lunedì 7 novembre 2016

Stasis nell'Impero




L’ultima sfida

Il capo del Federal Bureau Comey esclude incriminazioni per Clinton Alta oltre la norma la percentuale degli indecisi alla vigilia delle elezioni
Muro degli ispanici contro Trump Hillary sale nei sondaggi. L’Fbi l’assolve

FEDERICO RAMPINI Rep 7 11 2016
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK – I voti degli ispanici potrebbero salvare Hillary Clinton, in extremis, dopo la rimonta di Trump nei sondaggi. Ironia della sorte, la campagna elettorale americana ritorna alla casella di partenza: il tycoon newyorchese cominciò la sua improbabile ascesa promettendo il Muro contro l’immigrazione, ora gli immigrati potrebbero essere la sua nemesi storica. E dopo avere corteggiato i predicatori di odio e di violenza, Trump è stato al centro di un incidente: il Secret Service lo ha costretto alla fuga nel bel mezzo di un comizio.
FLORIDA DECISIVA
La storia si ripete? Nel 2000 George W. Bush andò alla Casa Bianca dopo contestazioni e ri-conteggi delle schede eletto- rali in Florida, un contenzioso che arrivò fino alla Corte suprema e tolse la vittoria al democratico Al Gore. La Florida torna ora a essere al centro dell’attenzione: negli ultimi giorni l’hanno attraversata in lungo e in largo non solo i due candidati ma anche Obama. La ragione: le simulazioni sul voto dicono che senza la Florida difficilmente Trump può vincere. Ma proprio in Florida il messaggio xenofobo di Trump ha provocato una mobilitazione senza precedenti tra gli ispanici. Tra chi ha votato in anticipo, il numero di ispanici è cresciuto del 99% rispetto al 2012. E un sondaggio della National Association of Latino Elected Officials indica che il 75% di loro vota per Hillary. Un tempo in Florida dominavano i cubani di estrema destra, anti-castristi, fedelissimi repubblicani. Oggi la geografia etnico- politica è cambiata. I cubani sono appena il 31% del totale, i portoricani sono il 27%, i messicani il 10%, seguiti da altre nazionalità latinoamericane. Queste ultime etnie, una volta ottenuta la cittadinanza e quindi il diritto di voto, scelgono il Partito democratico. Tra gli stessi cubani- americani le giovani generazioni apprezzano il disgelo dell’Amministrazione Obama con L’Avana. Per i democratici, in cui hanno visto assottigliarsi paurosamente il vantaggio di Hillary nei sondaggi, la “speranza latina” offre una schiarita alla vigilia del voto.
FBI, NUOVO DIETROFRONT
Abbiamo scherzato. Ultimo capitolo nella saga dell’Fbi, il convitato di pietra di questa campagna elettorale. Il capo della polizia federale, James Comey, dopo avere riaperto inopinatamente l’inchiesta sulle email di Hillary una settimana fa, ora annuncia: non ci sono elementi per incriminarla. Cioè la stessa conclusione che l’Fbi aveva raggiunto a luglio, quando la vicenda sembrava chiusa. Intanto però per una settimana l’attenzione dei media si è concentrata sull’ “email-gate”. E l’imparzialità dell’Fbi è stata messa in dubbio da più parti. Sul repubblicano Comey si addensano sospetti. In una campagna elettorale segnata da veleni, inciviltà, aggressioni, si è sfiorata la crisi istituzionale.
LO STATO DEI SONDAGGI
Il calo di Hillary sembra essersi fermato, la candidata democratica conserva un vantaggio modesto, di 2 o 3 punti a livello nazionale. Ma è tornato ad essere in bilico il New Hampshire, che nelle proiezioni dei sondaggisti era un tassello nella sua “barriera anti-incendio”, la sequenza di Stati sicuri, grazie ai quali la Clinton pensava di avere in tasca la vittoria. Il margine di Hillary essendo limitato, alcuni esperti come Nate Silver sottolineano che basta un errore dei sondaggi (stile Brexit) per creare la sorpresa e regalare una vittoria-shock a Trump. Tanto più che resta una percentuale anomala di elettori indecisi. A conferma di una campagna unica nella storia per la sua negatività: mai si erano affrontati due candidati così “sfiduciati” dagli elettori.
LO STATO DELLA DEMOCRAZIA USA
Questi 18 mesi (primarie incluse) lasciano in eredità interrogativi pesanti sulla salute della più antica e più potente fra le liberaldemocrazie. Il dibattito politico ha fatto a pezzi principi antichissimi e fondanti della repubblica americana: la legittimazione dell’avversario, il rispetto dello stato di diritto. Trump ha promesso di cacciare in galera Hillary se vincerà, come un qualsiasi dittatore. Vladimir Putin ha mostrato una rara efficacia con le sue interferenze nella lotta fra i due grandi partiti americani. Il dopo-elezioni non promette di essere migliore. Anche se vincesse Hillary, è probabile che almeno la Camera resti in mano ai repubblicani: i quali promettono di trasformarla in un tribunale permanente per “processare” la nuova presidente.
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L’accusa di Ford: “L’ascesa di Donald dimostra l’ignoranza del nostro elettorato” 
Per il romanziere il sistema politico non è riuscito a produrre candidature di livello

WILLIAM BOURTON Rep
IN quarant’anni Richard Ford ha costruito un’opera letteraria di una densità senza pari. Il solo ciclo di Frank Bascombe (da Sportswriter a Tutto potrebbe andare molto peggio) è una testimonianza di primaria importanza sul disincanto americano. Invitato alla Fiera del Libro di Bruxelles, a febbraio, Ford ci aveva confidato quanto fosse ormai importante, per lui, essere tradotto all’estero: una sorta di sospiro di sollievo mentre l’America per tanti versi lo faceva disperare.
Signor Ford, quando ci siamo incontrati all’inizio dell’anno ci ha spiegato che di questi tempi vivere in America è piuttosto doloroso… «Doloroso, sì, perché tra le altre cose che non funzionano nella nostra democrazia – le disparità economiche, lo scontro razziale, il malcontento dei cittadini, il sentimento anti-immigrati, la crisi del governo – il sistema politico è riuscito a produrre due candidati alla Casa Bianca che non sarebbero mai dovuti diventare presidenti, né l’uno né l’altra. L’idea che Hillary Clinton e Donald Trump possano affrontare i problemi che ho appena citato, e migliorare le cose, sembra davvero improbabile. Come cittadini americani ci si sente in trappola. E io sono tra quelli fortunati. Ho il mio libero arbitrio, non sono povero, sono vecchio. Altri, nella nostra repubblica, sono più letteralmente e più disperatamente intrappolati – dalla povertà, dalla scarsa istruzione, dalla mancanza di coscienza e dall’indifferenza ».
Come interpreta l’incredibile ascesa di Donald Trump?
«Innanzitutto l’ascesa di Trump è un segno dell’ignoranza e della frivolezza politica dell’elettorato. Ora, so che tanti cittadini svantaggiati sono arrabbiati, e con ragione, ma non tutti si schierano con Trump. Molti afroamericani sono arrabbiati e sostengono Hillary Clinton. Lo stesso vale per molti latinos. Di norma, non si può pensare di capire la situazione accontentandosi delle generalizzazioni. Eccetto una, questa: la candidatura di Trump è il segno della poca sensibilità politica dei nostri concittadini e del fatto che molti sono completamente disinteressati a costruirsela, quella coscienza. Più di ogni altra cosa, tra i sostenitori di Trump c’è la volontà di lasciare che il paese si sfasci (“ go to hell”), con il fantascientifico programma che, quando lo sfascio sarà totale, Trump potrà ricostruire qualcosa di meglio. Sono vaneggiamenti senza senso. Se dovesse capitare, non solo non ne usciremo più forti ma forse non ne usciremmo affatto».
Nel 2008, quando diventò presidente, Barack Obama suscitò molte speranze. Alcuni dicevano che avrebbe portato l’America a riconciliarsi con se stessa e con il resto del mondo… Otto anni dopo, lei che bilancio fa?
«Non mi sono mai illuso che Obama avrebbe fatto cose così grandiose. L’ho votato perché era intelligente, perché sembrava onesto, e perché la sua filosofia politica è in accordo con la mia. Ero anche entusiasta di poter votare per un afroamericano che, seppure allora non fosse particolarmente qualificato per guidare il paese, almeno prometteva di essere un buon presidente per tutti gli Americani. Ma non ho mai pensato che avrebbe fatto miracoli, come non lo pensava la maggior parte della gente che l’ha votato. Questa storia dei “miracoli” è solo una favola raccontata dalla stampa e da qualche idiota. Nessuno può arrivare alla presidenza americana – specialmente con un Congresso diviso e ostile – e mettersi a fare miracoli. Però, intanto, Obama ha fatto passare la riforma sanitaria, ha rafforzato l’applicazione dei diritti civili, ha affrontato le divisioni razziali – che durante la sua presidenza si sono accentuate ma non sono dilagate. Ha aiutato a crescere la sensibilità del paese nei confronti della violenza delle armi. Ha ottenuto successi sul fronte della tutela dell’ambiente. È stato onesto e si è rivelato un buon leader per noi tutti. Se poi abbia fatto “riconciliare l’America con il resto del mondo” non saprei. Non sono neanche sicuro di sapere cosa vuol dire. In ogni caso questo non sarebbe un risultato definitivo. Vorrebbe solamente dire che Obama è stato un mediatore attivo e onesto degli interessi americani in relazione con gli interessi delle altre nazioni – una situazione che non è mai statica ».
