitamente, la patente di vincenti. È totalmente delegittimante ammettere di cambiare la legge per paura di perdere. E a quel punto succederebbe sul serio».
Proprio i grillini, che hanno tanto avversato l’Italicum, pensa che lo difenderebbero?
«Per il M5S sarebbe una campagna win-win. Vincente in ogni caso. Se le modifiche all'Italicum non passano, bene. Se passano, a quel punto avrebbero la fama di chi mette paura agli altri».
Con il premio di maggioranza alle coalizioni, il Pd può dire addio alla vocazione maggioritaria?
«Guardi, le coalizioni ce le ricordiamo bene. Il Pd è nato proprio per superare l’esperienza dell’Ulivo, i cespugli, i partiti e i partitini».
Il ritorno delle coalizioni, secondo lei, potrebbe aiutare i partiti maggiori a non restare fuori dai ballottaggi?
«Un effetto che al limite vedo più a destra che a sinistra. Forse, se Renzi vuole aiutare Berlusconi a non restare regolarmente fuori, con un premio alla coalizione, potremmo anche rivedere Salvini, Meloni, e Berlusconi tutti assieme appassionatamente. Ma la vedo comunque difficile un'armata Brancaleone dove stanno assieme gli amici della Merkel e quelli della Le Pen».
Comunque le coalizioni hanno un senso. Per bloccare l’ascesa dei grillini.
«Forse accadrebbe per il voto organizzato. Ma di contro si respinge il voto d’opinione perché l’effetto delle coalizioni è repellente. Non è un caso che Grillo abbia rivendicato il successo nei ballottaggi, dicendo che il loro movimento vince perché rifiuta ogni apparentamento e va avanti da solo. La sola idea di coalizione puzza di vecchia politica, di establishment che cerca di sopravvivere, di manovre di corridoio».
E il Pd?
«Il Pd renziano, anche se dovesse mai tornare il premio di coalizione, secondo me non si può alleare con nessuno, pena lo snaturamento. Impossibile che stringa alleanza con quella sinistra che sputa sul governo tutti i giorni. Impossibile anche, per gli stessi motivi, un apparentamento con i gruppuscoli centristi, gli ex berlusconiani alla Verdini».
Resta il fatto che proprio da quelle parti si chieda a gran voce il premio di coalizione.
«E torniamo al ragionamento sul voto organizzato e il voto d’opinione. Io capisco che pezzi del ceto politico cerchino di salvarsi. Ma gli altri?».
In conclusione, lei non ci crede proprio.
«No. L’unica cosa vera è che il 1° luglio l’Italicum entra in vigore, per la Camera. Non per il Senato, dove si voterebbe con il Consultellum».
di Maria Teresa Meli Corriere 30.6.16
Matteo Renzi ha deciso di aprire uno spiraglio sulla modifica dell’Italicum. Lunedì lo farà con la minoranza interna, nell’immediato il vero interlocutore dell’operazione è Forza Italia.
ROMA E adesso il referendum fa paura a Matteo Renzi. Già, se fino a qualche mese fa il premier era sicuro del successo («Vinciamo e poi non ce ne sarà per nessuno»), ora le sue certezze vacillano. Dunque non è un caso che Renzi abbia deciso di aprire uno spiraglio sulla modifica dell’Italicum. Il premio di maggioranza potrebbe andare alla coalizione e non più al partito e, di conseguenza, si alzerebbero le soglie di sbarramento.
Ma questo non significa che il presidente del Consiglio marci già spedito verso la riforma della sua riforma: «Per ora non esiste nessuna modifica, ma dopo il referendum vedremo...». Il premier segue più direttrici. Muove verso la minoranza interna: lunedì, in occasione della riunione della direzione, Renzi dovrebbe aprire uno spiraglio sull’Italicum. Nessun cedimento, ma una sorta di prova fedeltà nei confronti dei bersaniani: voi votate Sì al referendum di (fine) ottobre e io posso modificare la legge elettorale.
Nell’immediato, invece, gli interlocutori di Renzi sono il Nuovo centrodestra e Ala di Verdini, perché al Senato, come ha confidato a più di un esponente del Pd Maria Elena Boschi, la fibrillazione è continua e Ncd è diviso. E per questo motivo il governo rischia la paralisi a Palazzo Madama.
