lunedì 7 novembre 2016

Liberaci da Bersani e Vendola e poi vai al diavolo il 4 dicembre

Nocive abitudini osssequiose a sinistra

Spesso tendiamo a sopravvalutare quegli interlocutori che detengono una posizione d'autorità di qualsiasi tipo. Per abitudine, ossequio delle istituzioni, affetto, condivisione personale o per qualunque altro motivo, tendiamo a caricare sulle loro spalle scrupoli e sensi di colpa che sono solo nostri.
Ad esempio, nell'aria pensosa e sofferta da flagellante con il cilicio con la quale Cuperlo fa mostra di sacrificarsi in nome dell'unità del suo partito - partito nel quale individua tuttora il fulcro del destino politico e sociale del paese, in virtù di una filosofia della storia che non ha ancora fatto i conti con la realtà ed è divenuta surrealismo puro - qualcuno potrebbe vedere il carico delle gravose responsabilità nazionali che una lunga tradizione politica gli assegna. Oppure le conseguenze di un carattere schivo che può apparire moderato a chi guarda con gli occhi del fanatismo.
Invece non è affatto così.
Per lui, come su un piano diverso per il sen. prof. Mario Tronti , Spirito Prono - un altro che pare ci faccia il favore di votare Sì perché in tal modo pone un freno all'Apocalisse che inghiottirebbe tutti noi incapaci di intendere e volere -, le cose stanno in maniera assai diversa: sono semplicemente due cretini.
Hanno letto tanto, anche se molto molto meno di quanto millantano, ma hanno capito poco. Né le cose cambiano se il soggetto in questione ha una folta barba ancora in gran parte nera [SGA].



IL CAPOLINEA DELLA SINISTRA 

MASSIMO GIANNINI Rep
LA SETTIMA Leopolda renziana è il capolinea della sinistra italiana. Quel poco che era rimasto della vecchia “ditta” riformista attraversa la sua ultima stazione, dalla quale non uscirà più, o potrà uscire solo a pezzi.
SEGUE A PAGINA 23
COLPISCE l’asprezza dei toni con i quali Renzi ha regolato i suoi conti con la “minoranza” del partito, e ha lasciato che il suo popolo leopoldino gli urlasse “fuori, fuori”. Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa. Ma c’è del metodo, in questa scelta renziana. Per almeno due buona ragioni.
La prima ragione riguarda il marketing. A un mese dal referendum che lo vede in svantaggio, il premier ha fatto esattamente quello che doveva fare. Con l’ennesimo testacoda, ha ri-personalizzato la campagna elettorale. L’ha definitivamente svuotata di ragionamenti “tecnici”, e l’ha nuovamente riempita di argomenti ideologici. La posta in gioco, il 4 dicembre, non è quindi la Costituzione riformata e l’Italicum, ma torna ad essere il premier e il suo governo.
Renzi aveva riconosciuto il suo errore iniziale: il voto sulla riforma costituzionale costruita come un’ordalia su se stesso. Aveva tentato di tornare a parlare del “merito”: discutiamo solo di Senato delle autonomie, di navette parlamentari, di leggi a data certa. Un compito arduo, un esito incerto. Perché questa riforma è un compromesso complicato e pasticciato, difficile da “vendere” bene agli italiani confusi (se non ai prezzi di saldo del populismo, cioè con la promessa che serve a “mandare a casa i politici” e a far pagare il conto alla “casta”). Con la “prosa” del tecnicismo costituzionale il Sì non recupera i “clienti” perduti. Puo farlo solo attraverso la “poesia” del leaderismo emozionale. Solo così puoi vincere. È la lezione di Christian Salmon, inventore dello storytelling in politica: «Votare è comprare una storia».