Frank Bascombe, personaggio apparso nell’86 in Sportswriter e di cui da trent’anni seguiamo l’evoluzione nelle sue opere, con il passare degli anni è sempre più disilluso e rassegnato. In questo riflette il suo personale stato d’animo di americano?
«Frank è un personaggio che non parla a mio nome ma parla di esperienze, sensazioni e idee alle quali mi interesso anch’io. Però spesso abbiamo delle divergenze d’opinione. Trovo più interessante che lui sia capace di inventarsi delle cose, invece di limitarsi a rappresentarmi. Quello che serve alla gente, più dei miei punti di vista, è un po’ di immaginazione per risolvere i problemi. I romanzi di fantasia servono per questo».
Gli scrittori hanno un ruolo nell’attuale contesto sociopolitico? Negli Stati Uniti li ascoltano?
«Gli scrittori sono liberi di assumere un ruolo pubblico, come sono liberi di non farlo. È proprio questa libertà a darci qualche credibilità. L’ortodossia e l’impegno in politica possono viziare la verità. Ciò detto negli Stati Uniti gli scrittori non sono ascoltati, come non lo sono gli esperti politici delle televisioni o gli opinionisti dei quotidiani. Gli Americani non si rivolgono tradizionalmente alla narrativa per affinare la loro visione politica o per informarsi nel merito, tuttavia esistono romanzi politici (anche io ne scrivo) e un numero relativamente ristretto di lettori che ne assorbe i messaggi e li prende sul serio. Ma, di nuovo, la libertà di scrittura è anche libertà di non scrivere, e di pensare quel che si vuole».
Copyright Le Soir / LENA, Leading European Newspaper Alliance ( traduzione di Elda Volterrani)
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Tra gli operai dell’Iowa portati al voto da Trump in nome della paura 
proprio in questa fascia d’America poco istruita e impoverita che The Donald gioca le sue carte per battere Clinton
RAFFAELLA MENICHINI Rep DALLA NOSTRA INVIATA DES MOINES.
La fotografia dell’America spaccata in due è una strada lunga e dritta che da Des Moines porta a Sioux City. Lasci la città ed è subito un susseguirsi di fattorie e piccole case con i giardini ben curati, disseminati di cartelli per Donald Trump e bandiere a stelle e strisce. A Sioux City, dove ieri il tycon ha infiammato la folla, la fila per vederlo era cominciata alle 3 del mattino. Folla all’80% bianca, mamme e bambini in maglietta rossa con sopra un fucile e la scritta: “
Make America safe again”,
una variante sullo slogan di Trump più virata sulla “sicurezza” che qui vuol dire armi ma anche — prima di tutto — lavoro. E poi cartelli antiaborto (“mamma avrebbe potuto morire, ha scelto la vita, ha scelto me”) e magliette con l’elenco degli “scandali” di Hillary o l’autoironico: “Volgari e disprezzabili per Trump”. A Sioux City sono in parata tutti i maggiorenti del Gop dell’Iowa, dal governatore Terry Brandstad alla prima (e unica) donna eletta dall’Iowa al Congresso, Joni Ernst: «Dobbiamo riparare all’errore del 2004-2008 con Obama, l’Iowa riporterà un repubblicano alla Casa Bianca». Prima ancora che Trump arrivi, la sala risuona di un «Usa, Usa» ritmato e assordante.
Il fortino di Hillary Clinton è qui, una striscia blu sulla cartina d’America: il Midwest operaio, colpito dalla crisi dell’industria manufatturiera, rischia di voltarle le spalle. E così nelle ultime ore di questa selvaggia campagna il gotha democratico si precipita in Michigan (oggi arrivano nell’ex patria dell’auto sia Obama che Bill e Hillary Clinton). Mentre Donald Trump ha dedicato l’ultima domenica a un tour de force tra l’Iowa — con un comizio nella sperduta Sioux City — il Minnesota, la Pennsylvania, per finire a sera tardi in Virginia. In agenda ha ancora il Wisconsin, e il Michigan. Un comportamento “erratico”, ironizzano i manager della campagna di Clinton. Ma è significativo che gli ultimi sforzi da entrambe le parti si stiano polarizzando in questa parte del Paese. «Hillary si precipita in Michigan, ma cosa ci va a fare? Dovrebbe andare a casa a riposarsi — l’ha schernita Trump a Denver — Il Michigan non è mai stato a rischio, ma ora lo è perché tutte le auto che si facevano lì ora si fanno in Messico».
È dagli anni 80 che dal Michigan al Wisconsin, al Minnesota, si vota per un presidente democratico. Ma ora quel blu comincia a impallidire, così come è scomparso come simbolo dell’industria che trainava qui l’economia e la sopravvivenza di milioni di famiglie: i colletti blu, gli operai, si sentono abbandonati dal sindacato e il partito democratico è diventato sinonimo di corruzione e di elitarismo a Washington. «Avremmo voluto Bernie Sanders a rappresentarci, ma ora l’alternativa è non votare o, per molti, mandare tutto all’aria e scegliere Trump», ci dice a Minneapolis Rose Heim, piccola imprenditrice. In casa sua, a Kelliher nel nord del Minnesota terra di cacciatori, non si può più parlare di politica. «Il livello di aggressività anche nelle famiglie è diventato insopportabile, semplicemente evitiamo di parlarne».
La fascinazione per Trump in uno Stato come l’Iowa ha molte facce: l’industria che chiude, il diritto a portare le armi, l’aborto, la paura degli immigrati latini. Tutte “emergenze” per questo Stato tradizionalmente “swing”. Gli ultimi sondaggi danno Trump in vantaggio qui di ben 7 punti (46% a 39%), anche se il voto anticipato è tutto in favore dei democratici. I dem lo danno per perduto, e secondo i calcoli degli analisti Trump non può non vincere l’Iowa: è la sua “porta stretta” per arrivare alla fatidica soglia dei 270 voti elettorali che lo porterebbero alla Casa Bianca.
In Iowa la spaccatura profonda che sta attraversando l’America è palpabile. Molto ha a che fare con il livello di istruzione. Se Trump può sperare di vincere l’Ohio o l’Iowa è perché il 72% della popolazione bianca adulta in questi Stati non ha una laurea. E il tycoon sembra destinato a portare alle urne proprio questa fetta di americani, normalmente inclini all’astensione.
Il gioco di Trump sulle paure e le ansie ha delle basi concrete. Il nemico si chiama Nafta, e ogni accordo di libero scambio in vista — di cui Clinton sarebbe (secondo la vulgata di Trump) sostenitrice.
In Iowa c’erano un quarto dei posti di lavoro dell’industria manufatturiera del Paese. Negli anni Duemila la catena delle ristrutturazioni è stata ininterrotta: Nel 2006, qui ha chiuso la Maytag (4000 posti di lavoro), poi nel 2011 è stata la volta dell’Electrolux (800 operai a casa), e infine l’antica fabbrica di bottoni Lansing, quest’anno, per citare solo le più grandi. Eppure la lista delle offerte di lavoro nel settore continua a crescere. Ma sono lavori iperspecializzati, nella robotica e nell’automazione — i settori che stanno cacciando gli operai fuori dal processo produttivo. La formazione, anche in questo caso, è la chiave. E l’ansia del maschio bianco adulto ha volti e storie in queste famiglie operaie.
Le cittadine dell’Iowa rurale si spopolano, e l’unica forza demografica trainante sono i latinos. È anche la paura di questi nuovi arrivi — irrazionale, perché stanno salvando l’economia — a spingere la ruota di Trump in Iowa. E poi c’è il mito del secondo emendamento, il diritto a portare le armi, molto sentito in Stati di cacciatori come l’Iowa o il Minnesota. Sui social media in queste ore sta crescendo una preoccupante ondata di appelli ad andare al seggio armati, seppur con le armi “nascoste” — come permette la legge qui. Trump del resto continua a gridare alle elezioni “truccate” e al pericolo di intimidazioni ai seggi.