Ma il vero interlocutore di questa operazione è Forza Italia. È il partito di Berlusconi che i renziani sperano di coinvolgere: la modifica dell’Italicum in cambio di un ammorbidimento degli azzurri sul referendum costituzionale. Non il Sì esplicito di FI, perché quello è impossibile, ma una linea meno oltranzista e, magari, il pronunciamento favorevole alla riforma costituzionale di alcuni esponenti del centrodestra, come Stefano Parisi. E, infatti, da giorni si è avviato un dialogo con i due esponenti che contano dentro Forza Italia: Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Entrambi, dicono al quartier generale di Renzi, sono convinti che con la linea oltranzista di Brunetta si regalino voti al M5S.
Il lavoro diplomatico del Pd però è a più ampio spettro. Si tenta di coinvolgere il presidente Sergio Mattarella (che negli auspici di chi segue la trattativa per Renzi potrebbe intervenire a favore del referendum, seppur con la cautela che gli impone il suo ruolo), la Chiesa e anche quel Romano Prodi, che è ancora molto amato dal popolo di centrosinistra orfano dell’Ulivo, e con cui il ministro Graziano Delrio continua a tenere buoni rapporti. E persino i sindacati, cui ieri il premier ha lasciato intravedere un aumento delle risorse (300 milioni) per il contratto dei pubblici dipendenti. Insomma, tutto è in movimento, anche se non è ancora chiaro l’approdo perché spesso e volentieri Renzi lascia trapelare i suoi orientamenti solo per vedere le reazioni degli altri, pronto a ritrarsi, nel caso in cui le sue operazioni non vadano a buon fine.
Ma, quale che sia l’esito delle manovre renziane, c’è una novità da registrare (e non riguarda la mozione di SI perché quella, anzi, mette in difficoltà il premier giacché lo costringe a scoprire le sue carte prima del tempo, tant’è vero che il Pd l’ha fatta slittare a settembre). La novità è che fino a qualche mese fa Renzi era contrario ad aprire ora una discussione del genere perché a suo avviso indeboliva il Sì. Ora, invece, dopo la sconfitta elettorale, Renzi ha cambiato approccio. Non ufficialmente, è chiaro, perché davanti ai giornalisti l’atteggiamento è quello sicuro di sempre, ma poi, con i fedelissimi, il tono cambia. E, di conseguenza, mutano i ragionamenti: «Non possiamo vincere il referendum costituzionale soli contro tutti».
Dunque, benché Renzi resti affezionato all’Italicum («Se ci fosse stato in Spagna ci sarebbe stato un vincitore, e lo stesso si può dire per l’Italia del 2013»), da parte sua c’è maggiore duttilità. Eppoi aprire uno spiraglio non costa molto e si ottiene comunque il risultato di «sgonfiare la propaganda contro il referendum».
La mozione di Sinistra italiana per discutere in settembre dei profili di costituzionalità di Dino Martirano Corriere 30.6.16
ROMA Sulle modifiche alla legge elettorale (Italicum), il clima è cambiato ai piani alti del Pd. Soltanto due settimane fa, prima dei ballottaggi che hanno visto i Dem soccombere in molti comuni compresi Roma e Torino, al Nazareno sarebbe stata respinta tra fuoco e fiamme solo l’ipotesi di discutere alla Camera una mozione di Sinistra italiana sui «profili di incostituzionalità» dell’Italicum. Ieri, invece, la proposta di inserire la suddetta mozione nel «programma dei lavori d’aula di settembre» è scivolata via alla conferenza dei capigruppo dove il governo e il Pd erano rappresentati dalla ministra Maria Elena Boschi e dal capogruppo Ettore Rosato.
La proposta di Arturo Scotto (SI) è un atto unilaterale e ora impegna la Camera a riformare la legge elettorale in vista dell’udienza del 4 ottobre in cui la Consulta esaminerà il ricorso sull’Italicum veicolato dal Tribunale di Messina. «Il Parlamento — argomenta Scotto — resta a guardare? O corre ai ripari per tempo?». Quando il caso è montato, il Pd ha risposto in modo non pregiudiziale. Il premier Renzi non è sembrato preoccupato: «La mozione? Ce ne sono tante. Se ne discuterà...».
La ministra Boschi, a ragione, ha scritto che la «Camera non ha calendarizzato la mozione» ma ha poi dovuto aggiungere che i capigruppo hanno indicato «i provvedimenti per il programma dei lavori di settembre». A caldo, Rosato ha detto che «è possibile cambiare una legge, compresa quella elettorale, sempre». Il renziano Andrea Marcucci, ha aggiunto: «Una legge elettorale si può cambiare in ogni momento. Per farlo non servono mozioni ma maggioranze».
