La sua metafora della società liquida è stata efficace e assai utile nel descrivere la schiuma fenomenica di superficie della postmodernità. Ma ha fatto completamente passare inosservata la sostanza ovvero la crescente solida rigidità dei rapporti di forza tra le classi. Questo non diminuisce il suo immenso valore, ma va precisato per rispetto verso la correttezza scientifica [SGA].
Corriere della Sera
La forza di un concetto che spiega davvero. Il pensiero di Zygmunt Bauman
È morto ieri il grande sociologo anglo-polacco, tra i più acuti lettori della nostra epoca e delle sue contraddizioni. L’ammirazione per papa Francesco
Avvenire Chiara Giaccardi e Mauro Magatti martedì 10 gennaio 2017
A 91 anni di età è morto il sociologo Zygmunt Bauman. L'intellettuale polacco era celebre per i suoi studi sociologici sulla «società liquida»
Avvenire lunedì 9 gennaio 2017
Chiara Sarra Giornale
- Lun, 09/01/2017
Bauman, un maestro di vita
Incontri. La
lunga frequentazione con il filosofo e sociologo polacco, una serie di
conversazioni divenute libri e un volume di prossima uscita per Einaudi,
«Elogio della letteratura»
Conobbi Bauman, dopo aver letto una quantità di suoi libri, nel 2006 al
Festival dell’Economia di Trento. Con la Erickson avevo pubblicato un
libro di Keith Tester, Il pensiero di Zygmunt Bauman, che andai a
consegnargli sul palco dopo la fine della conferenza. Lui vide la sua
faccia sulla copertina del libro, lesse, soprattutto, il nome del suo
allievo talentuoso che aveva scritto il testo, e mi diede immediatamente
telefono e indirizzo e-mail che diedero la stura alla nostra
conversazione durata per tutti questi anni. Poiché l’editore Laterza,
avendo tradotto quasi tutti i suoi libri, aveva il diritto di prelazione
sulle opere che lui avesse pubblicato per Polity, il suo editore
inglese, Bauman nel 2007 mi spedì il testo di quattro conferenze che
aveva tenuto e mi disse che, se lo avessi voluto, avrei potuto
realizzarne un libro. Uscì così per Erickson Homo Consumens.
Riccardo Mazzeo Manifesto 10.1.2017, 21:17
Zygmunt Bauman non era soltanto un pensatore immenso, ma anche, e
direi più ancora, un maestro di vita. Personalmente, se nel 1992 non
avessi letto Modernità e olocausto, sarei rimasto invischiato
in prospettive proustiane e lacaniane fertili, senza dubbio, ma monche,
prive di quell’interdipendenza che è condicio sine qua non del nostro
essere nel mondo.
CI VEDEVAMO SPESSO, mi aveva spalancato mondi.
Finché non scrivemmo il nostro primo libro, Conversazioni
sull’educazione, in cui Bauman spiegava in modo adamantino e non più
eludibile come l’educazione sia, essenzialmente, una questione politica.
In questo era perfettamente sintonizzato con un altro amico che se ne è
andato qualche giorno fa, Tullio De Mauro, il quale faceva coincidere
le reali possibilità di acculturazione di una giovane vita con il numero
di libri presenti nella sua casa. Bauman scriveva: che cos’è la
«normalità» se non la tendenza prevalente, quella seguita dal maggior
numero di persone? E citava Nel paese dei ciechi, di H. G.
Wells, per mostrare come un orbo, in una comunità di ciechi, possa
essere percepito come un elemento fastidioso, incongruo, inadeguato. Il
protagonista si era innamorato di una delle loro ragazze cieche ma, se
avesse voluto sposarla, avrebbe dovuto sacrificare quell’occhio
inaccettabile che ancora gli brillava sul volto.
ECCO, BAUMAN e le persone di buona volontà che
ritengono il mondo non un territorio di caccia ma un luogo che dovrebbe
prendersi cura di tutti, anche di chi fa più fatica, di chi sale su un
gommone per salvarsi la vita fuggendo dalle guerre e dalla fame, Bauman e
noi che prendiamo atto della nostra «molteplicità» e che sappiamo la
vanità e la vacuità dell’inseguire una prestazione perfetta come quella
richiesta e continuamente rinnovata dalla società liquida in cui
viviamo, tutti noi siamo gli orbi a cui i ciechi, i vari Trump, Salvini,
Orbàn, Le Pen e le loro vittime volontarie vorrebbero chiudere anche
l’occhio che continuiamo a tenere aperto.
Del resto, come ha scritto ne Le sorgenti del male, anche nella
Germania nazista c’era un 90 per cento della popolazione che aderiva
alle ingiunzioni di Hitler in modo supino, ma c’era anche un 5 per cento
di sadici che ne approfittavano per sfogare i loro istinti più bassi.
E, soprattutto, c’era in questa gaussiana un 5 per cento di individui
che semplicemente dicevano di no, che si rifiutavano di obbedire a
ordini infami, foss’anche a costo di sacrificare la propria vita.
L’ULTIMO LIBRO che ho scritto con Bauman, In Praise of Literature
(«Elogio della letteratura»), uscito per Polity nel 2016 che verrà
pubblicato in Italia da Einaudi, parla del dialogo fra le varie
discipline, della sua imprescindibilità affinché la sociologia, la
psicoanalisi, la filosofia non restino trincerate nel proprio ambito ma
ricevano ossigeno e vita dalla letteratura, dal cinema, dalla pop
culture. Bauman, così rigoroso e capace di fulminare un’azione sbagliata
con una semplice alzata di sopracciglio, era anche la persona più
capace di generosità e di dolcezza che io abbia mai conosciuto e in
questo libro, grazie alla sua apertura mentale sconfinata, riesce a
citare Katy Perry insieme ai suoi amati Georg Simmel e Charles Wright
Mills.
