Laura Lombardo Radice, Chiara Ingrao: Soltanto una vita, Baldini & Castoldi)
Risvolto
La storia di una madre, Laura Lombardo Radice,
ricostruita dalla figlia Chiara Ingrao attraverso le sue lettere, le
poesie, le interviste, gli articoli, gli appunti, e ripensata attraverso
il filtro della propria esperienza. Ma anche la storia del Novecento,
dietro e dentro la vita di una donna comunista, compagna di vita e di
lotte di Pietro Ingrao. Un dialogo postumo, fra due generazioni di donne
che hanno tentato un cammino di libertà per se stesse e per gli altri.
Laura e Pietro storia d’amore e di politica
Il primo bacio, Roma occupata la Liberazione A un anno dalla morte di Pietro Ingrao vengono pubblicate le lettere inedite alla moglie
SIMONETTA FIORI Repubblica 28 9 2016
All’inizio fu solo per finta. Dovevano fare i fidanzati per motivi di cospirazione, scambiarsi informazioni e documenti al cinema o ai concerti. Così aveva deciso il gruppo dei comunisti romani, nato nel soggiorno di casa grazie ad amici e fratelli. E così Pietro Ingrao e Laura Lombardo Radice fecero il loro ingresso nella storia della lotta antifascista ma anche in quella non meno importante del loro romanzo d’amore. Gli esordi non furono tra i più morbidi, come niente era facile in quello spicchio finale degli anni Trenta. Il giovane rivoluzionario ciociaro aveva preso sul serio la sua parte e una sera nella cornice di Massenzio si spinge ad allungare una carezza goffa su Laura, brillante figlia del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. «Un misto di grazia femminile e rigore interiore», avrebbe raccontato lui. Ma forse non era il momento giusto, o forse era un gesto troppo azzardato anche in tempi di cospirazione. Fatto sta che Laura gli mollò un sonoro ceffone e per un bel po’ non se ne parlò più. Ne avrebbero riso
per i successivi 70 anni.
Ci sono donne che hanno seminato la loro intelligenza, cultura, sapienza nelle pieghe nascoste della storia grande, a scuola e nelle sezioni di partito, nelle battaglie civili e all’interno di famiglie numerose dove nutrire intellettualmente molti figli e un marito inquieto. Donne che non hanno cercato la luce dei riflettori pubblici, al contrario se ne sono tenute distanti, consapevoli delle insidie e anche degli aspetti ridicoli della fama. Laura Lombardo Radice è stata una di loro. Partigiana, professoressa, volontaria a Rebibbia, madre di cinque figli e moglie di Pietro Ingrao: proiettata sul mondo, ma estranea a qualsiasi ambizione di carriera politica. E bene ha fatto la figlia Chiara Ingrao a dedicarle un’originale biografia, Soltanto una vita, ora riproposta con dieci lettere inedite di Pietro. E certo avrebbe fatto piacere a Ingrao essere ricordato — a un anno dalla scomparsa — proprio attraverso il ritratto di Laura, del loro amore longevo, di quella trama sentimentale e politica che traspare dalla corrispondenza giovanile, matrice e incunabolo etico della successiva storia pubblica.
Fu un amore clandestino, quello di Laura e Pietro, coltivato all’ombra della lotta antifascista. L’inizio vero è nel Natale del 1942 quando lui ventisettenne è costretto a scappare da Roma e lei che è più grande di due anni lo accompagna di notte al cancello di casa. «Avvicinò il suo volto al mio e ci baciammo. E per me mai saluto fu più struggente », scriverà Pietro. «Un dono impossibile d’amore nel distacco », una promessa di felicità che cercheranno di alimentare faticosamente nei mesi successivi. Ma le parole talvolta non bastano. «Scriverti lettere d’amore non saprò mai», annota Laura nel settembre del 1943, in una missiva forse mai mandata. Ha bisogno di intimità, del silenzio insieme a Pietro. «Ho bisogno che la tua mano cancelli ogni memoria di dolore». Lui cerca una tonalità più “catechistica”, da “cospiratore vissuto”: ma poi crolla dinnanzi al «vuoto dell’assenza e della lontananza».
Il carteggio non è solo lo specchio d’una tempesta emotiva, ma anche di uno sguardo partecipe che entrambi non avrebbero mai abbandonato. Nel primavera del 1944 Laura partecipa con le donne del quartiere Trionfale all’assalto ai forni. Ed è al fianco di Teresa Gullace quando viene colpita a morte dai tedeschi mentre insegue il marito appena catturato: dall’episodio Rossellini avrebbe tratto la scena di Roma città aperta con la Magnani.