E se si dovesse tornare allo schema del Nazareno (Pd-FI), l’azzurro Paolo Romani si è già fatto sentire: «Cambiare l’Italicum è una priorità ma per farlo non siamo disposti ad alcun baratto». A Berlusconi interessa il ritorno al premio di maggioranza alla coalizione, per rendere competitivo il centrodestra, e il Pd non è più così sicuro di vincere il premio al primo partito che ora fa gola ai grillini, non a caso gli unici ostili a cambiare l’Italicum con la scusa che «legge fa schifo». Tornare al premio alla coalizione (con i voti anche di Ncd, centristi, FdI, SI e minoranza Dem, che non votò la legge) sarebbe il punto di caduta per l’accordo di settembre.
Il premier Renzi, però, prima deve pensare al referendum costituzionale di autunno e così è tornato a dare la sveglia la Pd: «Ne abbiamo già centinaia, ma dobbiamo arrivare a 10 mila comitati da qui a settembre». E se vincesse il No? «Con lo stop al Senato, si tagliano 100 milioni all’anno. Cambiare è un dovere. Ma se perdo vado a casa. Non sono mica un pollo da batteria».
Cinquestelle, sorpasso sul Pd
Sondaggio Demos: al ballottaggio staccherebbero i Dem di quasi 10 punti. Crolla la destra Gli italiani difendono la Ue: due su tre bocciano Brexit. Si riaccende la battaglia sull’Italicum
In caso di ballottaggio i grillini prevarrebbero di quasi dieci punti sul partito del premier
La radicalizzazione dello scontro fa tuttavia crescere il consenso nei confronti del governo di Ilvo Diamanti Repubblica 1.7.16
LE recenti elezioni amministrative hanno lasciato il segno, anche sul piano politico nazionale. Il recente sondaggio condotto da Demos per l’Atlante Politico di Repubblica lo conferma. Infatti, secondo gli italiani (intervistati) alle amministrative di giugno c’è un solo vincitore. Il M5S. L’unico partito a essersi rafforzato in ambito nazionale (lo pensa circa l’80 per cento). Mentre gli altri si sono indeboliti. Più di tutti, il Pd di Renzi. Le stime elettorali riflettono queste valutazioni.
IN CASO di elezioni politiche, infatti, Demos attribuisce al M5S oltre il 32% dei voti validi. Circa 5 in più, rispetto alla precedente rilevazione, condotta in aprile. Mentre il Pd si attesta poco oltre il 30%. Stabile, rispetto ai mesi scorsi. Dietro queste due forze politiche c’è quasi il vuoto. Lega e Forza Italia non raggiungono il 12%. Anche se si coalizzassero, “costretti” dalle regole dell’Italicum, avrebbero poche possibilità (ad essere prudenti) di arrivare al ballottaggio. Gli altri partiti, tutti, arrivano a fatica al 5%.
Su queste basi, si rafforzerebbe ulteriormente il M5S, ma, soprattutto, si ridisegnerebbe il sistema dei rapporti di forza fra soggetti politici. Il tripolarismo imperfetto, emerso nel voto amministrativo, in ambito nazionale si ridurrebbe a un bipartitismo. Infatti, il Pd di Renzi e il M5S, insieme, intercetterebbero quasi i due terzi dei voti. Mentre il rimanente terzo degli elettori appare diviso e frammentato. Il M5S, peraltro, in caso di ballottaggio vincerebbe largamente. Come, d’altronde, è avvenuto, alle amministrative, nei comuni maggiori dove il M5S, è riuscito ad arrivare al secondo turno, riuscendo ad affermarsi praticamente dovunque. In 19 comuni maggiori su 20. Tra i quali, anzitutto, Roma e Torino. Il M5S, infatti, oggi appare il principale canale per raccogliere il dissenso contro i partiti “tradizionali”. Ma, soprattutto, di intercettare il voto “anti-renziano” dall’intero arco politico. In particolare al centro e a destra.
Infatti, secondo il sondaggio, il M5S, in caso di ballottaggio, prevarrebbe di quasi 10 punti sul Pd (54,7 a 45,3). Mentre nel confronto con i Forza- leghisti non ci sarebbe storia. Quasi 20 punti di distacco. Si spiegano anche – soprattutto – così le crescenti perplessità, nella maggioranza, verso l’Italicum, la legge elettorale approvata da questo governo. Che entra in vigore proprio oggi. Riproduce, per molti versi, il dispositivo adottato per l’elezione dei sindaci. Con effetti sicuramente poco gradevoli e graditi per il PdR. E il suo leader.