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Il pesante fardello di Hillary 
Altro che «forza tranquilla». Nella migliore delle ipotesi, cioè una vittoria di misura su Trump, la presidenza Clinton si aprirebbe sotto il segno di un sistema politico che non regge più 

Fabrizio Tonello Manifesto 6.11.2016, 11:40 
Dieci giorni fa la «forza tranquilla» di Hillary Clinton sembrava aver definitivamente prevalso contro l’isteria di Trump. Il candidato dell’esperienza sembrava avviato a una facile vittoria contro quello del dilettantismo. La Clinton aveva il sostegno di numerosi repubblicani per una politica estera tradizionale (leggi: aggressiva) contro il ritorno a un’improbabile isolazionismo da «Fortezza America». Insomma, era il momento della seria, credibile, eleggibile Hillary Clinton contro l’inaffidabile, razzista, xenofobo Donald Trump. 
Dramma elisabettiano 
E poi sono arrivate le email. Non conta il fondatissimo sospetto che le notizie diffuse dal direttore dell’Fbi siano state manipolate a danno di Hillary: la calunnia a pochi giorni dal voto ha trasformato l’ultima settimana di questo incredibile anno elettorale in un dramma elisabettiano. Hillary con Bill Clinton al termione della convention democratica di Filadelfia (LaPresse) 
Ieri la prima pagina del New York Times aveva un’enorme foto di Hillary sorridente a fianco del titolo: «La disoccupazione al livello più basso dal 2008; salgono i salari, 161.000 nuovi posti di lavoro». Con notizie di questo tipo a 72 ore dall’apertura dei seggi (ma in molti stati si sta già votando) e con un presidente popolare la vittoria del candidato democratico avrebbe dovuto essere una passeggiata. E invece no. I sondaggi danno Clinton e Trump quasi in parità e addirittura si parla seriamente della possibilità che Hillary possa raccogliere più voti dei cittadini ma perda la presidenza a causa del barocco meccanismo del collegio elettorale, esattamente come accadde nel 2000 ad Al Gore. 
Crisi di sistema 
La conclusione da trarre è che non siamo di fronte a errori, beghe di corridoio o complotti per danneggiare la candidata democratica: siamo di fronte alla crisi complessiva di un sistema politico bipartitico. 
L’establishment del partito democratico era stato più abile di quello dei repubblicani presentando alle primarie un candidato unico (Clinton) invece che una dozzina di personaggi mediocri, facile preda dello squalo venuto dal nulla (Trump). Ma il partito democratico non era – non è – più in salute di quello repubblicano, malgrado il carisma e l’abilità di Obama che domani sarà a Filadelfia assieme alla moglie Michelle per la chiusura della campagna elettorale, un sostegno di cui Hillary in queste ore ha disperatamente bisogno. 
La Clinton è stata scelta perché rappresentava un po’ «l’usato sicuro», un candidato moderato e rassicurante contro il «socialista» Bernie Sanders. Quest’ultimo, però, offriva uno scopo al partito: rappresentare il 99% degli americani, mettere fine al dominio del denaro sulla politica; Hillary Clinton non può ovviamente darsi un programma del genere, qualunque cosa ci sia scritta nella piattaforma uscita dalla convention di Filadelfia. 
Scelte disastrose 
Hillary non è un candidato credibile per quanto riguarda la lotta contro la disuguaglianza: stava alla Casa Bianca con il marito Bill quando venivano attuate la deregulation bancaria, la creazione dei mutui subprime all’origine della crisi del 2008, le leggi che hanno portato in carcere tre milioni di americani: tutte scelte nel lungo periodo disastrose, tutte scelte avvenute fra il 1993 e il 2000. Gli americani non si fidano di lei, molti per ragioni sbagliate, altrettanti per ragioni assolutamente giuste. 
È un sistema oligarchico quello che – non da oggi – governa gli Stati Uniti ed è un palazzinaro miliardario che ne ha beneficiato spudoratamente, un demagogo truffaldino quello che si fa paladino della rivolta: Hillary, nel ruolo di cauto riformatore del sistema (quindi di suo difensore) ha una posizione assai scomoda. Talmente scomoda che il sostegno della tradizionale coalizione democratica – bianchi con educazione universitaria, donne non sposate, ispanici, afroamericani – potrebbe non essere sufficiente. 
Lo spettro di Nader 
Ora, naturalmente, l’apparato del partito ricorre a una ricetta consolidata e agita lo spettro della sconfitta del 2000, quando la candidatura di Ralph Nader con i verdi non superò il 3% dei voti, un risultato più che sufficiente, in un sistema brutalmente bipartitico, per consegnare la Casa Bianca a George W. Bush e chiede ai sostenitori di Bernie Sanders di votare per lei. «The Donald» con Melanie Trump all’apertura della convention repubblicana (foto LaPresse) 
Al solo guardare la faccia di Trump l’argomento farà certamente presa su molti giovani, ma non su tutti (i millennials sono i più scettici verso Hillary, con la sua reputazione di donna cinica e assetata di potere). E lo stesso accade tra gli afroamericani, che non andranno ai seggi con lo stesso entuasmo del 2008 e del 2012, quando avevano un «loro» candidato come portabandiera dei democratici. 
Hillary rimane ancora favorita ma si porta dietro un pesante fardello. Anche nella migliore delle ipotesi, quella di una sua vittoria di misura, i democratici con ogni probabilità non ritroveranno la maggioranza in Congresso e questo renderebbe impossibile qualsiasi riforma significativa. La sua presidenza si aprirebbe sotto il segno di un sistema politico che non regge più.

Elezioni Usa: Neodestra, nascita di una fazione
Stati uniti. La parabola del trumpismo, da Ronad a Donald, iniziando da Goldwater e Nixon passando per McCarthy, Gingrich, Buchanan... La traiettoria delle «brigate del rancore» create per ottenere il «governo minimo», cresciute come massa d’urto e ora sfuggite al controllo del partito repubblicano. Anzi, al controllo di chiunque
Luca Celada Manifesto  6
Come Brexit in Gran Bretagna, l’ascesa fulminea del trumpismo in America rappresenta il compimento di un riallineamento tellurico degli schieramenti nelle democrazie occidentali. La globalizzazione che ha fatto la fortuna delle oligarchie finanziarie e delle emergenti classi consumiste in Asia, ha decimato lavoratori e classi medie in occidente, rottamando con impressionante velocità tradizionali dinamiche ideologiche di classe a favore di politiche identitarie ed emozionali.
NEL GIRO DI 15 ANNI ad esempio la critica no global progressista, ha lasciato il posto al rigurgito xenofobo e nativista di ampi settori sociali esautorati dal sistema dei profitti, che in America come in Europa si sono aggregati attorno a movimenti populisti speculari. Trumpismo, leghismo, putinismo e l’assortimento di nazional-populismi europei hanno sostituito rivendicazioni sociali e ideologiche con un conato nichilista dai riflessi suprematisti e razzisti.
Ad un livello «psichico» profondo, la presenza di un uomo nero alla Casa bianca ha catalizzato antiche fobie, riportando allo scoperto odi occultati dalla patina di correttezza politica (non a caso proprio la lotta alla ‘correttezza’ è stata un cavallo di battaglia preferito del nuovo populismo americano come di quello europeo). Emancipato dalla «schiettezza» del capo, il popolo trumpista ha potuto riprendere la guerra (in)civile senza più preoccuparsi di dissimulare le pulsioni razziste in una dialettica presentabile.
IL TRUMPISMO ha abilmente strumentalizzato il risentimento per la perdita di potere d’acquisto e identità indirizzando le recriminazioni verso spauracchi esterni, oltre frontiera o oltremare. Come il leghismo ha metabolizzato il fallimento della globalizzazione neoliberista attraverso la recrudescenza populista e xenofoba, esattamente come in Europa. Due anni prima delle barricate di Gori i bravi cittadini californiani di Murrieta avevano organizzato posti di blocco e dato fuoco ai copertoni per per fermare i pullman di donne e bambini centroamericani diretti ai centri di accoglienza, col plauso di molti esponenti della destra repubblicana. L’occupazione di un rifugio ornitologcio da parte dei prodi armati del clan Bundy – trumpisti ante litteram – è stata l’equivalente del tanko dei serenissimi a piazza San Marco. Tutto, si capisce, nel nome della difesa della sovranità territoriale contro i «soprusi del governo centrale».
TUTTO CIÒ non si è sviluppato nel vuoto. Da trent’anni la guerra allo stato, per un governo minimo, è stato un caposaldo della retorica repubblicana, la dottrina di una destra in una lunga deriva integralista. L’escalation è iniziata con la campagna «insurrezionalista» di Barry Goldwater nel 1964 e continuata con Nixon, in seguito con le frange evangeliche attivate come forza politica da Reagan, e proseguita ancora con le culture wars di era Bush e neocon.