MI MANCHERÀ, la mia vita non sarà più la stessa
senza di lui, ma fra le cose che mi ha insegnato c’è anche la
consapevolezza che la vita che abitiamo è qualcosa che ci trascende, che
è più grande delle nostre piccole o grandi individualità, e che quando
ci pensiamo nel mondo dobbiamo andare al di là di noi stessi e dei
nostri affetti, e finanche delle altre persone, che dobbiamo riuscire a
scioglierci dai laccioli umanistici che ci fanno sentire i padroni del
mondo visto che dovremmo piuttosto sentirci al servizio di questo mondo,
e onorarlo, e accettare l’inesorabilità che altri prendano il nostro
posto. Senza tristezza. Serenamente.
Zygmunt Bauman, un pensiero errante nel flusso della società
Addio. È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco
Benedetto Vecchi Manifesto 10.1.2017, 21:51
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per
dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di
fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà
più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia,
inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli
ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il
teorico della società liquida, una tag che accoglieva con
divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla
semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale
da intellettuale del Novecento.
Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che
bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai
teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua
modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non
una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo,
rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro
certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente,
che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman,
infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la
convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di
frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli
eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto
personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman
faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza
fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito
negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di
Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della
sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali.
Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era
indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità
solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di
equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico
del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di
credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a
indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un
esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere
accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a
considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua
«erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva
dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe
naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando
nell’esercito della Polonia libera.
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere
nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman
fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw
Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E
nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e
dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto
che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella
vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte.
Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati
dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano
anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel,
Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due
letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia,
Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman
prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista,
acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a
società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti
negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita
pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza
della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e
collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe
operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non
salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il
potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene
dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei
lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei
superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di
antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con
il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato
l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia
inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che
Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi),
dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come
soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare
il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare
l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la
coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a
perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di
studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La
sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua
compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto
(Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è
il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e
il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah
scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro,
perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli
strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere
catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di
efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma
letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per
alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo
slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans
Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni
Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a
Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità).
Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa.
Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto
di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto,
in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del
rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un
aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato.
La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati
definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare
in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le
promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita
di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste
d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida
producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è
liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la
stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare
attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le
spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi
la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità,
Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode.
Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non
ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi
dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita
dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare
forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos,
mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni
materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel
web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della
precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere
costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una
sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono
assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale
impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua
difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma
di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere
operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con
amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni
dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica
dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico
per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle
lamentazioni sulle cose che non vanno.
Bauman, la società liquida e il suo nemico
Morto a 91 anni. Aveva denunciato i guasti della condizione postmoderna e della globalizzazione, e imposto alla sociologia un lessico originale
Massimiliano Panarari Busiarda
Zygmunt Bauman, scomparso ieri a Leeds, a 91 anni, è stato uno degli studiosi (critici) più importanti e significativi della «condizione postmoderna». Colui che, per l’opinione pubblica internazionale, ha identificato il sociologo per eccellenza della globalizzazione, il «decostruttore» e il disvelatore dei guasti della «società liquida», capace di imporre nel dibattito un lessico originale per descrivere le nostre esistenze nell’epoca della smobilitazione dei fondamenti che hanno caratterizzato la modernità. Una riflessione che lo ha condotto a diventare un intellettuale pubblico (e neo-umanistico) assai noto, ed estremamente attivo nel sottolineare la problematicità delle «conseguenze della globalizzazione sulla vita delle persone», nonché un punto di riferimento - per niente ideologico, però - per i movimenti no global e altermondialisti.
Nato a Poznan il 19 novembre 1925 da una famiglia di ebrei non osservanti, Bauman immediatamente dopo l’occupazione hitleriana del ’39 si arruolò nell’esercito polacco collegato ai sovietici e combatté gli invasori, venendo decorato nel ’45 con la croce al Valor militare. Marxista eterodosso (mescolava, tra gli altri, il pensiero di Antonio Gramsci e quello di Georg Simmel), e via via sempre più critico nei confronti del partito comunista polacco, rimase vittima della campagna antisemita e delle epurazioni scatenate nel ’68 dal governo, che gli tolse la cattedra all’Università di Varsavia. Fu così costretto a riparare a Tel Aviv, dove insegnò per breve tempo prima di accettare l’offerta di una cattedra di Sociologia a Leeds, la città inglese in cui si trasferì e dove è rimasto fino alla fine.
È, quindi, anche dalla sua biografia che il pensatore anglopolacco ha tratto un’autentica urgenza morale nella difesa intellettuale della dignità degli individui e nella denuncia delle forze che la possono sopraffare o la vogliono negare. Dopo avere offerto il proprio contributo alla discussione sul genocidio del popolo ebraico pianificato dal nazismo con il volume Modernità e Olocausto (uscito in edizione originale nel 1989) - nel quale, partendo da una rivisitazione critica dell’opera di Max Weber, rimarcava l’indissolubilità tra la «soluzione finale» e le logiche «occidentali» della burocratizzazione e della razionalizzazione - Bauman si dedicò sistematicamente al suo futuro oggetto di studio per antonomasia. Ovvero, la postindustriale società del rischio, quella che ha preso forma con la fine dei grandi discorsi e delle metanarrazioni ideologiche. Da cui l’ingresso nel periodo della «modernità liquida» - espressione che preferiva a «postmodernità» - nella quale si assiste all’intensificazione estrema dei processi di individualizzazione, mentre ogni aspetto dell’esistenza, dai rapporti di lavoro alle relazioni amorose, prevede la scomparsa della dimensione di sicurezza tipica della prima fase della modernità (quella, appunto, «solida»).
Bauman ripensa, alla luce della mondializzazione, i fondamentali dello spazio e del tempo, con il primo che perde di rilevanza e il secondo che accelera esponenzialmente. La finanza e la comunicazione (specie quella digitale, responsabile di una «superficializzazione» dell’interazione tra gli esseri umani) si convertono, nella sua lettura, nelle forze motrici che separano i destini dell’economia da quelli dei territori (laddove le organizzazioni produttive e sociali dell’età fordista avevano generato conflitti, ma anche forme di integrazione e coesione). Si afferma pertanto una nuova dicotomia tra globale e locale; e, infatti, la reazione alle disincarnate «élites della mobilità» si traduce così spesso, in maniera rabbiosa, nel tribalismo o nella ricerca di identità xenofobe e delle «piccole patrie» fondate sull’esclusione del diverso. E, dovunque, dilaga la «vita-come-gioco» dell’Homo consumens, monade che compone lo «sciame inquieto» di individui-consumatori indisponibili ad assumersi qualunque responsabilità duratura nel nome dell’illusione di una libertà totale senza solidarietà.