Peraltro, echeggiando la nota definizione di Giorgio Galli, emerge un bipartitismo “meno” imperfetto di qualche tempo fa. Quando il M5S si proponeva come un’opposizione, ma non come un’alternativa. Appariva, cioè, un collettore e un contenitore del risentimento. Ma senza speranza. Senza possibilità di governare. Perché non veniva votato per questa ragione. Dopo le elezioni amministrative di giugno, però, le opinioni degli elettori, al proposito, sembrano cambiate. Oggi, infatti, quasi due elettori su tre considerano il M5S in grado di governare le città dove si è affermato. Mentre la maggioranza non lo ritiene ancora una forza di governo a livello nazionale.
Tuttavia gli orientamenti stanno cambiando, anche sotto questo profilo. Visto che oltre 4 elettori su 10 pensano che il M5S sarebbe in grado di governare il Paese. Ancora una minoranza. Ma larga. Cresciuta di oltre 10 punti negli ultimi mesi.
La polarizzazione politica, che emerge a livello elettorale, si riflette anche sul piano della “fiducia” personale. Beppe Grillo, infatti, raggiunge – quasi – Renzi. Mentre Di Maio lo supera. E De Magistris, rieletto sindaco di Napoli senza problemi, lo affianca. Segno che anche a sinistra esiste un’area di dissenso nei confronti del premier. Tuttavia, nonostante i deludenti risultati delle amministrative, la fiducia personale verso Renzi, negli ultimi mesi, resta stabile. Intorno al 40%. E il consenso nei confronti del suo governo cresce di qualche punto. Fino al 42%, Probabilmente, per due ordini di ragioni. La prima, di natura politica interna, riflette la tensione bipolare, alimentata dalla sfida antipolitica del M5s. Che polarizza i consensi e i dissensi intorno ai due protagonisti: il M5s e Renzi. D’altra parte, vi sono altri fattori, che attraggono l’opinione pubblica intorno al governo. Di natura prevalentemente esterna. La domanda di sicurezza, in primo luogo. Alimentata dall’immigrazione, che continua a generare preoccupazione. Poi, la questione europea, drammatizzata dalla Brexit.
Gran parte degli italiani ne teme gli effetti. E per questo si assiste a una crescita di consensi verso la UE. E a un aumento del sostegno all’euro. Si tratta del riflesso di tendenze note. Fra gli italiani, infatti, anche in passato il timore dei possibili effetti dell’uscita dalla UE e dall’euro prevaleva largamente sull’insoddisfazione nei confronti di entrambe le istituzioni. Oggi che questa prospettiva non è più così ipotetica e che la costruzione europea scricchiola in modo preoccupante, il sentimento euro- peista si rafforza. Per reazione. Se venisse proposto anche in Italia un referendum Itæxit, sull’uscita del nostro Paese dall’Unione europea, secondo il sondaggio di Demos, i due terzi degli elettori italiani voterebbero contro. Cioè, per rimanere nella Ue. Solo fra gli elettori della Lega la maggioranza voterebbe per uscire. Tutti gli altri, compresi quelli del M5S, sceglierebbero di rimanere “uniti”. Per prudenza, perché non si sa mai… Il clima di tensione internazionale, l’instabilità europea, l’insicurezza interna, dunque, sembrano rafforzare, in qualche misura, anche il sostegno al governo nazionale. A chi lo guida. Nonostante tutto. Magari per reazione alle “minacce” che provengono dall’esterno. Ma anche perché, di fronte al bipolarismo tra politica e anti- politica, in questa fase il richiamo della “politica” diventa più forte. Più credibile.
D’altronde, in tempi tanto incerti, aggiungere altri motivi di incertezza: suscita ulteriore incertezza.
E il richiamo del “nuovo ad ogni costo”, almeno quando si tratta del governo nazionale, diventa meno attraente. Sul mercato politico, molti preferiscono, per prudenza, affidarsi al semi-nuovo. Almeno per adesso. Domani è un altro giorno. Si vedrà.