Dunque, si torna alla casella di partenza. La storia che Renzi rivende dalla Leopolda torna a raccontare il referendum del 4 dicembre come un “derby tra la rabbia e la speranza”. Come la “guerra dei mondi”: il vecchio contro il nuovo. Dove il nuovo è ovviamente lui medesimo, garante unico del cambiamento, macchinista di “un treno che passa ora o non ripasserà mai più”. E dove il vecchio, illividito di rabbia, non è tanto incarnato dagli avversari naturali della sinistra, cioè i Berlusconi e i Grillo. Ma è costituito soprattutto dalla sinistra stessa, cioè i Bersani e i D’Alema.
È contro questa sinistra, che Renzi consuma il suo strappo finale. Lo fa con una mossa di grande astuzia. Il compromesso sulle modifiche alle legge elettorale, firmato anche da Cuperlo, è poco più che una “scrittura privata”, che rinvia tutto a dopo il voto. Ma in quel pezzo di carta c’è tutto quello che la minoranza Pd aveva chiesto: l’eliminazione del ballottaggio, il premio di coalizione, il ritorno ai collegi uninominali, perfino l’elezione diretta dei nuovi senatori. Renzi, firmando quella carta, paga un prezzo altissimo alla coerenza (ha sempre definito l’Italicum «una bellissima legge che tutta l’Europa ci invidia»). Ma Bersani, negando ancora una volta la sua firma, stavolta rischia di pagarne uno ancora più alto (se accetti di partecipare alla commissione, e in quella sede accolgono tutto quello che hai chiesto, come fai a rifiutare? Puoi dire che non ti fidi di Renzi, ma allora ha ragione lui a sostenere che il tuo “movente” non è il no alla riforma, ma il no alla sua leadership).
Ma lo fa anche con un attacco definitivo contro «quelli che 18 anni fa decretarono la fine dell’Ulivo, e ora stanno provando a decretare la fine del Pd». E qui sta la seconda ragione, per la quale l’attacco di Renzi alla “ditta” non deve stupire. Una ragione che riguarda la politica. La settima Leopolda riflette la compiuta metamorfosi del Pd in PdR, il Partito di Renzi, per usare la formula di Ilvo Diamanti. Un partito che può e deve fare a meno di “quella sinistra”, ormai vissuta e costruita come nemico. Perché è ormai chiaro che il blocco sociale da aggredire, per il partito renziano trasformato in struttura servente del leader, è quello moderato e tuttora “congelato” dopo la diaspora berlusconiana.
Vale per il referendum di dicembre (secondo i sondaggi che Alessandra Ghisleri ha mostrato al Cavaliere, il 25% di italiani indecisi sarebbe attualmente diviso tra un 60% di No e un 40% di Sì, e dunque è su quel 60% che Renzi deve tentare un recupero). Ma vale anche per il dopo (come ha riconosciuto ieri Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore, se vincessero i Sì l’unico sbocco possibile di un Italicum riscritto secondo il compromesso appena varato sarebbe “una coalizione con Forza Italia e/o Area Popolare”).
Nella narrazione renziana, nulla si salva prima del 2014. “Quelli che c’erano prima” hanno sfasciato il Paese e il partito. Per questo devono obbedire o scomparire. Si torna così dove tutto era cominciato: la rottamazione come “rivoluzione”. È evidente che la sinistra ha fallito. Il problema è che, dopo aver ucciso la “vecchia”, nessuna Leopolda ci ha ancora spiegato quale sia, e soprattutto se debba esistere, una “nuova” sinistra.
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Atto finale, Renzi contro Bersani E la platea urla: “Fuori! Fuori!” 
La Leopolda si chiude con l’affondo della folla renziana contro la minoranza L’attacco a D’Alema: “Chi fece morire l’Ulivo adesso vuole la fine del Pd” 

Francesca Schianchi Busiarda
Un primo assaggio della reazione «leopoldina» all’attacco furibondo alla vecchia guardia c’era stato già sabato, quando, alla comparsa di D’Alema sul maxischermo, dalla grande navata della ex Stazione Leopolda si sono alzati i fischi. Ieri poi, alla chiusura della settima edizione della kermesse, nell’ora di intervento che Matteo Renzi ha dedicato a motivare i suoi per l’ultimo mese di campagna elettorale, la posizione del suo pubblico più caldo e affezionato è stata chiara da subito: standing ovation agli attacchi a Bersani e D’Alema dal palco, con tanto di cori «fuori-fuori». Una scissione sentimentale (per ora), un divorzio di fatto tra due anime del partito che non si sono mai amate e che col referendum rischiano una rottura definitiva.