Dallo stadio dell’incertezza e della liquidità non esiste, dunque, una via di uscita; e il celebre sociologo non intendeva fornire ricette semplicistiche, ma analisi e pensieri lunghi per tentare di comprendere l’inquieto presente. Bauman riteneva che la sola possibilità per un mondo meno iniquo coincidesse con un ripensamento, su scala globale, delle forme di protezione sociale, e che questo complicato processo (e presa di coscienza politica) dovesse partire dall’ascolto dei perdenti della globalizzazione (dai profughi e i migranti agli homeless delle metropoli occidentali), e dall’osservazione partecipe delle loro «vite di scarto» - quelle, come aveva sempre a mente, a cui i nazisti avevano costretto gli ebrei e le altre categorie di «sottouomini».
Se ne va così un grande intellettuale che è stato anche piuttosto affezionato all’Italia, dove veniva spesso, ospite abituale dei festival culturali, e molto amato dalla nostra editoria, che ha pubblicato la totalità delle sue opere (soprattutto Laterza e il Mulino), e traduceva prontamente i suoi articoli (come la rivista culturale dell’Università Cattolica di Milano Vita e Pensiero). BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Morto a 91 anni. Aveva denunciato i guasti della condizione postmoderna e della globalizzazione, e imposto alla sociologia un lessico originale
Massimiliano Panarari Busiarda
Zygmunt Bauman, scomparso ieri a Leeds, a 91 anni, è stato uno degli studiosi (critici) più importanti e significativi della «condizione postmoderna». Colui che, per l’opinione pubblica internazionale, ha identificato il sociologo per eccellenza della globalizzazione, il «decostruttore» e il disvelatore dei guasti della «società liquida», capace di imporre nel dibattito un lessico originale per descrivere le nostre esistenze nell’epoca della smobilitazione dei fondamenti che hanno caratterizzato la modernità. Una riflessione che lo ha condotto a diventare un intellettuale pubblico (e neo-umanistico) assai noto, ed estremamente attivo nel sottolineare la problematicità delle «conseguenze della globalizzazione sulla vita delle persone», nonché un punto di riferimento - per niente ideologico, però - per i movimenti no global e altermondialisti.
Nato a Poznan il 19 novembre 1925 da una famiglia di ebrei non osservanti, Bauman immediatamente dopo l’occupazione hitleriana del ’39 si arruolò nell’esercito polacco collegato ai sovietici e combatté gli invasori, venendo decorato nel ’45 con la croce al Valor militare. Marxista eterodosso (mescolava, tra gli altri, il pensiero di Antonio Gramsci e quello di Georg Simmel), e via via sempre più critico nei confronti del partito comunista polacco, rimase vittima della campagna antisemita e delle epurazioni scatenate nel ’68 dal governo, che gli tolse la cattedra all’Università di Varsavia. Fu così costretto a riparare a Tel Aviv, dove insegnò per breve tempo prima di accettare l’offerta di una cattedra di Sociologia a Leeds, la città inglese in cui si trasferì e dove è rimasto fino alla fine.
È, quindi, anche dalla sua biografia che il pensatore anglopolacco ha tratto un’autentica urgenza morale nella difesa intellettuale della dignità degli individui e nella denuncia delle forze che la possono sopraffare o la vogliono negare. Dopo avere offerto il proprio contributo alla discussione sul genocidio del popolo ebraico pianificato dal nazismo con il volume Modernità e Olocausto (uscito in edizione originale nel 1989) - nel quale, partendo da una rivisitazione critica dell’opera di Max Weber, rimarcava l’indissolubilità tra la «soluzione finale» e le logiche «occidentali» della burocratizzazione e della razionalizzazione - Bauman si dedicò sistematicamente al suo futuro oggetto di studio per antonomasia. Ovvero, la postindustriale società del rischio, quella che ha preso forma con la fine dei grandi discorsi e delle metanarrazioni ideologiche. Da cui l’ingresso nel periodo della «modernità liquida» - espressione che preferiva a «postmodernità» - nella quale si assiste all’intensificazione estrema dei processi di individualizzazione, mentre ogni aspetto dell’esistenza, dai rapporti di lavoro alle relazioni amorose, prevede la scomparsa della dimensione di sicurezza tipica della prima fase della modernità (quella, appunto, «solida»).
Bauman ripensa, alla luce della mondializzazione, i fondamentali dello spazio e del tempo, con il primo che perde di rilevanza e il secondo che accelera esponenzialmente. La finanza e la comunicazione (specie quella digitale, responsabile di una «superficializzazione» dell’interazione tra gli esseri umani) si convertono, nella sua lettura, nelle forze motrici che separano i destini dell’economia da quelli dei territori (laddove le organizzazioni produttive e sociali dell’età fordista avevano generato conflitti, ma anche forme di integrazione e coesione). Si afferma pertanto una nuova dicotomia tra globale e locale; e, infatti, la reazione alle disincarnate «élites della mobilità» si traduce così spesso, in maniera rabbiosa, nel tribalismo o nella ricerca di identità xenofobe e delle «piccole patrie» fondate sull’esclusione del diverso. E, dovunque, dilaga la «vita-come-gioco» dell’Homo consumens, monade che compone lo «sciame inquieto» di individui-consumatori indisponibili ad assumersi qualunque responsabilità duratura nel nome dell’illusione di una libertà totale senza solidarietà.
Dallo stadio dell’incertezza e della liquidità non esiste, dunque, una via di uscita; e il celebre sociologo non intendeva fornire ricette semplicistiche, ma analisi e pensieri lunghi per tentare di comprendere l’inquieto presente. Bauman riteneva che la sola possibilità per un mondo meno iniquo coincidesse con un ripensamento, su scala globale, delle forme di protezione sociale, e che questo complicato processo (e presa di coscienza politica) dovesse partire dall’ascolto dei perdenti della globalizzazione (dai profughi e i migranti agli homeless delle metropoli occidentali), e dall’osservazione partecipe delle loro «vite di scarto» - quelle, come aveva sempre a mente, a cui i nazisti avevano costretto gli ebrei e le altre categorie di «sottouomini».