La Liberazione di Roma rappresenta per Laura e Pietro anche una liberazione sentimentale: il 24 giugno del 1944 si sposano in fretta e furia davanti a Mario Alicata. Senza chiesa, senza fiori, senza il vestito bello della festa: solo alcuni dolcetti in un bar del Campidoglio, poi il “viaggio di nozze” sulla circolare rossa. Ma in autunno lui deve già ripartire, vuole riprendere la divisa dell’esercito di Liberazione. A novembre è militare prima ad Avellino, più tardi in Toscana. E qui il carteggio diventa ancora più rivelatore del ruolo assunto da Laura, una fisionomia forte, dolcemente brusca, ancoraggio alla realtà in una tentazione diffusa di irrealtà. «Mia moglie che è una certa moglie», dice Pietro grato per il sostegno. Qualcuno ha scritto che senza Laura anche il rigore di Ingrao sarebbe stato diverso. Lui le riconoscerà sempre la capacità di cogliere «la complessità del vivere», la stessa che la induce a prendersi cura dei suoi “assassinetti” in carcere. E quando non potrà più soccorrere la fragilità altrui — a causa di una grave malattia — farà fatica ad accettare la propria. Per Pietro la mancanza di Laura nel 2003 è un dolore «assai aspro»: la «sua luminosità umana » spenta per sempre, ravvivata solo dai ricordi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Cerca di accettarmi più di quanto merito e comprati le viole che io non ti mando PIETRO INGRAO
Carissima, perché dovrei essere indulgente con le tue parole? (…) È possibile rileggere le tue righe e sorridere. Certo sorridere a immaginarti nelle faccende quotidiane di cui parli: rammendare, spolverare ecc. Chissà perché mi piace tanto vederti impegnata in queste noiose storie quotidiane. E sorridere anche di quell’aria un po’ più seria che hanno quei volumi di storia che vorresti leggere. Bisognerà che tu mi permetta anche questo secondo sorriso. Bisognerà che tu lasci al mio amor proprio di uomo, o di “cospiratore vissuto”, se vuoi, quel tantino di superiorità catechistica, che mi permetta di ammiccare alla faccia impegnata di questa giovane compagna novellina! Al diavolo la soggezione, però. Carissima, io voglio la tua intimità. Divento furioso, anzi: di una calma schernevole dinanzi a quelli che si lasciano imbrogliare dalla mia faccia seria (tutti che mi vedono, mi parlano della mia faccia sempre seria). Mi viene la stessa voglia spavalda e sacrilega che prende te di fronte a certe impeccabili moralità. Mi conosco troppo bene. Carissima, voglio che tu ami la mia umanità, nel suo problematico svolgersi e nella sua volontà di andare avanti. Se sono indulgente quindi con le tue parole? Ma le amo, anche quando ne sorrido. E se ne sorrido è perché le amo.
Voglio la tua intimità. E per questo diffido della lontananza, della lontananza che impedisce di vedersi, di toccarci con la mano, di toccarci con gli occhi allusivi, di mangiare insieme e di sorridere insieme, della lontananza che crea forse uno schermo troppo solenne al nostro bisogno così elementare. E diffido della lontananza perché tropo stupendo è quell’alone di possibilità di cui parli (…) E non mi basta che tu dica che io sono al centro di te, come da sempre. È scritto, è solo scritto. Non posso toccarlo, sentirlo, ricomporlo in te nella tua persona, nei tuoi occhi, nelle tue mani, nel tuo starmi vicino. Gli altri ti vedono e sentono, io no. (…) Il mio egoismo è davvero riprovevole. Come farai, mia cara, con questa sorta di ladro nascosto che vuole rubarti chissà quanto e non sa prometterti niente? E bada che non è un molto di buono. Forse tu potrai amare solo un carattere. Un carattere, mia cara, che ha bisogno di te e del tuo amore. Ti stringo forte. Affettuosamente
20 settembre 1943 ( dalla clandestinità ndr) ***
Carissima, finalmente la possibilità di scriverti una lettera più pacata. (…) Come vanno le mie cose? Un po’ meglio: il freddo cane del primo giorno è passato, la neve si è sciolta ed è rimasto solo il fango(…) Aspetto tanto una tua lettera, aspetto dei giornali, aspetto che tu mi scriva di te e di tante cose. Sarà un modo per riprendere qui quei bei discorsi delle nostre serate che allora sembravano nulla e che pure ora mi appaiono così equilibratori, così riposanti e tante altre cose: è un complimento per la moglie? (...) Abbiti cura e stai tranquilla. Sono di pelle dura e pensa certamente che io esagero nello scriverti. Consolati pensando che la moglie — lontana! — diventa una cosa cara, molto cara. Specie mia moglie, che è una certa moglie. Ti abbraccio forte, una due tre volte e se non ti dispiace ti passo la guancia da baciare — come usava la sera a Roma.
2 febbraio 1945 ( dalla provincia di Avellino )
***
Carissima, sono solo in camerata. Malinconia ninfa gentile… Oggi compio trent’anni. Vorrei che tu capissi bene come questa malinconia è serena: non mi dà pena. E vorrei che tu capissi che non è solo la lontananza di Pasqua e il peso della vita militare. E’ il peso delle cose che non riesco a esprimere ed è questo comunicare che mi manca e lascia morire tanta della mia vita. Fossi pittore dipingerei questa campagna, questi alberi, quelle viole. C’erano degli alberi dai lunghi rami dritti fioriti di giallo, di cui non so il nome. Maledetta la cultura umanistica.
Domani di nuovo la polvere e il sole sul carro e lo sforzo per imparare cose a cui non sono tagliato: passare dalla prima alla seconda, girare il carro, premere la frizione, accelerare e passare in terza. Faremo la guerra? Chissà. Cerca di volermi bene, più di quello che merito: più, molto di più di quello che te ne voglio io. E comprati le viole, che io non ti mando. Saluta e fa gli auguri a tutti.
30 marzo 1945 ( dalla provincia di Avellino)
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