Sanders ha perso in America le primarie e ora sostiene Hillary, è il ragionamento di Renzi: «Andrebbe spiegato ai teorici della ditta quando ci sono loro e dell’anarchia quando ci sono gli altri», affonda contro Bersani e co. Qui più capo corrente che segretario, va all’assalto degli «stessi che 18 anni fa decretarono la fine dell’Ulivo perché non comandavano loro, e ora provano a decretare la fine del Pd», e il pubblico lo segue convinto, urla, fischia, batte le mani. Una platea gremita, tanti iscritti al Pd ma anche tanti no, come è sempre stato alla Leopolda, dove non a caso non ha mai fatto ingresso il simbolo del partito. Tanti ragazzi, tanti over 50, chi in politica da tempo chi agli esordi, curiosi e appassionati di Renzi: «Sono i nostri falchi – sorride un renziano della prima ora – gli stessi che, quattro anni fa, quando Matteo perse le primarie contro Bersani, chiedevano di fare un altro partito».
L’avanguardia di strettissima osservanza, insomma, anziani che si sentono traditi dalle scelte di D’Alema e Bersani, e giovani ispirati dalla rottamazione, e «se oggi 30-40enni guidano città e aziende è perché qui qualche inguaribile sognatore ha rifiutato la logica del “ciccio, rispetta le fila”», li solletica il premier-segretario. Da loro, ora, vuole mobilitazione, 28 giorni a lottare voto su voto, «non urlate, votate, andate a prendere le persone», reagisce ai loro battimani, «fate nuovi comitati», li striglia, perché sa che anche nel suo mondo, chiusi i battenti della tre giorni fiorentina, il bicameralismo paritario non scalda i cuori. 
E se il referendum è un tema molto tecnico da comunicare, Renzi sceglie un’altra chiave per galvanizzare la platea. Salito sul palco dopo un breve black out carico di letture scaramantiche («un castigo divino», scherza) spinge ancora una volta sul noi e loro, i giovani e i vecchi, l’innovazione e l’usato non sicuro, «la classe dirigente che ha già fallito» e che sta difendendo «la possibilità di tornare al potere». Un derby tra «rabbia e proposta, tra nostalgia e domani». Accenna appena agli scontri di sabato («quando si prende un cartello stradale per usarlo contro i poliziotti non si sta difendendo la Costituzione»), ma sa bene che quello è un isolato incidente che non rappresenta il fronte del no. Uno schieramento il cui punto debole è l’eterogeneità, e lui lì cerca di incunearsi. Tratteggiando una sorta di «Pantheon dei cattivi, dei nemici», come lo definisce chi conosce bene Renzi: «il leone da tastiera» Travaglio che quando lo incontri in tv «non riesce nemmeno a guardarti negli occhi» (applausi); Silvio Berlusconi che paventa il rischio «dell’uomo solo al comando» (risa); Beppe Grillo che «non ha letto la riforma, allora se l’è fatta spiegare da Di Maio, che però non l’ha capita» (applausi). E ancora De Mita, Salvini, Calderoli. E poi loro, forse i più cattivi di tutti, nella narrazione renziana condivisa dal pubblico, perché messi in relazione col fallimento dell’Ulivo, la minoranza che voterà no con l’eccezione di Cuperlo (non citato per non metterlo in difficoltà col suo mondo). Uno più degli altri, Massimo D’Alema. «Dice che la riforma loro l’avrebbero fatta meglio. Allora perché non l’hanno fatta?». L’ovazione della platea si confonde col rumore del diluvio fuori. 