Un percorso che ha accentuato ad arte paranoia e manie complottiste per accrescere un’utile alienazione. Trump in questo ha avuto molti cattivi maestri, intanto Joe McCarthy, poi Pat Buchanan e Newt Gingrich, antesignano manipolatore quest’ultimo di rabbia populista, architetto della republican revolution del 1994 e fautore della mutazione genetica della politica in lotta senza quartiere.
La storia delle elezioni 2016 riguarda in gran parte come le frange coltivate da quel processo siano sfuggite al controllo del partito per diventare le brigate insorgenti di un leader in grado di esprimere catarticamente il rancore covato ed esacerbato da decenni di promesse non mantenute.
DIETRO LA CATARSI antipolitica di Trump ci sono insomma decenni di strumentale demagogia che da oggi i suoi frutti avvelenati – comprese le relazioni pericolose con neonazisti, suprematisti e alt right che non nascondono il proprio entusiasmo  per un paladino così affine alle proprie sensibilità.
Nella strategia della terra bruciata, la revolution di Gingrich ha divorato i propri figli deformi. La sistematica divisione seminata dalle «guerre culturali» (su moralità patriottismo, sesso, religione) hanno coltivato e abilitato pericolosi estremismi, una successione di frange dalla silent majority alla moral majority al tea party, galvanizzate dalle battaglie contro la modernità della società multiculturale americana.
PER ACCATTIVARSI gli integralisti teocon, la  destra è giunta a combattere Darwin e l’insegnamento dell’evoluzione e della scienza nelle scuole pubbliche, dando corda all’anti-intellettualismo di cui Trump è il perfetto erede. Il sistematico abbassamento del discorso al minimo comune denominatore, sbandierato come orgoglio anti–elitista, ha rappresentato, come altrove, una rincorsa verso il basso sfociata nella liberatoria retorica del «vaffa» in cui Trump, e tanti attuali populisti, eccellono.
II trumpismo esprime quindi il compimento di un fisiologico mutamento della politica. Parallelamente al declino del giornalismo, la saturazione internet e social ha inaugurato la dialettica post-fatti e post-realtà di cui questa campagna è la didascalica rappresentazione. Non è un caso che la campagna di Trump sia stata pilotata da Stephen Bannon, direttore dei siti Breitbart, i principali aggregatori online  della galassia  alt-right. Adattando al nuovo discorso reazionario linguaggi e strategie cooptate dalla controcultura e la ferocia senza mediazione del trollismo internet, la nuova destra ha scalzato perfino istituzioni che erano state il fondamento stesso del nuovo movimento conservatore, vedasi la potente Fox News, attaccata da Trump e improvvisamente nel mirino dei nuovi giacobini.
LA CAMPAGNA presidenziale del 2016 ha insomma dato la netta sensazione di una accelerazione della storia. Mentre il progetto europeo si infrange sulla crisi di sovranità e sull’emergenza umanitaria, il trumpismo promette di incrinare, forse  irrimediabilmente, il patto sociale americano retto su mobilità sociale e integrazione.
Il fatto che il bianco incazzato sia diventato lo strumento della demagogia populista, infine, non impedisce che sia effettivamente il soggetto politico del momento: orfano politico ed economico di una implacabile logica del profitto che lo relega al precariato. Queste elezioni in definitiva rappresentano il fallimento di quel sistema e quello collettivo di dargli una risposta costruttiva.
I lavoratori americani dimenticati dai democratici
Democratici e lavoro. Il partito democratico ha smesso da molto tempo di considerare i lavoratori la propria base elettorale, e ha contribuito a rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Barack Obama aveva promesso di eliminare alcune delle strettoie burocratiche che ostacolano la libera scelta di iscriversi al sindacato, ma una volta eletto se ne è dimenticato. In altre parole - e lo ha scritto molto bene in un libro recente Thomas Frank - se tanta parte della classe operaia è finita in braccio prima a Reagan e poi a Trump è anche perché quelli che erano i loro referenti storici ce l’hanno buttata
Alessandro Portelli Manifesto 7.11.2016, 17:00
Una delle cose più sconcertanti dell’interminabile campagna elettorale americana è il modo in cui i media e gran parte del campo democratico hanno proiettato un’immagine dei presunti elettori di Trump come totalmente alieni, altri da sé.
Lasciamo perdere il fatto che questo stereotipo – bianchi, proletari, maschi, ignoranti – non rende conto della base elettorale del candidato democratico, che è sfortunatamente molto più vasta e comprende settori non trascurabili di classe media (nel senso europeo) che si sente precaria e a rischio, precisamente come i siderurgici di Youngstown, e come loro reagisce.
Quello che sconcerta è il fatto che finché hanno fatto comodo queste figure – bianchi, anglosassoni, protestanti, lavoratori, residenti dell’America profonda… – sono stati per secoli identificati come la spina dorsale dell’America. Allontandoli da sé come l’altro assoluto, l’America liberale cancella in realtà una parte di sé, e quindi una sua pesante responsabilità in quello che queste persone sono diventate.
Come dice Bruce Springsteen, l’establishment liberal è diventato abbastanza ricco da non ricordarsi più come si chiamano. Non se lo ricordano anche perché hanno sempre fatto in modo di non conoscerlo.
Ricordo, guardando la televisione in casa di famiglie di minatori (bianchi e neri) in Kentucky, di essermi domandato: ma come mai facce come quelle di questa gente non si vedono mai in televisione?
Qualche tempo dopo, a Boston, la televisione accompagnava la notizia (breve e in fine di telegiornale) di un drammatico sciopero di minatori in Kentucky con una mappa – come faremmo noi per un’inondazione in Bangladesh – necessaria per far capire agli spettatori dove si trovano quei luoghi esotici e sconosciuti.
Questi hillbillies montanari sono stati di volta in volta l’immagine romantica (e inventata) del «puro sangue anglosassone», e quella (altrettanto inventata) del selvaggio stupratore di Un tranquillo week-end di paura. Poveri da aiutare e compatire perché incapaci di farlo da sé, o incontrollabili contrabbandieri di whisky clandestino (oggi, di marijuana).
Adesso le miniere chiudono, il carbone che è stato la loro vita, il loro orgoglio e la loro identità non è più l’energia che manda avanti l’America ma minaccia per l’ambiente (per questo si sono convinti che Obama sta facendo «la guerra contro il carbone» e nessuno – assolutamente nessuno – si è preoccupato di pensare che cosa faranno e di proporgli altre strade, altre possibilità.
I reportage del New York Times parlano di loro con lo stupore di chi si inoltra nel cuore sconosciuto di un continente alieno. Sanno benissimo che non sarà certo con Trump che magicamente si riapriranno i posti di lavoro in miniera, ma – molti, non tutti – lo voteranno, se non altro, per frustrazione.
Eppure, non sarebbe inevitabile.
Queste stesse realtà sono state la punta di diamante del sindacalismo americano (la loro canzone, Which Side Are You On?, da che parte stai?, la cantavano a Occupy Wall Street); è partita da qui, in West Virginia, nel più povero bianco e minerario di tutti gli stati, l’ondata che portò Kennedy alla presidenza.
Sono affetti dal razzismo, come tanta parte dell’America; eppure è stato il loro sindacato il primo a trattare bianchi e neri come uguali sul posto di lavoro.
Ma a partire almeno dagli anni ‘70 il sindacato li ha abbandonati, convinto che l’unico modo di salvare qualche posto di lavoro sia di allinearsi alle strategie aziendali che distruggono sia l’occupazione, sia l’ambiente.
Il partito democratico ha smesso da molto tempo di considerare i lavoratori la propria base elettorale, e ha contribuito a rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Barack Obama aveva promesso di eliminare alcune delle strettoie burocratiche che ostacolano la libera scelta di iscriversi al sindacato, ma una volta eletto se ne è dimenticato. In altre parole – e lo ha scritto molto bene in un libro recente Thomas Frank – se tanta parte della classe operaia è finita in braccio prima a Reagan e poi a Trump è anche perché quelli che erano i loro referenti storici ce l’hanno buttata.
I «Reagan Democrats» e i «Trump Republicans» sono in buona parte una creazione dei liberals. Eppure non sarebbero irrecuperabili: i sondaggi mostravano che almeno una parte degli elettori di Trump sarebbe stata disponibile a votare per Sanders, che se non altro dava l’impressione di parlare anche a loro – e gli diceva cose molto diverse da Trump.
Adesso è fatta, e spero che prevarrà il male minore (ma non per questo trascurabile). Ma poi non è che questa gente sparirà. Più i sistemi elettorali negano rappresentanza a marginali e scontenti, più la scontentezza prenderà altre forme, si manifesterà in altri modi.