Se ne va così un grande intellettuale che è stato anche piuttosto affezionato all’Italia, dove veniva spesso, ospite abituale dei festival culturali, e molto amato dalla nostra editoria, che ha pubblicato la totalità delle sue opere (soprattutto Laterza e il Mulino), e traduceva prontamente i suoi articoli (come la rivista culturale dell’Università Cattolica di Milano Vita e Pensiero). BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
“Non ho certezze sul futuro non sono un profeta”
Ma rispondeva sempre alle email L’ultimo messaggio del sociologo per posta elettronica
Francesca Paci Busiarda
Zygmunt Bauman usava molto la posta elettronica, non quella sguaiata piazza virtuale rappresentata dai social network, ma lo spazio privato dell’epistolario moderno. In una delle ultime email - all’indomani della Brexit, del critico referendum ungherese, del timore crescente che la sua Europa finisse per implodere soffocata dai propri muri - mi scriveva, evidenziando le parole in grassetto: «Vorrei tanto avere delle risposte, almeno alcune risposte, ma non ne ho. Come molti, cammino oggi su un terreno inesplorato e mi attengo al comandamento di Ludwig Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. È bene diffidare di quegli sbruffoni che si vantano di avere una linea diretta con il futuro. Nessuno di loro, in fondo, aveva visto arrivare la crisi sui cui effetti ci piacerebbe adesso avere un’anticipazione!».
Rispondeva sempre alle email, Bauman. Magari premetteva di non avere tempo, di non conoscere a fondo la materia, spiegava con il peculiare umorismo di un polacco trapiantato in Gran Bretagna di non essere adeguato. Ma poi finiva regolarmente per cimentarsi, trascinato dalla bruciante passione civile e da una infinita generosità intellettuale.
Quando nel 2014 Laterza gli propose di partecipare al progetto Eutopia, la rivista online diritta da Eric Jozsef che per quasi due anni avrebbe stimolato il dibattito sull’Europa alla maniera di un think tank, si associò all’impresa con un entusiasmo pari solo a quello di un altro collaboratore tanto agée quanto vitale, Jacques Le Goff, scomparso nella primavera di tre anni fa.
Chi l’ha conosciuto di persona sa quanto Bauman ascoltasse con l’attenzione di un neofita. E più ancora dei colleghi accademici o degli studenti lo sanno le migliaia di persone qualsiasi che, avvicinatolo al termine di una presentazione per chiedere l’autografo, l’hanno visto intrattenersi e interloquire con loro fin quando gli organizzatori non lo trascinavano letteralmente via, quasi di peso.
Nel mondo in rapida trasformazione il teorico della «società liquida» è rimasto fedele all’idea di Europa come sola risposta possibile alla complessità del presente. A volte, uomo del dubbio, ammetteva la difficoltà di capire. Cosa aspettarsi dall’elezione di Donald Trump, dall’ascesa dell’astro Putin, dalla contagiosa febbre populista? «Solo un Profeta potrebbe rispondere alle domande dell’attualità e io non sono davvero uno di questi Profeti...». In altri casi, come di fronte al terrorismo, agli attentati, al sospetto crescente dell’altro da sé, l’urgenza di trovare un bandolo aveva la meglio sulla ritrosia e il bisogno di riflettere. E il 91enne Bauman, con la velocità di un adolescente, digitava in tempo reale: «Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme». Per ora è morto il suo Novecento.BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Ma rispondeva sempre alle email L’ultimo messaggio del sociologo per posta elettronica
Francesca Paci Busiarda
Zygmunt Bauman usava molto la posta elettronica, non quella sguaiata piazza virtuale rappresentata dai social network, ma lo spazio privato dell’epistolario moderno. In una delle ultime email - all’indomani della Brexit, del critico referendum ungherese, del timore crescente che la sua Europa finisse per implodere soffocata dai propri muri - mi scriveva, evidenziando le parole in grassetto: «Vorrei tanto avere delle risposte, almeno alcune risposte, ma non ne ho. Come molti, cammino oggi su un terreno inesplorato e mi attengo al comandamento di Ludwig Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. È bene diffidare di quegli sbruffoni che si vantano di avere una linea diretta con il futuro. Nessuno di loro, in fondo, aveva visto arrivare la crisi sui cui effetti ci piacerebbe adesso avere un’anticipazione!».
Rispondeva sempre alle email, Bauman. Magari premetteva di non avere tempo, di non conoscere a fondo la materia, spiegava con il peculiare umorismo di un polacco trapiantato in Gran Bretagna di non essere adeguato. Ma poi finiva regolarmente per cimentarsi, trascinato dalla bruciante passione civile e da una infinita generosità intellettuale.
Quando nel 2014 Laterza gli propose di partecipare al progetto Eutopia, la rivista online diritta da Eric Jozsef che per quasi due anni avrebbe stimolato il dibattito sull’Europa alla maniera di un think tank, si associò all’impresa con un entusiasmo pari solo a quello di un altro collaboratore tanto agée quanto vitale, Jacques Le Goff, scomparso nella primavera di tre anni fa.
Chi l’ha conosciuto di persona sa quanto Bauman ascoltasse con l’attenzione di un neofita. E più ancora dei colleghi accademici o degli studenti lo sanno le migliaia di persone qualsiasi che, avvicinatolo al termine di una presentazione per chiedere l’autografo, l’hanno visto intrattenersi e interloquire con loro fin quando gli organizzatori non lo trascinavano letteralmente via, quasi di peso.