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Su Cuperlo la rabbia social riecco l’accusa “traditore” 

Massimiliano Panarari  Busiarda
Così come da copione la furia dei social si è abbattuta sul gentile e mitteleuropeo intellettuale prestato alla politica Gianni Cuperlo. Un effetto dell’inarrestabile muscolarizzazione e maleducazione che imperversa in rete tra i leoni e gli avvoltoi «da tastiera», certamente, ma anche qualcosa che viene da più lontano, e sta scritto nel dna stesso della sinistra (italiana e internazionale). L’epiteto che si è sprecato a proposito di Cuperlo, «reo» di avere firmato il documento di accordo sulla riforma dell’Italicum, è infatti quello infamante di «traditore»; e l’accusa di tradimento rappresenta un elemento di lunga durata della storia delle sinistre, dove tertium non datur, ragion per cui posizioni intermedie (e meditate) vengono pavlovianamente associate alla figura del voltagabbana. Non per nulla, nei giorni scorsi, Pierluigi Bersani – che con i suoi aveva ripetutamente votato a favore della riforma costituzionale – ha messo le mani avanti dicendo di non essere un «traditore» del Pd (che vorrebbe riconvertire col No al referendum nella versione, a lui più congeniale, della «ditta»).

Oggi antirenziani e renziani si imputano reciprocamente di venire meno ai patti, ma si tratta soltanto dell’ultima puntata di una saga eterna. In Italia a sconfessarsi reciprocamente, prima e durante il crollo del Muro di Berlino, erano comunisti, socialisti e socialdemocratici; nel Secolo breve a darsi la croce addosso come traditori del movimento operaio furono socialisti massimalisti e riformisti e, risalendo ancora per li rami, anarchici e marxisti. Del resto, anche la celebre massima novecentesca del radicale francese René Renoult «Pas d’ennemi à gauche» («mai avere nemici a sinistra») lo testimonia, sottolineando i pericoli e la virulenza degli attacchi che possono venire da qualcuno che, alla propria sinistra, ti considera un potenziale traditore che si è spostato dalla casa madre originaria. Ovvero dalla condizione della purezza ideologica: e l’allontanamento da essa, nella storia delle sinistre mondiali, non corrisponde a un puro e «semplice» cambiamento di opinione, ma direttamente al passaggio all’apostasia. Si diventa così rinnegati e traditori; e le vicende dei dissidenti (considerati alla stregua di autentici eretici) del Pci – da Ignazio Silone ai «Magnacucchi» – risultano da questo punto di vista esemplari.
La sinistra ha una tradizione di altissima litigiosità interna proprio perché le sue ideologie sono state fondamentalmente delle versioni immanenti e mondane di una religione della salvezza; e i suoi eredi attuali hanno vissuto la secolarizzazione completa e la fine di tali ideologie, ma non hanno perduto certi vizi. Come quello, appunto, di scagliarsi addosso anatemi e scomuniche: l’accusa di tradimento, insieme all’estremismo, la si può pertanto considerare una malattia infantile del postcomunismo (tanto per parafrasare Lenin, ossessionato dal «traditore e rinnegato» Karl Kautsky).
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Renzi: alt a governicchi E la Leopolda si scatena “Fuori la minoranza pd” 
Dal raduno di Firenze coro contro D’Alema e Bersani Il leader: hanno ucciso l’Ulivo, ci riprovano con noi

ALESSANDRA LONGO Rep 7 11 2016
FIRENZE. Migliaia di militanti del Pd che, a sentir solo nominare la minoranza del proprio partito, rumoreggiano, sbandano, urlano: “Fuori! Fuori!”. Non era mai successo in una forma così netta. Il popolo della Leopolda si separa con rabbia dal vecchio gruppo dirigente. Matteo Renzi parla alla pancia della sua gente: «Gli stessi che decretarono la fine dell’Ulivo 18 anni fa, stanno provando ora a distruggere il Pd. Hanno perso il congresso e ora usano il referendum come strumento per giocarsi la partita della rivincita». Dalle volte antiche della Leopolda arriva il boato, l’onda d’urto di un rancore che ormai non si ferma più: «Fuori! Fuori! Caccia Bersani!». Lui, forte del sì di Gianni Cuperlo, che ha provocato una ulteriore frattura in quel che resta della minoranza, non fa nulla per trattenerli. E avverte come la pensa sul dopo: «Il 2017 è l’anno della svolta, del G7 a Taormina, non di governicchi tecnicicchi». Insomma: se dovesse prevalere il fronte del No, non accetterò paludi.