Le trappole nascoste nel tiro alla fune sull’Italicum La pressione che lo invita a modificare la legge elettorale è drammatica Lasciarla com’è premia la sua coerenza ma lo espone alla crescita di M5S di Stefano Folli Repubblica 1.7.16
IL CONFUSO tiro alla fune intorno all’Italicum è tutto tranne che imprevisto. Una discutibile legge elettorale, “unicum” italiano peraltro mai sperimentato, diventa il regno del paradosso. Sconfessata nella sostanza da chi l’aveva tenacemente voluta, il Pd. Difesa per il proprio tornaconto da chi l’aveva avversata fino a ieri, i Cinque Stelle. Riscoperta come salvagente da chi era fuori gioco e oggi spera di rientrare in campo grazie alla riforma della riforma: il centrodestra berlusconiano.
È evidente che per adesso non accadrà nulla. I sussulti di luglio e la mozione parlamentare in calendario a settembre sono la spia di un malessere, ma nessuno ha la forza politica e soprattutto la determinazione per correggere l’Italicum e trasformarlo in quello che non è. Il premier Renzi sembra il più incerto. A lungo ha considerato il modello tutto-italiano un fiore all’occhiello di cui andare fiero. Ma è sempre rischioso concepire la legge elettorale come un vestito su misura. De Gaulle era uomo a cui non faceva difetto l’ ”ego”, ma il doppio turno di collegio, da lui introdotto, era un abito adatto alla Francia e non solo alle fortune politiche del generale. Tanto è vero che funziona ancora con vantaggi superiori agli svantaggi.
L’Italicum fu messo in cantiere dopo il successo del Pd (41%) nelle elezioni europee del 2014. Si immaginava un meccanismo che avrebbe fotografato anche sul piano nazionale l’ascesa del partito renziano. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e all’improvviso ci si è accorti che il competitore è il Movimento 5 Stelle, con percentuali in crescita registrate dai maggiori sondaggisti (vedi Ilvo Diamanti su queste colonne). Al tempo stesso, il centrodestra sopravvive come terzo incomodo e finora non ha ceduto i suoi voti, se non in piccola parte, al Pd di Renzi.
La pressione a cui è sottoposto il presidente del Consiglio da destra e da sinistra, affinché cambi una legge elettorale già vecchia prima di nascere, è dunque quasi drammatica. Il ceto politico si è mobilitato perché all’orizzonte si delinea una Waterloo, assai verosimile nel caso in cui i “grillini”, con tutte le loro contraddizioni, dovessero mostrare anche nel 2017 la capacità di rastrellare consenso vista a Roma e Torino. È noto che promettere oggi qualche modifica all’Italicum serve ad attenuare certe opposizioni alla riforma costituzionale. Il fronte del No, agli occhi di Renzi, va incrinato e reso meno minaccioso. E infatti i segnali ambigui di questi giorni mirano a ottenere un mezzo via libera alla riforma in cambio di un mezzo impegno a correggere la legge elettorale.
Tuttavia l’incertezza di Renzi nasce da altre ragioni. Lasciare l’Italicum così com’è, garantisce al premier la palma della coerenza, ma rischia di regalare uno straordinario vantaggio competitivo ai Cinque Stelle. Cambiarlo, potrebbe invece rivelarsi un atto di autolesionismo. Forse è tardi per introdurre il premio di maggioranza alla coalizione anziché alla singola lista vincitrice. Tardi per il centrosinistra, quanto meno. Di sicuro sarebbe un aiuto di non poco conto per il centrodestra, bisognoso di ricostruire un sistema di alleanze a vocazione centrista. Il che giustificherebbe il velato sostegno del mondo berlusconiano (non la Lega e FdI) alla riforma costituzionale: peraltro già oggi il No in quegli ambienti è piuttosto flebile, salvo Brunetta.
La domanda a questo punto è: al netto del referendum, servirebbe al Pd e al suo progetto consegnarsi, cambiando l’Italicum, all’obbligo della coalizione? Renzi apparentato con Alfano e il gruppo di Verdini, da un lato, e la sinistra di Fassina, dall’altro, sarebbe più o meno forte nel paese? C’è il rischio che tale tardivo ripensamento venga percepito come un gesto di auto-difesa dei partiti, regalando altre munizioni alle tesi anti-sistema. E in fondo è più logico che Alfano e gli altri si dedichino al consolidamento di un nuovo centrodestra. Renzi dovrebbe semmai avere il coraggio di cercare i voti per una legge elettorale realmente nuova, che riavvicini l’elettore con l’eletto in ogni collegio.