C’è una memorabile battuta di Pogo, lo storico cartoon di Walt Kelly: «Certo che sono a favore delle libertà accademiche. La mia libertà è esclusivamente accademica!». Minatori del West Virginia e siderurgici di Youngstown continueranno a vivere nel paese dei liberi, ad avere il diritto di voto, di parola, di religione…Ma sempre più si rendono conto che sono diritti accademici, che quando li usano loro non hanno nessun impatto – per forza che si attaccano al diritto di possedere armi, pressoché l’unico diritto costituzionale che possono concretamente esercitare. Non credo che le minacce (non tanto) velate di insurrezioni e rivolte armate ventilate dai seguaci di Trump siano realistiche, anche se sono sicuro che ci sarà un incremento generalizzato della violenza.
Se non cominciamo subito a imparare di nuovo i nomi di queste persone dimenticate e stigmatizzate, a rivolgerci a loro come a cittadini con diritti che contano qualcosa, succederà qualcosa di più grave e più profondo: un allontanamento crescente di sempre più cittadini dalle istituzioni della democrazia; un accentuarsi del potere oligarchico di cui sono già adesso rappresentativi, sia pure in modi diversi, entrambi i candidati. Con esiti imprevedibili negli anni a venire.

Frontiere blindate e aiuti all’industria 
Il repubblicano vuole anche rivoluzionare gli equilibri all’estero strizzando l’occhio a Putin e all’Iran 
Francesco Semprini  Busiarda
Se farà l’America grande di nuovo per ora non è dato saperlo, ma senza dubbio Donald Trump l’America la farebbe diversa. Diversa non solo dalla rivale nella corsa alla Casa Bianca Hillary Clinton, o dall’attuale presidente Barack Obama, ma da chiunque altro abbia guidato gli Stati Uniti. 
Questo non solo perché il tycoon non è un politico di professione, non trova una collocazione nelle tradizionali architetture partitiche di Washington, e fa saltare tutti gli schemi del bon-ton politichese. Ma soprattutto perché, ed è questo probabilmente il segreto del suo successo, con lui l’America sarebbe come non è mai stata prima. A partire dalla Casa Bianca, dove il tycoon porterebbe con se una First Lady atipica, non americana di nascita, ex modella, con il debole per i ritocchi e con un carisma tutto da provare. Questo significa che al di là di un campo da minigolf al posto dell’orto, la vera First Lady potrebbe essere Ivanka, a cui The Donald ritaglierebbe un ruolo di primo piano nel suo staff. Il principio è lo stesso di quello seguito nei suoi business, «family first», perché la fedeltà è merce rara per il miliardario.
Ne consegue un accentramento della Casa Bianca nelle mani del clan Trump, Don Jr, Eric e il genero Jared Kushner. Accanto a loro troverebbe posto Rudy Giuliani, anche lui newyorkese doc e fedelissimo della prima ora, intorno al quale il «45esimo Presidente» modulerebbe il capitolo «law & order» della sua dottrina. Tolleranza zero e «stop and frisk» (perquisizioni a chiunque venga fermato per un semplice sospetto). Ma anche deleghe pressoché illimitate alla polizia e vendita di armi da fuoco agevolata in base al diritto inalienabile all’autodifesa, previsto dal Secondo emendamento. La legalità passa per la lotta all’immigrazione clandestina, ovvero il muro col Messico: «Più ci dicono di non farlo e più alto lo costruiremo» e a pagarlo sarà il Messico, magari coi soldi di Carlos Slim, il signor New York Times. E a sorvegliarlo ci saranno tanti sceriffi Joe Arpaio, che sebbene non sia di New York, per quel lavoro va bene lo stesso. 
Per i rifugiati invece è prevista una severissima selezione ancor prima dell’ingresso. L’interfaccia tra Trump e i cittadini sarebbe senza dubbio Daniel Scavino, un altro newyorchese, mentre Kellyanne Conway, che è invece del vicinissimo New Jersey, sarebbe il deus ex machina dell’agenda strategica del tycoon. È lei che ha messo a punto la strategia di «guerrilla marketing» che nella giornata di ieri ha portato Trump, dopo il tour de force di ieri culminato con al tentata aggressione a Reno in Nevada, in altri cinque Stati. Dall’Iowa per rinsaldare il legame con le campagne del granaio d’America dopo lo sgambetto delle primarie, al Minnesota, dal Michigan delle «Motor City» alla Pennsylvania, il campo di contesa più feroce, per concludere in Virginia, lo Stato blu che è un po’ il sogno proibito del magnate. 
I leitmotiv sono ripetuti come mantra. Si torna a far grande l’America levando i fondi destinati alle Nazioni Unite per la lotta contro l’effetto serra e si impiegano per riaprire le miniere di carbone. L’indipendenza energetica e lo scioglimento di ogni vincolo sulle emissioni è centrale per rilanciare il manifatturiero pesante, le acciaierie e l’edilizia. Una strategia trasversale con cui Trump vuole restituire lavoro alle tute blu colpite dalla delocalizzazioni. Ma anche alla classe media piegata dalla crisi «causata dalle banche e da quei manigoldi che a Washington hanno assecondato i falchi di Wall Street». Ed infine gli imprenditori, quelli piccoli messi fuori gioco «dall’interesse delle multinazionali e delle lobby democratiche». 
Per realizzare il suo progetto di un’America diversa Trump è determinato a cestinare i trattati di libero scambio, dal Nafta con Messico e Canada, al Tpp con i partner dell’Asia-Pacifico. E rinegoziare gli accordi su base bilaterale, andando a stravolgere gli equilibri commerciali in atto. Con conseguenti ripercussione sulle bilance commerciali e delle partite correnti. Necessità a cui internamente Trump farebbe fronte con una politica fiscale avanguardista: stracciare l’attuale regime tributario e introdurre un’unica flat tax uguale per tutti. Col rischio però che, se l’economia non galoppa a ritmo debito, si avrebbe un aggravio del debito pubblico già non indifferente. E con l’aggravante che quest’ultimo è per buona parte in mano alla Cina con cui Trump non è intenzionato ad essere cordiale. Un altro creditore di rilievo è l’Arabia Saudita, e anche qui il tycoon sembra voler usare la linea dura come merita «chi ha creato e mantenuto l’Isis». Per il tycoon si risolve tutto nella formula dell’indipendenza finanziaria degli Usa, svincolare da patti restrittivi, imporre al Fondo monetario una linea dura, e infine rovesciare la Federal Reserve: fuori Janet Yellen e dentro Peter Morici, economista anticonformista e, non a caso, newyorkese doc. 
C’è poi la politica estera fatta di una nuova era di relazioni brillanti con la Russia di Vladimir Putin, posto che quest’ultimo ne abbia voglia. Ridiscussione delle alleanze tradizionali: «nella Nato tutti devono contribuire in maniera adeguata». Poi ci sono le convergenze parallele con chiunque faccia la guerra al terrorismo: con l’Iran, ad esempio, si può dialogare, anche se quell’accordo sul nucleare all’amico Giuliani proprio non va giù. 
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Un’America inclusiva e istruzione gratuita 
Grande attenzione alle minoranze nere e ispaniche Tra gli obiettivi allargare la riforma sanitaria di Obama 
Paolo Mastrolilli Busiarda
Sul tarmac dell’aeroporto di Philadelphia, aspettando Hillary Clinton che ha santificato la domenica pregando nella chiesa nera di Germantown Mount Airy, il suo braccio destro per la comunicazione Jennifer Palmieri trasmette ottimismo: «È in corso un’affluenza storica alle urne, in particolare da parte degli elettori ispanici, che ci fa credere di essere in vantaggio». Poi aggiunge una battuta: «Così, se vinceremo e l’anno prossimo andremo al G7 di Taormina, io potrò finalmente andare a visitare Campobasso, la città da dove era emigrata la mia famiglia».
Sentimenti personali a parte, nel forsennato sprint finale di Clinton si leggono insieme i contorni della sua coalizione e la visione dell’America che spera di portare alla Casa Bianca. La sua corsa è partita dalla Florida, perché se Trump non vince questo stato lei è matematicamente Presidente. I suoi consiglieri sono incoraggiati dal fatto che l’affluenza dei latini è già aumentata del 120% nel voto anticipato, e in questo dato confermato in Nevada leggono la determinazione degli ispanici a bloccare il candidato repubblicano che li ha insultati. È il primo pilastro della visione di Hillary, che non a caso ha adottato lo slogan «stronger together», più forti se uniti. L’inclusione delle minoranze, che stanno diventando maggioranza negli Stati Uniti, era una sua ispirazione anche quando a vent’anni era andata in Texas per spingere latini e neri alle urne durante le presidenziali del 1972. Quell’idealismo giovanile ora si è unito alla convinzione che il Partito democratico possa cavalcare la tendenza storica demografica, usando crescita delle minoranze e riforma dell’immigrazione per diventare forza egemone del paese.