Maria Elena Boschi, il giorno prima aveva invitato la platea a non fischiare Massimo D’Alema. Renzi, invece, lascia, eccome, che i suoi si sfoghino: «D’Alema dice che lui avrebbe fatto meglio la riforma, che questa è sbagliata…Ma perché non l’ha fatta lui allora? Hanno avuto 34 anni, non hanno combinato niente, e ora che la faccio io dicono che è un po’ frettolosa! Ma pensate davvero che gliene importi dell’articolo 70? Quelli che votano No vogliono solo tornare al potere e agli antichi privilegi».
Buh dalla platea. E’ finita. La famiglia, se mai c’era ancora, non c’è più. La Leopolda Pd fa pollice verso ai compagni della minoranza Pd, ancora dentro ma ormai scaricati, abbandonati al loro destino di “mummie” , espressione usata da Massimo Recalcati, sul palco prima di Renzi.
A Firenze salta, oltre la luce per un violento temporale, proprio quando deve parlare il leader (“Un castigo divino”) anche lo standard minimo dei rapporti. Pier Luigi Bersani, che oggi sarà in Sicilia a un’iniziativa del No, affida ai suoi la sua linea di resistenza: per mandarlo via devono andare a «prenderlo con l’esercito». Questo è «un derby», dice il premier, tirando la volata al Sì e galvanizzando le truppe, in prima fila la moglie Agnese, lo squadrone al femminile di Pinotti, Boschi, Serracchiani, Moretti. Un derby «tra cinismo e speranza, tra nostalgia e domani, tra rabbia e proposta ». Non due Italie, ma due «gruppi dirigenti diversi». I vecchi che «hanno fallito e, se vincesse il fronte del No, fallirebbero ancora, perché non riuscirebbero ad avere una sola idea in comune» e i nuovi, quelli del Pd della Leopolda, «dotati di un progetto, di un orizzonte». Renzi ne ha abbastanza della minoranza: «Sono teorici della ditta solo quando ci sono loro e dell’anarchia quando ci sono gli altri». Non è il “che fai, mi cacci?” di Fini con Berlusconi, è una frattura che separa la base del partito che ancora pochi giorni fa, a Piazza del Popolo, sperava in un’impossibile “unità”.
Solo rapide citazioni per gli altri sponsor del No. Ironie su Di Maio che confonde Cile con Venezuela, e su Berlusconi che adesso si preoccupa, proprio lui, «dell’uomo solo al comando». Ma il vero bersaglio è interno, la spina nel fianco sono Bersani, D’Alema e gli altri che non fanno come gli americani, molto citati dal premier, fresco di Washington: «Guardate Bernie Sanders. Adesso fa campagna elettorale per Hillary non per Trump». Nel Pd non è così, senza troppo andare a ricostruire su come è cominciata. «Quelli che hanno perso il congresso vogliono la rivincita ma noi non ve lo consentiremo perché il futuro non è vostro ma dei nostri figli!», tuona Renzi, chiamando l’ennesima standing ovation. Doveva togliersi «i sassolini», l’aveva detto e così ha fatto.
E la «paura fottuta di perdere» confessata da Oscar Farinetti, che invita i leopoldini a «diventare più simpatici»? No, nessuna paura, giura Renzi: «Sono sicuro di vincere ». Poi in serata, intervistato da Giovanni Minoli su La7, la previsione che «finirà sul filo di un milione di voti».