Nel mondo in rapida trasformazione il teorico della «società liquida» è rimasto fedele all’idea di Europa come sola risposta possibile alla complessità del presente. A volte, uomo del dubbio, ammetteva la difficoltà di capire. Cosa aspettarsi dall’elezione di Donald Trump, dall’ascesa dell’astro Putin, dalla contagiosa febbre populista? «Solo un Profeta potrebbe rispondere alle domande dell’attualità e io non sono davvero uno di questi Profeti...». In altri casi, come di fronte al terrorismo, agli attentati, al sospetto crescente dell’altro da sé, l’urgenza di trovare un bandolo aveva la meglio sulla ritrosia e il bisogno di riflettere. E il 91enne Bauman, con la velocità di un adolescente, digitava in tempo reale: «Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme». Per ora è morto il suo Novecento.BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
“I profughi ci ricordano quel che vorremmo scordare” Busiarda
I confini non vengono tracciati per rimediare alle diversità; sono le differenze che nascono, si palesano o vengono inventate in seguito alla demarcazione dei confini, ha scritto il grande antropologo norvegese Fredrik Barth nel suo fondamentale Gruppi etnici e confini, l’organizzazione sociale delle differenze culturali. Le differenze vengono avidamente cercate, o escogitate, per legittimare ex post l’esistenza dei confini; per giustificare la separazione reciproca, e il «doppio linguaggio» orwelliano, la tattica dei «due pesi due misure», con la dualità dei codici comportamentali finalizzata a salvaguardare i muri di cemento alti quattro metri, le barriere di filo spinato e le prigioni e i campi di detenzione che attendono chi osa valicarli.
Oggi vediamo in tutta Europa tentativi di riprendere le tattiche descritte da Barth, tentativi finora liquidati come gesti eccentrici di arringatori politici senza scrupoli. Politiche associate fino a poco tempo fa ai margini estremi della società europea si stanno spostando rapidamente al centro della politica continentale. Eppure, dalla tragedia avvenuta nell’ottobre 2013 al largo di Lampedusa, «le politiche dei leader non sono cambiate», conclude Maximillian Popp nel suo articolo «Uno sguardo dall’interno alla vergognosa politica d’immigrazione dell’Ue», uscito su Der Spiegel l’11 settembre 2014. Di fatto, in Europa non esiste un percorso che i profughi possano seguire legalmente: né la maggior parte dei siriani, che solo in una piccola parte sono stati portati in Germania come «profughi contingenti», né gli iracheni, né i cittadini dei Paesi travagliati dell’Africa occidentale. Chi vuole chiedere asilo nell’Ue deve prima entrarvi illegalmente, sui barconi dei contrabbandieri, nascosti nei pulmini o a bordo di aerei di linea, con passaporti falsi. L’Ue si sta chiudendo. È stata la sua trasformazione in fortezza a creare le condizioni che fanno morire ai suoi confini. Molti profughi scelgono i pericoli della traversata del Mediterraneo perché Frontex sta chiudendo le rotte migratorie dell’interno.
La reazione dell’Ue alla tragedia di Lampedusa del 2013 è un invito a ripeterla ancora e ancora. L’esplosione del sentimento di solidarietà suscitata dalla foto di Aylan Kurdi non è durata a lungo, i confini d’Europa vengono fortificati contro gli «altri» indesiderati, e le condizioni di ingresso nell’Ue diventano sempre più rigide. Le manifestazioni di solidarietà con chi ha vissuto tragedie disumane si sono spostate - o sono state spostate - ai margini del dibattito, lasciando la scena politica agli allarmismi, all’insensibilità morale e all’indifferenza. Il dibattito politico è tornato sul catalogo dei «soliti sospetti», appellandosi a un misto di paure economiche e di insicurezza.
Il fatto è che l’improvvisa apparizione di una massa di stranieri che bussano alle nostre porte non è stata causata da noi, né viene da noi controllata. Non stupisce che le ondate successive di migranti sono viste come (parafrasando Bertolt Brecht) «portatrici di cattive notizie». Continuano a ricordarci quello che vorremmo dimenticare, meglio ancora rimuovere: esistono forze globali, remote, a volte udibili ma intangibili, oscure e misteriose, che possono investire le nostre vite ignorando quello che ne pensiamo e quello che desideriamo.
[Traduzione di Anna Zafesova] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
L’eredità di Bauman “Retrotopia” la sua ultima parola
RAFFAELLA DE SANTIS Rep 11 1 2017
Con Bauman l’intellettuale è sceso dalla torre d’avorio e si è mischiato alla gente. All’indomani della morte del grande sociologo polacco i social network sono tutti per lui, quasi si trattasse di una popstar. Nella Rete navigano frasi estrapolate da interviste, citazioni dai libri, video di conferenze. I temi sono la solitudine, l’amore, l’esclusione, la paura, la felicità, il futuro. Temi che appartengono a tutti e che Bauman ha saputo intercettare e approfondire. La “liquidità” c’è ma scorre, si dissolve tra gli altri, come è naturale che sia. «Non è mai stato un contabile delle idee. Era pieno di curiosità. Gli interessavano tutti i fenomeni nuovi, non era il maestro che si mette su un piedistallo, amava mescolarsi. Ma non esistono grandi intellettuali che non dialoghino
con la società». Giuseppe Laterza ha pubblicato con la sua casa editrice più di trenta titoli di Zygmunt Bauman e venduto oltre 500 mila copie.
Il primo saggio tradotto è stato Dentro la globalizzazione,
l’ultimo è atteso per settembre ed ha per titolo un neologismo,
Retrotopia, cioè l’altra faccia dell’utopia, quella che guarda al passato e non al futuro, che rischia di tornare indietro invece di andare avanti, che si illude di fuggire il presente trovando riparo in un’indistinta età dell’oro. Il testo, che uscirà a fine gennaio in inglese per la Polity Press, parla dei problemi di oggi, della tentazione a far rinascere le frontiere degli stati nazionali o della tendenza ad affidarsi alla leadership dell’uomo forte. È articolato in più tempi (il ritorno a Hobbes, il ritorno alle tribù, il ritorno all’ineguaglianza e quello al ventre materno) ed è un ulteriore modo per rileggere la tensione tra individualismo e cultura comunitaria: «Proprio questa tensione – spiega Laterza – è alla base del successo di Bauman in Italia, un Paese dove la società, la comunità, ha ancora un peso».