Subito dopo Clinton è venuta a Philadelphia, e oggi tornerà in Michigan, perché la base elettorale dell’asinello ha sempre posato sulla classe lavoratrice, i colletti blu e gli operai, adesso tentati dal populismo di Trump. Il problema è che la globalizzazione e i commerci internazionali hanno penalizzato la «rust belt» americana, facendo fuggire all’estero i posti di lavoro. I democratici sono sembrati complici di questo fenomeno, e Donald ne ha approfittato, promettendo di denunciare i trattati internazionali e costringere le multinazionali a riaprire le fabbriche in America. Forse è solo una fantasia, perché l’evoluzione della storia non si ferma con le parole, ma anche Bernie Sanders durante le primarie ha usato questa retorica, costringendo Hillary a cambiare posizione. Molti però pensano che la sua sia solo una strategia elettorale: ora dice di essere contro i trattati commerciali tipo la Trans Pacific Partnership, ma una volta alla Casa Bianca li rimetterà in moto, magari con qualche modifica cosmetica per sostenere di aver mantenuto gli impegni elettorali. La sua visione infatti è globalista nel cuore, non ostile al mondo della finanza e all’establishment sfidato da Trump. Questo alimenta i sospetti dei colletti blu, che Donald spera di portarle via in Pennsylvania, Ohio, Wisconsin, ma di più in Michigan. I consiglieri di Hillary dicono che lei ha aggiunto una tappa finale in questo stato solo perché qui non c’è l’early voting, e quindi aveva più senso venire alla vigilia del voto di domani: «Non è panico, ma calibratura delle risorse», spiega il manager Robby Mook. Forse, ma intanto lo stato è in bilico.
Lo show di ieri sera a Cleveland non aveva solo lo scopo di usare il potere di persuasione di una stella del basket come LeBron James, ma soprattutto di mobilitare la comunità nera a votare per lei, come aveva fatto per Obama otto e quattro anni fa. Certo, Hillary non può aspettarsi l’affluenza generata dal primo Presidente nero degli Stati Uniti, ma ha bisogno di arrivarci vicino per vincere, e ricevere un mandato solido per riunificare il Paese dopo le proteste e le violenze seguite agli scontri di Ferguson. Lo stesso discorso riguarda la North Carolina, che Clinton vuole vincere non solo perché le garantirebbe la Casa Bianca, ma anche perché rappresenta il volto dei nuovi Stati Uniti in trasformazione economica e demografica, giovani, non razzisti, più pronti a sfruttare le opportunità della tecnologia digitale, che lei vorrebbe guidare verso un nuovo secolo di supremazia globale. Magari anche allargando la riforma sanitaria di Obama verso il modello di un sistema nazionale, e offrendo l’istruzione universitaria gratuita per sedurre i millennials recalcitranti.
La politica estera non è stata al centro del dibattito, a parte i sospetti per l’influenza russa sulle elezioni attraverso gli hacker, o le polemiche su Bengasi e la sicurezza nazionale compromessa dallo scandalo delle mail. La visione globalista di Hillary, però, non sarebbe completa senza due punti fermi del suo progetto: primo, confermare e rafforzare le alleanze, a differenza di Trump che ha messo in dubbio l’utilità di Nato e Ue; secondo, essere più dura di Obama. In campagna non ha potuto marcare troppo le differenze dal Presidente, o urtare i giovani pacifisti innamorati di Sanders, ma è noto che in Siria lei avrebbe voluto la no fly zone, le safe zone per i rifugiati, e forse un impegno di terra per rovesciare Assad prima che l’Isis si affermasse. 
Questo, in fondo, è il vero dilemma di Clinton: se vincerà, quale Hillary si siederà nell’Ufficio Ovale? La giovane idealista del 1972, o la fredda calcolatrice di oggi? Entrambe, forse. 
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Cibo, cantanti, star del cinema I due mondi di Hillary e Trump 
Spielberg contro Clint Eastwood, liberal contro machismo La sfida elettorale mette a confronto idee e abitudini opposte 
Gianni Riotta  Busiarda
La guerra che divide l’America da una generazione, e che domani troverà un nuovo episodio nel duello Hillary Clinton-Donald Trump, non è lotta di classe, come sognava Karl Marx, e neppure di religione, come in Irlanda o nel mondo arabo. È guerra di culture, di idee, di abitudini, un bicchiere di vino Sauvignon blanc e sushi a cena, contro birra Coors e hot dog, rap contro country music, Spielberg contro Clint Eastwood, iPhone contro Blackberry, un’auto Tesla ecologica contro un poderoso Humvee o un pick-up da cowboy, tai chi contro rodeo, mocassini italiani opposti a scarponi di gomma e cuoio Duck Boot.
La mappa elettorale vedrà la sterminata prateria rurale con il rosso degli elettori repubblicani punteggiata dalle metropoli, colorate dal blu democratico. Nei campus universitari mettono bollini su Iliade e Metamorfosi di Ovidio «questo libro potrebbe portarvi emozioni negative», perché parlano di stupro. La censura preventiva colpisce Mark Twain, razzismo, Virginia Woolf, istigazione al suicidio, il Grande Gatsby di Fitzgerald, misoginia e violenza, tutto Shakespeare: bene, chi crede in questo «politicamente corretto» sta con Clinton. Chi invece non se la prende perché «The Crusader», foglio del Ku Klux Klan razzista, appoggia Trump, come l’ex Dragone del Klan, Duke, Putin, Assange, Assad, non esiterà a girare la leva per il ticket repubblicano.
Hillary Clinton ha chiuso la campagna con Beyoncé e Jay Z, e questa passione democratica per il rap spiega una delle contraddizioni che spaccano il Paese. I democratici accusano Trump di linguaggio antifemminista, «f… f… c…», ma sono stati i versi rap a liberare, nella vita domestica, parole un tempo oscene. I liberal sezionano compunti il mondo, dire «puttana» in un brano musicale è ok, in un comizio no. Trump rompe il muro del suono culturale dell’oscenità e importa in politica machismo e doppi sensi. Una sua fan indossa una maglietta con una freccia puntata verso il pube e la scritta «Donald, molestami qua».
Star attempate corrono da Trump, l’ex pugile Tyson, l’attore de «L’uomo da marciapiede» Jon Voight, il magnate Peter Thiel, fondatore dei micropagamenti PayPal, stacca un assegno per 1.250.000 dollari, l’imprenditore farmaceutico Martin Shkreli si impegna contro Hillary.
La coppia che meglio condensa le due culture viene però da Hollywood, due registi icone, Steven Spielberg e Clint Eastwood. Spielberg ha donato un milione di dollari per Hillary e nei suoi film racconta l’America tollerante, inclusiva, dove razze e culture si mischiano, dallo sbarco in Normandia alla musica jazz. Eastwood minimizza, «Trump dice un sacco di c… Hillary farà come Obama, dunque lo voto», ma per capire i maschi bianchi, delusi e arrabbiati, che voteranno repubblicano, riguardate la scena di «Gran Torino», Clint dal barbiere, polacco e italiano, a sfotticchiarsi, battute razziste che, tra amici, perdono violenza e assumono complicità.
Non abboccate alle opposte propagande, domani non si scontreranno Bene contro Male. La Kulturkampf, la guerra culturale, nasconde col suo fracasso che in realtà le due Americhe sono assai più simili di quel che appaia sul web e in tv. Gli elettori bianchi del socialista Sanders condividono con la base operaia di Trump l’odio per l’economia globale e i robot in fabbrica, molti cittadini afroamericani sono persuasi, come i trumpisti, che complotti segreti, lobby clandestine e organizzazioni occulte indirizzino il voto verso i propri interessi.
È proprio una delle più grandi stelle di Hollywood, Tom Hanks, a illustrare questa grottesca sindrome, in una deliziosa gag nel popolare show comico «Saturday Night Live». Fingendosi elettore di Trump, americano di campagna, cappelluccio «Make America Great Again» calcato in testa, Hanks scopre pian piano di avere molto in comune con gli altri ospiti afroamericani, su cibo, amore, complotti, finché, sulla violenza della polizia contro i neri, lo studio cade in un imbarazzato silenzio.
Riaprire il dialogo tra le due Americhe era il programma del presidente Obama ma, sotto di lui, il rancore si è invece accresciuto. Difficile che si possa sradicare con due possibili Presidenti per cui mezzo Paese nutre diffidenza e disprezzo.
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Il tycoon e la voglia di riscatto del popolo escluso dalla crescita 
Il reddito pro-capite non è cresciuto in modo uniforme Il repubblicano invoca il protezionismo per rilanciare il lavoro 
Andrea Montanino BUsiarda
Un tassista di Los Angeles di origine coreana spiegava qualche giorno fa perché avrebbe votato per Donald Trump. È l’unico, secondo lui, che rimetterà al centro l’America e gli interessi americani e si batterà contro una sorta di Spectre che governa il mondo a scapito dei cittadini normali come lui. 
È una tesi suggestiva, probabilmente condivisa da molti milioni di americani che, malgrado gli scandali, andranno a votare per Trump. Sono coloro che sono rimasti indietro e non hanno beneficiato dal processo di globalizzazione, quelli per cui la crisi economica del 2007-2008 non è ancora finita, che vivono fuori dai centri urbani e lontano dalle coste dell’Est e dell’Ovest. 