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Bersani
Amedeo La Mattina  Busiarda

«Adesso tutto è chiaro. Non consentiremo a Renzi di imbrogliare le carte come fa di solito con il giochino del divide et impera. Ci sono i Democratici per il Sì e i Democratici per il No. Non faremo comitati, andremo dove ci invitano a parlare, senza astio, senza dividere il mondo tra il bene e il male. C’è un solo partito ed idee diverse, tutte con la stessa legittimità. Alla Leopolda possono gridare “fuori fuori” fino a sgolarsi : una pagliacciata che dimostra che in quel posto non c’è cultura politica. Mi ha colpito che nessuno dal palco abbia sedato quei cori da operetta. Il Pd è casa mia. Non toglierò il disturbo. Quindi stiano calmi e sereni». Pier Luigi Bersani ha trascorso il fine settimana a casa sua. Ha seguito l’appuntamento della Leopolda come quella di una «fazione» che vuole espellere chi non si adegua al pensiero unico renziano. Ha vissuto con profonda amarezza lo strappo di Cuperlo che ha firmato il documento sulla riforma elettorale. Non era questo il mandato che aveva ricevuto dalla sinistra dem. 
Roberto Speranza glielo aveva ricordato quando si è trovato sul telefonino la foto del documento inviata da Gianni per Whatsapp. «Ti rendi conto che questa paginetta è ridicola», ha osservato l’ex capogruppo del Pd che si era dimesso proprio a causa dell’Italicum. I bersaniani volevano che quella «paginetta fumosa» venisse trasformata in un disegno di legge con la firma in calce del ministro delle Riforma Maria Elena Boschi. E che il governo mettesse la fiducia, come aveva fatto per ben tre volte con l’Italicum. E invece nulla. Alla fine Cuperlo ha firmato, senza comunicare la sua decisione ai compagni che avrebbe dovuto rappresentare. 
Così, spente le luci della Leopolda, oggi il Pd si sveglia con la battaglia dei Democratici del Sì e dei Democratici del No. Una battaglia che vedrà stamattina Bersani a Palermo e nel pomeriggio a Ragusa e Siracusa. Sono tanti gli appuntamenti che lo attendono, anche oltre confine per convincere gli italiani all’estero. Il 14 novembre sarà in Germania, a Monaco. L’ex segretario dem vuole confrontarsi con chi sostiene il Sì, parlare nei circoli del partito. «Questa è casa nostra - dice Miguel Gotor - e ci stiamo in compagnia della Cgil, dell’Anpi, di Libera, di Libertà e Giustizia e tantissimi altri iscritti ed elettori del Pd. Il rischio scissione non esiste. Renzi appare ossessionato dalla minoranza del Pd e non capisco perché visto che ci considera irrilevanti. L’errore mortale che starebbe commettendo Renzi è quello di rappresentare il referendum come il voto fine del mondo. Come se fossimo davanti al baratro. Ma questo - osserva Gotor - indebolisce l’Italia, il sistema-Paese».
Nico Stumpo chiede a Renzi più serietà. «Faccia il premier e non l’arruffapopolo. Il documento sottoscritto da Cuperlo è una farsa. Noi non vogliamo distruggere il Pd e far cadere il governo. Vogliamo provare a cambiate l’Italicum attraverso la vittoria del No e poi vincere il congresso per tirare fuori il Pd dalla deriva neocentrista». 
Renzi fa balenare lo spettro del governo tecnico. Per i bersaniani si tratta di un bluff, uno dei suoi tanti bluff che denota la paura della sconfitta. Fiducia zero. Ormai non è più una questione politica. Si sono spezzati i rapporti personali. Sono in crisi pure quelli con Cuperlo che starebbe facendo il suo gioco. «Gianni pensa di fare la sinistra del renzismo», spiega Roberto Speranza, che vuole presidiare da solo tutta l’opposizione a Matteo.