L’Italicum consegna il comando a un gigante contornato da una folla di nanetti di Michele Ainis Repubblica 1.7.16
LE ISTITUZIONI sono come le camicie: vanno confezionate su misura per il corpo che dovrà indossarle. Se la camicia è troppo stretta, saltano i bottoni. È questa la lezione che ci impartisce Brexit: l’Europa ha regole che l’allontanano dai popoli, sicché i popoli se ne allontanano. Come peraltro era già accaduto nel 2005, quando un doppio referendum — in Francia e in Olanda — respinse una Costituzione europea vergata con la penna d’oca del burocrate. Perché le buone leggi, diceva Montesquieu, non sono nuvole staccate dalla terra. No, dipendono dal carattere dei popoli, dalle loro tradizioni, dalla geografia del territorio che li ospita, perfino dal clima. Sono figlie d’un vissuto collettivo, devono perciò riflettere le continue evoluzioni della vita.
Questa lezione ci riguarda, ci tocca da vicino. Come italiani, non soltanto come europei. Quali istituzioni stiamo progettando? E in che guisa s’adattano al nostro corpaccione? Dopo le ultime elezioni comunali, con il successo del Movimento 5 Stelle, abbiamo scoperto d’avere un corpo tutto nuovo. Da qui un concerto d’espressioni sbalordite, o più spesso allarmate. Ma la notizia è che non c’è notizia.
I 5 STELLE erano già il primo partito alle politiche del 2013, benché il Pd — in alleanza con Sel — si fosse messo in tasca il premio di maggioranza confezionato dal Porcellum. E al 2013 risale per l’appunto la nuova geografia politica italiana, sempre confermata nelle elezioni successive: tre grandi minoranze, armate l’una contro l’altra. Destra, sinistra, 5 Stelle, separate da pochi punti percentuali. Dunque un sistema tripolare, dove oltretutto ciascun polo inalbera concezioni opposte della democrazia. Monarchica ( sia pure con un re in declino) la destra; presidenzialista la sinistra; radicale quella dei grillini.
Siamo insomma nell’era del corvo a tre zampe, l’uccello dorato che in Giappone come in Cina rappresenta il sole. Siamo altresì nel terzo tempo delle nostre istituzioni. E allora per disegnare il futuro dobbiamo muovere dai disegni del passato. Il primo tempo coincise con una forma di governo a «multipartitismo estremo » , per usare la formula di Leopoldo Elia: una frammentazione che aveva il proprio specchio nel proporzionale, nella centralità del Parlamento allevata dai regolamenti parlamentari del 1971, nella conventio ad excludendum che impediva ogni ricambio nelle stanze del governo. Quel sistema durò per 45 anni, poi venne Tangentopoli, con la decapitazione di tutti i vecchi partiti; e nacque un’Italia bipolare. Con indosso un’altra camicia, un’altra legge elettorale, maggioritaria anziché proporzionale. Il maggioritario sancì il primato dell’esecutivo sulle assemblee legislative, permise l’alternanza al governo del Paese, ma al contempo fu spietato con i vinti, attraverso lo spoil system. L’epoca in cui la Iotti o Ingrao sedevano sullo scranno più alto di Montecitorio, in cui l’opposizione era anche posizione, si chiuse come una saracinesca.
E adesso? Le asprezze del maggioritario diventano ancora più ruvide, più dure. La riforma costituzionale sottrae alle minoranze lo spazio di manovra del Senato. E l’Italicum consegna lo scettro del comando a un gigante contornato da una folla di nanetti. Perché frantuma le opposizioni, consentendo l’accesso in Parlamento a chiunque rastrelli il 3% dei consensi. Perché rende autosufficiente il vincitore, dato che il premio di maggioranza va alla lista, non alla coalizione. E perché infine chi perde il ballottaggio non ottiene nessun premio di consolazione, col risultato che qualche voto in meno può costare la metà dei seggi. In breve, abbiamo inventato un maggioritario al cubo. In un’altra stagione, magari potrebbe funzionare. Qui e oggi, è meglio ripensarci, come chiede un fronte sempre più esteso di parlamentari, anche all’interno del Pd. Infatti nessuna legge elettorale è superiore Urbi et Orbi: dipende dal contesto, non dal testo. Ma in questo caso il testo calza a pennello su un sistema monopolare, quando in Italia i poli sono ormai diventati tre. Attenzione, c’è il rischio che il corpo strappi la camicia.
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