Poi i ricordi si mescolano ai libri, la vita vera a quella indagata con le categorie della sociologia. Non c’è nessuno, tra amici o compagni di lavoro, che non abbia aneddoti da raccontare. Laterza ricorda il giorno che Bauman volle partecipare a un’asta su Internet per l’acquisto di un iPhone o la volta che a Trento preferì salutare tutti dopo una conferenza per finire a mangiare una pizza con un suo lettore sconosciuto. Così le due eredità si confondono, intellettuale e umana, riuscendo nel miracolo raro di incarnare un intellettuale che non tradisce nella vita ciò che afferma nella scrittura.
«Non è un caso – aggiunge Laterza – che tutti i suoi libri inizino raccontando una storia. Bauman non è un pensatore sistematico, parte sempre da frammenti, spunti concreti, dalla vita. Anche papa Francesco ha parlato di vite di scarto, mutuando l’espressione da un suo libro».
A chiedere in giro nessuno sa indicare un intellettuale che possa prenderne il posto. Bauman non ha avuto una scuola, è stato il sociologo europeo per eccellenza, sicuramente quello più di successo. Citato, rimaneggiato, saccheggiato, amato e anche odiato. Da Modernità liquida in poi – era il 2000 – ha fornito una categoria impareggiabile con cui leggere le dinamiche dei nostri tempi e un po’ ne è rimasto prigioniero, come sempre accade quando un concetto si trasforma in brand. Chiara Saraceno, sociologa che con Bauman ha in comune molti temi, dalla povertà alla famiglia, non ama ricordare Bauman come sociologo della liquidità: «Il concetto di società liquida è stato abusato, diventando una specie di passepartout. Credo invece che a rimanere sarà la sua capacità di sollevare domande importanti, di vivere la tensione del presente, l’attrito tra l’emergere dell’individualità e la perdita delle appartenenze collettive, dalla famiglia al partito alle identità professionali».
Senza dubbio Bauman aveva le antenne vigili sul mondo, sulle diseguaglianze, le derive della globalizzazione. Vanni Codeluppi, professore di sociologia dei media allo Iulm di Milano, individua nella capacità di indagare il presente la sua eredità: «Si è occupato di lavoro, migrazioni, crisi sociali, olocausto, lavoro, libertà. Una marea di temi, perfino dei reality show, della moda e dei social network. Il suo lascito non è in un concetto, né nella riduttiva categoria della liquidità, ma in questa moltiplicazione di interessi, nello sguardo critico attento ai mutamenti della società, senza paura di metterne in luce gli aspetti negativi». E senza temere di sconfinare in altri territori. Sempre a settembre uscirà per Einaudi Elogio della letteratura, scritto con Riccardo Mazzeo, in cui convivono psicoanalisi, narrativa e sociologia. Spiega Mazzeo: «Per Bauman la sociologia si era ossificata, i sociologi non andavano più a vedere cosa c’era fuori, avevano perso interesse nell’uomo». Bauman ha saputo parlarci della paura quando stavamo avendo paura, dell’amore quando faticavamo a crederci, degli esclusi quando non volevamo vederli. Dice Codeluppi: «Poteva sembrare un po’ moralistico, ma non vedo eredi in giro. Era rimasto il solo a saper individuare quali sono i problemi delle persone comuni». Per questo amava frequentare i festival, almeno quanto le aule universitarie.
Il nuovo saggio racconterà i pericoli di un’utopia che torna al passato e fugge il presente
Bauman Un gigante nel mondo liquido
GIANCARLO BOSETTI EZIO MAURO RAFFAELLA DE SANTIS ZYGMUNT BAUMAN Rep 10 1 2017
Era la voce narrante di una modernità privata delle sue “solide” basi economiche, l’analista di un mondo orfano della grande industria di massa, ma ancora combattivo e desideroso di riscossa dalle iniquità estreme e da un consumismo cieco. Zygmunt Bauman, il sociologo polacco diventato cittadino inglese, se n’è andato ieri nella sua Leeds. Non incontreremo più quella presenza sottile, il fisico allampanato, il collo allungato, un volto dall’aria fragile e mite di vecchio, da cui sgorgava però, a sorpresa, un eloquio forte e deciso, capace di sedurre platee imponenti o aule universitarie, parlando a braccio,
fluente, con precisione, senza leggere appunti. Di famiglia ebrea, Zygmunt dovette lasciare la Polonia occupata dai tedeschi per arruolarsi nell’esercito sovietico; tornato in Polonia fu di nuovo costretto ad andarsene di fronte a un’ondata antisemitica, per insegnare in Israele. Entrò in conflitto con il padre, di cui non condivideva il sionismo, e trovò casa e cattedra in Inghilterra.
La morte era un tema a lui caro, già ben prima della perdita della moglie Janina, nel 2009 – un colpo che arrestò per qualche tempo la sua incredibile fertilità di scrittore – perché Bauman aveva una forte propensione per la filosofia, la psicoanalisi, l’antropologia, per quelle domande generali di senso che molti “tecnici” del sapere evitano perché pericolose per la reputazione scientifica in qualunque disciplina. E quel “pungiglione della fragilità della vita”, della finitezza umana, della inevitabilità del termine (argomenti centrali di
Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino 2012), tornava nei suoi discorsi, anche perché questo dato, coevo alla specie umana, si fa ancora più sottile nel mondo precario della “seconda modernità”, quella liquefatta e leggera, che ha sostituito la precedente, stabile e pesante. Già, perché la “prima modernità” riusciva a tenerci impegnati sul “senso della vita” e a distrarci con più efficacia dal “pungiglione”.