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Renzi
Fabio Martini Busiarda
Alla Leopolda mancano pochi minuti all’atteso intervento finale di Matteo Renzi, tocca ai comprimari preparare l’atmosfera “giusta” per i cinquemila in platea e dunque viene data la parola ad una signora che si chiama Silvia Del Riccio, che inizia testualmente così: «Sono stata incaricata di leggervi una letterina, io sono soltanto una portavoce. “Mi chiamo Alice e, se tutto va bene, a gennaio del 2017 aprirò gli occhi al mondo. Ho chiesto il favore a mia mamma di prestarmi la voce: mamma, sono curiosissima di sapere cosa mi aspetta e dai racconti che riesco a captare da dentro, direi che le premesse ci sono tutte: ho sentito dire che, nascendo nel 2017, grazie alla manovra del governo”…». Mamma Silvia che parla per conto di Alice dei prodigi del governo va avanti ancora per qualche minuto con la sua letterina: gli applausi di cortesia della platea e un accenno di impazienza da parte di Matteo Renzi raccontano che l’ottimismo di maniera e la retorica della stagione d’oro del “renzismo” non “attaccano” più.
In vista del referendum del 4 dicembre, dopo due mesi di campagna elettorale battente da parte di Renzi, i sondaggi continuano a segnare “brutto stabile” e ieri il presidente del Consiglio ha iniziato a mettere in campo la “strategia della paura” che intende intensificare negli ultimi 10 giorni di campagna elettorale. Il quadro oramai si è stabilizzato: il Sì arranca e il No è costantemente in testa. Da settimane Renzi sta cercando la chiave giusta. Ha provato con una Finanziaria piena di segnali concreti per decine di milioni di italiani e il “barometro” non si è mosso. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha riservato alla famiglia Renzi una accoglienza regale e anche in questo caso il barometro è restato immobile. Subito dopo il terremoto il governo si è mosso tempestivamente sulla strada dell’emergenza e della ricostruzione, ma i sondaggi sono restati insensibili. E quanto al referendum, dopo l’azzardo di trasformarlo in un voto di fiducia, Renzi per un mese ha parlato del merito della riforma ma anche in questo caso senza risultati apprezzabili.
E’ ora di invertire la tendenza. Ecco perché Renzi, nel suo intervento finale alla Leopolda, ha provato il “reset”. Oltre ai consueti attacchi alla «compagine dei rancorosi», che garantiscono sempre autentiche ovazioni, il presidente del Consiglio ha iniziato a mettere in campo quella strategia del “dopo di me il diluvio”, che è programmata per la fase finale della campagna elettorale. Nei giorni scorsi i primi assaggi, col ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ha letto le manovre speculative sullo spread come un segnale di preoccupazione da parte dei mercati per la sorte del governo Renzi. E ieri il presidente del Consiglio ha evocato, in caso di vittoria del No, uno spettro: «Il nostro 2017 potrebbe essere un anno difficile ma meravigliosamente bello: l’anno della svolta per l’Italia e l’Europa, a partire dall’appuntamento del 25 marzo 2017 sui trattati Ue. A quel governo volete arrivarci con un’Italia delle idee o con un “governicchio tecnicicchio”? Con un’Italia che guarda all’Europa o una classe dirigente che non può che continuare a fallire?». Come dire: cari italiani, se vince il No, io mi tiro indietro e voi vi prendete un governo tecnico, sotto l’egida dei vecchi notabili. E per dare corpo a quella paura, intervistato da Giovanni Minoli a La7, Renzi ha detto: «Non mi preoccupa lo spread, anche in caso di vittoria del no, io non agito le bandierine. Certo se non fanno le riforme Italia è finita». 
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La sfida di Matteo se passa il No “Si vota, non mi farò rosolare” 
Per “spersonalizzare” il premier non dice più che si dimetterà se il referendum sarà bocciato. Ma la linea è “niente palude”. Al massimo un governo-ponte fino a maggio

TOMMASO CIRIACO Rep
FIRENZE.