Osservando i dati prodotti dal «Bureau of Economic Analysis», l’istituto governativo che rilascia le statistiche economiche, si osserva che in diversi Stati americani il reddito pro capite è sì cresciuto in questi anni ma a un ritmo sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale. In Nevada, ad esempio, il reddito pro capite era prima della crisi circa l’un per cento più alto della media Usa. Oggi è il 13 per cento più basso. Lo stesso vale per Stati elettoralmente rilevanti come la Florida, la Georgia, la Carolina del Nord che non sono chiaramente attribuibili a Hillary Clinton e che avranno un peso importante nel determinare il risultato finale delle elezioni.
Poiché non è solo il valore assoluto del reddito pro capite che conta nella percezione delle persone, ma anche quanto si sta meglio o peggio rispetto ai vicini, non c’è da stupirsi del fatto che in questi Stati la gente comune veda di buon occhio uno come Trump, soprattutto dopo otto anni di amministrazione democratica. Il candidato repubblicano dice apertamente due cose che creano l’illusione che le cose potrebbero cambiare in meglio: primo, verrà reso più difficile emigrare negli Stati Uniti, quindi il lavoro andrà a chi risiede già nel territorio. Secondo, verranno prese misure protezionistiche per tutelare le imprese nazionali. 
Entrambi questi argomenti hanno presa facile su persone che hanno visto il loro reddito crescere meno degli altri e si chiedono come recuperare terreno, in una società dove la competizione e il confronto sono il pane quotidiano. Sono però argomenti pericolosi, che rischiano di impoverire l’America.
Partiamo dall’immigrazione. Gli americani stanno iniziando a vivere un fenomeno che noi italiani già conosciamo bene, quello dell’invecchiamento della popolazione: tipicamente, nelle economie avanzate, i progressi scientifici e nel campo della medicina allungano la vita media delle persone, il che è un bene. Ma i bassi tassi di natalità creano le condizioni per avere, in un tempo neanche troppo lungo, un numero eccessivo di persone non attive, rispetto a quelle in età lavorativa. Ci si chiede come una società così composta potrà mantenersi.
Negli Stati Uniti oggi ci sono 4,2 persone in età da lavoro (15-64 anni) ogni anziano (oltre i 65). Tra vent’anni questo numero crollerà a 2,7 con conseguenze sulla sostenibilità del sistema sanitario e con il rischio di una forte contrazione del tasso di crescita potenziale dell’economia a causa del basso numero di lavoratori. L’immigrazione, che generalmente coinvolge i più giovani, potrebbe invece aiutare gli Stati Uniti a contrastare questo declino.
Poi c’è l’approccio protezionistico e contro il commercio internazionale. Ma gli Stati Uniti hanno grandemente beneficiato dal commercio: secondo stime del «Business Roundtable», una lobby di imprenditori con sede a Washington, a oggi circa 41 milioni di posti di lavoro - uno su quattro – dipende direttamente o indirettamente dal commercio internazionale, il triplo di quanto avveniva fino alla metà degli Anni 90 quando gli Stati Uniti hanno iniziato a implementare l’accordo nordamericano sul commercio (Nafta). Un approccio protezionistico toglierebbe invece opportunità e occupazione, soprattutto alle piccole e medie imprese che non potrebbero sostenere i costi regolatori e tariffari associati a tale politica. 
Ovviamente analisi di questo tipo non attecchiscono su chi si percepisce oggi più povero, sia rispetto a prima della crisi, sia in confronto agli altri. Ci si metta l’avversione per tutto ciò che è il potere costituito e la riapertura della questione delle e-mail, e si capisce perchè la strada di Hillary Clinton verso la presidenza degli Stati Uniti non è una marcia trionfale. 
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La Clinton fra tasse e spesa sociale 
L’America resta la locomotiva dell’Occidente L’obiettivo ora è includere tutti nello sviluppo 
Francesco Guerrera Busiarda
Mercoledì mattina, quando i coriandoli saranno sparsi per terra, quando le bandiere adorne di stelle saranno state ripiegate, e quando l’inno nazionale avrà finito di suonare, il nuovo presidente Usa si ritroverà con un’economia in buona salute ma dalla prognosi riservata. 
A più di otto anni dalla crisi finanziaria che innescò la Grande Recessione del 2008-2009, la più grande superpotenza del pianeta è la locomotiva del mondo industrializzato. Gli altri grandi blocchi economici guardano il Grande Fratello americano con un misto d’invidia e ammirazione. 
Per l’Europa, con la sua crescita anemica, e il Giappone, con il suo ristagno decennale, i numeri dell’America di Barack Obama e Janet Yellen sono da sogno: 15 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati nel settore privato dal 2010; per molti (anche se non tutti), i salari sono in aumento e più di 20 milioni di americani ora hanno la mutua; anche il deficit di bilancio è stato ridotto.
Ma non basta. E non solo perché l’America è da sola a trainare il resto del «mondo sviluppato». La realtà della situazione economica Usa è che la Presidente Clinton o il Presidente Trump dovranno far fronte a tre problemi fondamentali per il futuro del Paese: il crollo nella produttività della forza-lavoro; l’enorme sperequazione economica che crea tensioni sociali molto pericolose e l’alienazione di una parte della popolazione che non riesce a trovare lavoro. Problemi seri che necessitano risposte serie. Guardiamoli nei dettagli.
La crisi-produttività è un rompicapo per economisti e politici. Da una parte, stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica che sta cambiando sia come passiamo il tempo libero sia come lavoriamo. Dalle video-conferenze sull’Internet, al commercio online, al potere dei supercomputer di Big Data, ci troviamo nel mezzo di un cambiamento epocale.
Ma ciononostante, la produttività della forza lavoro sta rallentando in maniera incredibile, mettendo un tetto sui salari. Gli Usa stanno meglio di tutti gli altri Paesi del Gruppo dei Sette ma anche lì, la situazione è penosa. Dal 1995 al 2005, la produttività della forza lavoro americana è cresciuta del 2.5% l’anno in media. Negli ultimi dieci anni è meno dell’1%. Per farvi rattristire, vi do le statistiche italiane: intorno allo 0.5% dal 1995 al 2005, negativa nell’ultima decade.
È per questo che il ritorno di fiamma dell’economia americana è stato battezzato «ripresa senza salari». In questo campo, le politiche della Clinton sembrano più adatte di quelle di Trump. L’ex First lady vuole aumentare le tasse sui più ricchi e sulle aziende per finanziare programmi di spesa su autostrade, aeroporti, ponti e altri pezzi delle sgangherate infrastrutture pubbliche Usa - progetti che dovrebbero aumentare la produttività e i salari e ridurre la disoccupazione (ma che forse aumenteranno anche il deficit Usa). Trump vuole abbassare le tasse pagate da chi guadagna di più.
Le filosofie economiche dei due candidati sono ai poli opposti anche sulla questione della diseguaglianza sociale. Oggigiorno, l’uno per cento più benestante controlla circa il 36% della ricchezza degli Usa, più del 95% della gente è alla base della piramide sociale. Nelle strade di Kansas City, negli slum di St. Louis e nei quartieri fatiscenti di Detroit questi numeri vogliono dire alienazione, impotenza e frustrazione. Un apartheid economico nel cuore del Paese più ricco del mondo. 
Come risolverlo? È una corsa contro il tempo: migliorare le condizioni dei ceti in difficoltà prima che le tensioni sociali esplodano e diventino incontrollabili. La campagna elettorale, soprattutto nei comizi di Trump, ha già offerto esempi di questa rabbia recondita che potrebbe diventare qualcosa di molto peggiore. 
Mercoledì mattina, chiunque vincerà, dovrà mettere giù la coppa di champagne e iniziare il durissimo lavoro di risolvere gli annosi problemi dell’economia più importante del pianeta.
Francesco Guerrera è condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe


con Hillary la tenacia alla Casa Bianca 
Dassù Busiarda
Se Hillary Clinton diventerà Presidente degli Usa dovrà ringraziare Donald Trump. La sensazione netta, infatti, è che avrebbe perso contro un altro candidato. Un po’ perché il ciclo politico, dopo 8 anni di Obama, spinge in teoria verso i Repubblicani - se il loro partito continuasse ad esistere. 