Una delle migliori raccolte dei suoi saggi, La società individualizzata, (il Mulino, 2002) comincia proprio dalla negazione della morte: l’essere umano si protende oltre la natura, si innalza sopra di essa, ma proprio «il volo della vita ci conduce inevitabilmente (e letteralmente) all’incontro con la terra»; proprio volando possiamo meglio scrutare la nostra finitudine, rendendola più visibile, indimenticabile e dolorosa. E poiché non possiamo dimenticare la nostra natura possiamo e dobbiamo continuare a sfidarla. A Bauman piaceva la tesi di Ernest Becker, l’antropologo culturale della “negazione della morte”: tutto ciò che l’uomo fa nel suo mondo di simboli è un tentativo di negare e superare il suo destino grottesco. Non facciamo che inseguire “strategie di trascendenza”. Ci lanciamo nell’oblio dei giochi di società, nei trucchi psicologici, in preoccupazioni avulse dalla realtà. È una forma di pazzia: pazzia convenuta, pazzia condivisa, pazzia dignitosa, pur sempre pazzia. Chiamiamo società – dice Bauman – il colossale marchingegno che serve proprio a questo: convenire e conferire dignità a ciò che è stato convenuto e condiviso. Gli usi, le abitudini e la routine eliminano il veleno dell’assurdo dal “pungiglione”. Tutte le società sono fabbriche di significati, ma anche qualche cosa di più; sono i vivai della “vita piena di significato”.
Bauman è stato un infaticabile lettore, che rigenera e ripropone altri autori seguendo il filo del suo discorso, che negli ultimi decenni ha fornito il linguaggio, diventato corrente, per descrivere il passaggio dalla modernità pesante alla postmodernità. In questa tessitura di un nuovo senso comune si è servito di Anthony Giddens, Ulrich Beck, Claus Offe, Richard Sennett, Pierre Bourdieu, Hans Georg Gadamer, Richard Rorty e Richard Bernstein. E ne ha dato una esemplare versione nel libro con Ezio Mauro, Babel (Laterza 2015).
Il postmodernismo di Bauman si definisce in primo luogo per le sue basi materiali: la fine del capitalismo ortodosso, quello in cui il capitalista rende i lavoratori dipendenti e li immobilizza. La modernità pesante era quella della reciproca dipendenza tra capitale e lavoro, una prigione comune, in cui ciascuna delle due parti aveva l’interesse acquisito a mantenere l’altra nella giusta condizione. Era l’orizzonte socialdemocratico, fordista, del welfare state, un orizzonte di lunga durata, in cui il lavoro era fisso in un’azienda, la cui esistenza era nettamente più lunga della speranza di vita dei suoi operai. Nella seconda modernità l’orizzonte è di breve termine, si cambia lavoro dieci volte in una vita, l’incertezza è un fattore di individualizzazione, l’idea di interessi comuni si fa nebulosa e in definitiva incomprensibile, la solidarietà non è più una tattica razionale. La “liquidità” suggerisce strategie di vita del tutto diverse da quelle che portarono alle organizzazioni difensive e militanti della classe operaia. Il luogo di lavoro assomiglia di più a un campeggio che a una casa e tra capitale e lavoro è frequente il disimpegno unilaterale. Non stupisce che lo stesso modello volatile attecchisca nella vita sentimentale e famigliare. Il sistema impone la flessibilità e costringe gli individui a cercare una soluzione individuale, biografica, a un problema generale. Il dettaglio, rovinoso, è che queste soluzioni non esistono e perciò non resta che trovare appigli per distrarsi o appendervi i propri malumori. Le consolazioni del mercato ci sono, sì, ma il paradiso consumistico ha il proprio “inferno portatile”: il tormento riservato ai visitatori non aventi diritto. Chiamatelo se volete “trionfo dei nomadi”, dopo il lungo periodo storico iniziato con il “trionfo degli stanziali” (l’agricoltura). Ecco la globalizzazione secondo Bauman. La non territorialità del potere delle nuove élite (Manuel Castells), vincitrici della grande guerra di indipendenza dallo spazio, somiglia alla concezione cristiana del paradiso, nell’aldi là.
Bauman ha prospettato una concezione forte del pluralismo, culturale, e del dialogo tra le differenze, in polemica per esempio con Ernest Gellner e con le tesi della superiorità della ragione occidentale e dell’individualizzazione come modello di vita universale. Per lui il pluralismo è irreversibile, le visioni del mondo sono radicate in diverse tradizioni culturali e non sono riducibili a una sola. E dunque la comunicazione attraverso le diverse tradizioni diventa il problema principale del nostro tempo. Ecco una nota da appuntarsi nel dare l’addio a un amabile grande vecchio che ci lascia: non ci sarà una massiccia conversione verso l’omogeneità quale che sia: urgono specialisti nella traduzione e urge sviluppare l’arte della civile conversazione, secondo i migliori insegnamenti della filosofia, dell’ermeneutica e del pragmatismo: due tra le migliori fioriture del pensiero umano, la prima in Europa (da Gadamer a Ricoeur), il secondo in America (da James a Dewey e Rorty).
©RIPRODUZIONE RISERVATA
L’uomo che non sapeva di insegnare con gli occhi
Il sociologo rifiutava di farsi legare al suo concetto più noto. Procedeva per dubbi e raccoglieva provocazioni
EZIO MAURO Rep 10 1 2017
Quando gli facevi una domanda, o sollevavi una questione, appoggiava la testa alla mano sinistra, la rovesciava indietro finché gli occhi trovavano la direzione della risposta. Allora Zygmunt Bauman senza accorgersene incominciava ogni volta a insegnare: non a rispondere, ma inconsapevolmente a insegnare. Era come se lo sguardo disciplinasse la confusione dei mondi che lui abitava, la complessità dell’esistenza che aveva attraversato, dal nazismo al comunismo sovietico, dalla Polonia a Israele, all’Inghilterra, per radunare a 91 anni la vita e lo studio, la sociologia e la filosofia alla scoperta
e all’indagine dell’ultima mutazione del moderno, ogni volta esplorando e rivelando nuovi spazi di conoscenza dei fenomeni, che aiutavano a capire, in qualche caso a resistere, addirittura a vivere.
In tanti anni di dibattiti pubblici e privati, gli ultimi, non l’ho mai sentito pronunciare la formula della “società liquida” alla quale deve la sua enorme notorietà e anche la sua banalizzazione. Anche quando nella discussione quella teoria sembrava la giusta, inevitabile conclusione di un ragionamento, ecco che Bauman scartava, apriva un’altra strada, aggiungeva qualcosa, andava oltre. Non gliel’ho mai chiesto, ma credo che ci fosse qui il rifiuto di farsi rinchiudere in uno stereotipo interpretativo, la rinuncia a scorciatoie cognitive, la voglia di continuare a cercare, con la fatica conseguente e inevitabile di procedere per dubbi, raccogliere provocazioni, accettare contraddizioni.