«Si è capito che io vado avanti solo con il Sì? E che se perdo mi dimetto, perché non ho nessuna intenzione di restare a Palazzo Chigi per farmi rosolare da quelli là?». Backstage della Leopolda. Nel cuore di un privé improvvisato, Matteo Renzi detta la linea ai centurioni. La camicia bianca è zuppa di sudore, ma lo stringono comunque fin quasi a soffocarlo. Dal palco, il premier ha appena allargato il fossato che lo divide dalla Ditta, colpevole di manovrare per un «governicchio ». Ha avvicinato di un altro passo la scissione dei suoi nemici interni. Quanto a se stesso, è deciso a dimettersi in caso di sconfitta. Non può dirlo pubblicamente, perché ha deciso di “spersonalizzare” il 4 dicembre, ma mai accetterà di farsi «rosolare». Ed è questa, assicura, l’unica strada per garantire al Pd - e al renzismo - un futuro alle prossime politiche. Certo, potrebbero tentare di costringelo a un rapido “traghettamento” verso nuove elezioni. Ma lui potrebbe essere costretto a concedere al massimo un breve sostegno (fino a maggio) a un’altra soluzione - «alla Padoan» - e costruire proprio su questa “distanza” la campagna elettorale. Candidamente, lo conferma anche Guelfo Guelfi, amico del leader e renziano nel cda Rai: «Vedrete, se perde Matteo si farà da parte, riformerà l’esercito e ci porterà ad elezioni. È questa la nostra finale di Champions, non il referendum. Sì, certo, senza Bersani e i suoi. È quello che aspettiamo da sette Leopolde...».
I tempi sono duri, i toni adeguati al livello dello scontro. Abbracci agli amici e botte ai nemici. Quando incrocia l’attore Alessandro Preziosi, lo stringe a sé: «Il tuo intervento mi ha commosso, grazie». Al suo fianco, nell’edizione più delicata, c’è anche la moglie Agnese, mentre uno dei suoi figli fa addirittura i compiti nel retropalco. Sulla scena invece si battaglia. Aver conquistato Gianni Cuperlo alla causa è importante, spiega Renzi, perché avvicina un primo obiettivo: «Dimostrare che anche la minoranza più ragionevole del Pd è con noi. Ormai è chiaro che chi vota No sceglie un’altra strada». Per coprire anche il fianco sinistro, a dire il vero, il capo del governo investe molto anche nella “missione sindaci”. Il primo cittadino di Bari Antonio Decaro marca a uomo il collega di Cagliari, Massimo Zedda - «vieni con noi, entra nel Pd» - mentre proprio l’ex sindaco di Milano è vicino a sciogliere la riserva: «O entriamo nel Partito democratico - è la linea - o costruiamo un soggetto di sinistra che dialoga con Renzi».
Il secondo obiettivo di Renzi, più delicato, è tenere assieme i gruppi parlamentari. Non può permettersi di perdere il controllo del partito, in caso di crisi. «Non possiamo accettare la palude ». Gli volteranno le spalle i bersaniani, questo è certo. Non a caso ha bisogno di Dario Franceschini, presente ieri a Firenze. Sulla sua lealtà i renziani hanno rassicurato il leader, riferendo quanto andrebbe ripetendo in privato proprio il ministro: «Per me dopo Renzi c’è solo Renzi». Che prevalga il Sì o il No, resta un dettaglio di non poco conto: con che legge si tornerà a votare? «Se la riforma passa - assicura il capogruppo dem Ettore Rosato abbiamo già l’accordo per modificare l’Italicum. Anche i berlusconiani ci hanno fatto sapere di essere interessati a ragionare». E se invece prevalesse il No? «A quel punto vedo le urne».
Non tutti, a dire il vero, sono felici di archiviare l’attuale sistema elettorale: «Rinunciare al ballottaggio - ragiona Roberto Giachetti - sarebbe un suicidio. Vogliamo davvero suicidarci?». Giachetti comunque si adeguerà alla maggioranza, il problema è l’ostilità della falange del No. Non si tratta solo di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, ormai, in campo c’è anche il “fattore Emiliano”, schierato contro la riforma. E nelle ultime ore proprio il governatore, conversando con qualche amico che provava a “placarlo”, non ha celato ambizioni di leadership: «Non posso votarla. Lo so, con il No Renzi può cadere e perdere il controllo del partito. Ma tranquilli, nel caso servisse io sono a disposizione...». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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