Un po’ perché Clinton è poco amata dalla gente. Ma Trump ha sconvolto la normalità delle cose: coi toni estremi del suo appello populista e nativista alle classi medio/basse dell’America bianca e virile, si è tenuto stretto una parte molto rilevante dell’elettorato e al tempo stesso ne ha sacrificata un’altra, dai latinos alle donne. Queste ultime non guardano con particolare indulgenza a Hillary - lo si è visto nel 2008, quando hanno votato per Barack Obama. Tuttavia, di fronte al tasso di misoginia riemerso con Trump, hanno cominciato a spostarsi verso Hillary, inclusa una parte delle donne repubblicane. Qui, la candidata democratica deve ringraziare una seconda persona: Michelle Obama, che è riuscita a presentare una delle più brutte campagne elettorali della storia americana come una scelta di civiltà e dignità degli Stati Uniti, contro The Donald e nel nome delle donne. Attraverso le parole di Michelle, Hillary Clinton - la vecchia esponente della «casta», troppo amica della grande finanza e troppo poco trasparente - è tornata ad essere semplicemente una donna dedicata e competente: la guida giusta per un’America che possa ancora tenere in piedi la coalizione delle minoranze ereditata da Obama, liberandosi di troppi stereotipi, inclusi quelli sessisti.
Hillary deve infine ringraziare se stessa. Solo una persona con una dose assolutamente straordinaria di «tenacia» (la sua prima dote è la resilienza dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta in mezzo secolo di carriera politica) avrebbe retto alla sconfitta nelle primarie del 2008 e avrebbe poi usato quattro anni durissimi come Segretario di Stato per prepararsi di nuovo alla Casa Bianca. 
Ma se Hillary ce la facesse davvero, che Presidente sarà? Rispondere è meno semplice di quanto sembri. Hillary è un personaggio pubblico da una infinità di tempo ma ha sempre tenuto nascosti i suoi istinti. E per un Presidente l’istinto conta. Proviamo a fare qualche ipotesi, collegando scelte passate e sfide future. 
Hillary Clinton sarà - per vocazione - un Presidente domestico. Nel senso che la sua vera propensione sarà quella di lasciare il proprio segno sull’America, prima che sul sistema internazionale. Da questo punto di vista, avrà un peso decisivo la nomina del successore di Scalia alla Corte suprema. E conteranno le riforme interne. Dai tentativi di riforma sanitaria compiuti (e falliti) come First Lady negli Anni ’90 fino alle primarie contro Bernie Sanders, Hillary è consapevole che il tasso di disuguaglianza interna alla società americana sta superando limiti di guardia. Trump è il sintomo di una patologia. Che va curata per salvaguardare la democrazia. L’elenco degli impegni presi, anche per tenere a bordo i voti (giovanili) di Sanders, è lungo: dalla riforma fiscale, all’aumento del salario minimo, alla reintroduzione del Glass Steagall Act (la separazione fra banche di risparmio e di investimento), a fondi nelle infrastrutture, alla riforma dell’immigrazione. In breve, Hillary tenderà a distaccarsi almeno in parte dalla eredità economica di Bill: sarà meno clintoniana di quanto sia mai stata. Il problema di fondo è che, se i democratici non riusciranno a recuperare almeno il Senato, avrà ben poche leve per riuscire. L’America del dopo 2016 rischia di essere bloccata, oltre che drammaticamente polarizzata. 
Sul piano internazionale, il disimpegno parziale degli Stati Uniti è una tentazione potente. La realtà, tuttavia, è che i presidenti americani sono regolarmente risucchiati dalle crisi esterne. E Clinton, rispetto ad Obama, tenderà a non lasciare troppi vuoti. Nella sua famosa intervista a The Atlantic, Obama ha definito se stesso un «realista». Hillary, come formazione e come segretario di Stato, è considerata piuttosto una «wilsoniana», propensa all’interventismo. Si può prevedere che l’America cambi registro in Siria e che Hillary decida per un confronto più duro con Putin. Gli europei della Nato saranno messi sotto pressione. 
Tuttavia - questa la terza previsione possibile - la prima donna Presidente degli Stati Uniti guarderà verso il Pacifico, prima che verso l’Atlantico. L’errore che facciamo regolarmente, come europei, è di pensare che il «nostro» candidato sarà anche interessato a gestire le sorti del vecchio Continente. La tensione con la Russia costringerà l’America a non trascurare un’Europa che, vista da Washington, è poco vitale sul piano economico, sta perdendosi per strada Londra e non contribuisce abbastanza alla difesa comune. Ma Hillary è convinta della priorità del Pacifico. E dovrà decidere, come Presidente, se riportare in vita il Tpp (il trattato commerciale con i Paesi del Pacifico, concepito anche per contenere la Cina) o se confermare la linea di «nazionalismo economico» tenuta nella campagna elettorale. 
Questo sarà uno dei dilemmi principali per la presidenza Clinton. Paradossalmente Hillary si troverà a gestire, un paio di decenni dopo, i costi sociali e politici della globalizzazione economica promossa da Bill Clinton.BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Ma Trump non sarà l’Apocalisse 
Giampiero Massolo  Busiarda
Ma davvero Donald Trump può diventare il prossimo Presidente degli Usa? Magari è possibile, alla luce della rimonta nei sondaggi, forse non è probabile. Vedremo presto. Ad attirare l’attenzione dovrebbe essere intanto lo spazio di consenso che è riuscito a costruirsi nell’elettorato.
Ha incarnato una dialettica praticamente insanabile tra la complessità dei problemi in carico ai governi e il fascino di chi propone soluzioni facili, spesso impraticabili, ma seducenti nella loro formulazione. C’è di che riflettere, non solo in America. Che vinca o perda, sotto questo profilo lascerà il segno.
Ma una sua Presidenza sarebbe davvero destabilizzante come in molti temiamo? La personalità del Presidente degli Stati Uniti e la congerie di interessi che esprime impattano inevitabilmente sulle politiche e sulla gestione delle crisi, con conseguenze rilevanti per il resto del mondo. Va fatta tuttavia un po’ di tara.
La forza delle regole della democrazia americana, la problematicità delle maggiori crisi internazionali, la difficile reversibilità volente o nolente delle conseguenze della globalizzazione, l’obiettivo di perseguire lo sviluppo e ammodernamento dell’economia sono fattori destinati a condizionare pesantemente chiunque venga eletto, al di là dei velleitarismi e accenti individuali.
Anzitutto, pur «comandante in capo», il Presidente non è un uomo solo: il sistema di pesi e contrappesi fissato dalla Costituzione ne delimita l’azione; strutture di governo e amministrative consolidate, per ruolo e per qualità, forniscono le opzioni tra le quali scegliere, lasciando poco spazio all’improvvisazione; gli equilibri nel Congresso lo costringono ad un costante negoziato (e non è detto che Trump potrebbe contare su di una confortevole maggioranza); il suo stesso partito, repubblicano o democratico che sia, tende quasi a circondarlo ove ne percepisca una debolezza, preoccupato delle elezioni future.
Sul piano internazionale, le crisi in atto distolgono dalle pulsioni isolazioniste e non consentono condotte granché alternative: la perdurante centralità ai fini della sicurezza dell’area mediterraneo-mediorientale e la sfida del terrorismo jihadista obbligano a sporcarsi le mani; la tentazione di risolverle con politiche più interventiste e magari soldati sul terreno presenta costi politici difficilmente tollerabili; la Russia, d’altra parte, contro la quale neppure Obama ha in ultima analisi infierito, continua ad essere parte di ogni possibile soluzione, non al prezzo tuttavia di rendere più vulnerabile la comunità euro-atlantica; l’Europa resta un’interlocutore indispensabile per la solidarietà occidentale, ma va esortata ad evolvere sul piano economico e a coinvolgersi con maggiori responsabilità (e chissà che un Presidente americano meno ortodosso nel linguaggio e nei metodi non possa dare un’utile scossa); la Cina consapevole e assertiva, è problematica da contenere con misure commerciali e crea allarme tra alleati strategici degli Stati Uniti, impossibili da disattendere pena l’instabilità del quadrante del Pacifico fino a lambire le coste americane.
L’economia e la globalizzazione, infine. Nei suoi aspetti positivi e negativi, a cominciare dall’immigrazione e dai flussi di merci, sfugge ai controlli. I protezionismi, come ogni muro (quello con il Messico, a spezzoni peraltro già esiste e serve manodopera per sostenere il Pil), possono mitigare, ma sono aggirabili e non funzionano a lungo perché frenano lo sviluppo. Quando l’imperativo, anche sul piano del consenso, è quello del rilancio della crescita inclusiva e della tenuta complessiva della società, non ci sono molte opzioni rispetto alla gestione realistica e accorta di problemi di fatto privi di soluzioni univoche e definitive. Così come sarà difficile esimersi, al di là delle singole ricette, da un ambizioso piano di ammodernamento delle infrastrutture americane da tempo atteso. 
In sostanza, saranno agenda, circostanze e interessi più del temperamento a definire e contenere il prossimo Presidente americano. Resta il fatto che Hillary Clinton ne è senz’altro fin d’ora più consapevole di Donald Trump. Mentre il mondo non può permettersi troppi indugi nella curva di apprendimento del nuovo inquilino della Casa Bianca.
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