Perché in fondo il nucleo dell’inquietudine dell’uomo andava al di là dei risultati scientifici del professore. Se dovessi trovare un senso sistemico nell’ultima ricerca di Bauman, direi che sta nello smarrimento del concetto di “pubblico”, in una riduzione del senso di responsabilità comune che tocca il sentimento civico, la qualità della cittadinanza, dunque corrode la politica e arriva fatalmente a intaccare la democrazia. No, lui non si accontentava di aver rivelato il meccanismo con cui erano state smontate tutte le strutture rigide del secolo scorso (non solo le ideologie ma anche le appartenenze), per entrare in un flusso orizzontale dove si sciolgono strutture, categorie, soggetti, in una delega continua che tutti noi facciamo a favore delle tecnologie, ritenendoci per la prima volta liberi non perché esercitiamo nella pienezza i nostri diritti, ma al contrario perché siamo liberati dal peso della responsabilità. Per lui la tecnologia è come l’accetta, che può essere usata per spaccare la legna o per tagliare le teste, e la scelta non appartiene all’accetta ma a chi la impugna: dunque lo strumento tecnologico non fa avanzare la democrazia e i diritti umani al nostro posto, e non ci esenta dalla nostra responsabilità in proposito, anche se può sedurci con il demone di questa moderna tentazione. Così come la rete non è uno spazio di sfida alle idee ricevute, ma una replica elettronica del suo tessitore, popolata da simili con un’opinione conforme.
Fuori, lo studioso aveva visto per primo la politica ridursi a evento, il leader a guru, con la popolarità che sostituisce la fama, la notorietà che prende il posto della stima e il cittadino — potremmo aggiungere — ridotto al rango minimo di spettatore, che si illude di partecipare, ma può tutt’al più applaudire, fischiare, dare la sua rabbia in appalto o a noleggio a qualcuno, per qualche tempo. E qui, proprio qui aveva visto arrivare il populismo, di destra e di pseudo- sinistra: «Alcuni acchiappavoti, che si presentano come outsider non toccati dalla corruzione fino al momento, riescono a lucrare sulla frustrazione dell’elettorato facendo promesse che sanno benissimo non potranno mantenere una volta eletti». Ma come si può evitare questa deriva, si domandava Bauman, se la politica diventa indistinguibile da uno show, se il discorso politico si riduce a una posa per selfie, se la battaglia delle idee viene sostituita da una competizione tra spin doctors, spesso con i dadi truccati della post-verità?
L’altra faccia di questa post- moderna irresponsabilità civile, politica, sta inevitabilmente nel concetto di “esclusione” che tormenta Bauman fino alla fine, quando ci avverte che la produzione di “rifiuti umani” o di esseri umani in esubero, eccedenti, dunque “scartati” è un risultato inevitabile della modernizzazione e un effetto collaterale della «costruzione di ordine » così come oggi la intendiamo. E una certa politica che si alimenta delle «insicurezze intrinseche all’esistenza umana» dedica le sue fatiche «a creare minacce dalle quali poi potrà promettere di proteggere gli uomini». È l’illusione di riaffermare una qualche forma di sovranità nazionale e di controllo del territorio agendo sull’insicurezza collettiva. Mentre, secon- do Bauman, è vero che i vecchi Stati-nazione stanno perdendo la capacità di proteggere la libertà e l’uguaglianza di fronte alle dimensioni dei fenomeni e alla complessità di un mondo globale più ampio di ogni sovranità: ma la possibilità di salvezza per la democrazia dipende dalla nostra capacità di guardare, pensare e agire al di sopra dei confini degli Stati nazionali, dove vorrebbero rinchiuderci. Anche perché è il confine che crea il diverso.
Dunque, c’è un futuro per la democrazia, c’è uno spazio per la speranza. «Noi non siamo predeterminati », diceva Bauman, alla fine di un lungo dialogo. Ma dobbiamo imparare a resistere — aggiungeva — non solo alla forza, ma alla tentazione del denaro, della manipolazione, della seduzione, del potere dolce, che punta sull’appetito umano del piacere. Circondati come siamo, gli domandai quel giorno, possiamo farcela? Il professore non rispose subito. Poi mi accorsi che stava canticchiando: «Que sera, sera». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“Il mio maestro tra guida spericolata e cocktail”
Riccardo Mazzeo ricorda lo studioso: “Un giorno mi vide arrivare in taxi e mi rimproverò Per lui il bus era più interessante”
RAFFAELLA DE SANTIS Rep 10 1 2017
L’ultima volta si erano visti a Mantova, a settembre. In genere quando si incontravano durante il festival, Bauman e Riccardo Mazzeo cenavano insieme. Era stato così anche quella sera, poi erano tornati in albergo a piedi, come facevano ogni anno, chiacchierando di vita e di libri. Quel giorno però Bauman era stanco, affaticato. «Camminava lentamente, l’artrite dolorosissima di cui soffriva gli impediva di tenere il solito passo. Abbiamo impiegato un’ora a percorrere un breve tragitto. Se ci ripenso ora quel percorso è stato il nostro lento saluto». Ha la voce commossa Riccardo Mazzeo, ma trova la forza di ricordare Bauman, che chiama senza ritrosie “maestro”.
La collaborazione e l’amicizia tra Bauman e Mazzeo era iniziata dieci anni prima a Trento, quando Mazzeo, editor per la casa editrice Erickson, studioso di psicoanalisi e letteratura, aveva trovato il coraggio e si era avvicinato al palco. Da allora hanno condiviso serate, mail, affetti e discussioni intellettuali. Ne sono nati due libri scritti insieme,
Conversazioni sull’educazione
(Erickson, 2011), e Elogio della letteratura, che uscirà per Einaudi il prossimo settembre. Mazzeo ha anche tradotto dall’inglese La scienza della libertà e dallo spagnolo Il ritorno del pendolo e curato un testo di conferenze intitolato Homo consumens.
Dopo il vostro recente incontro a Mantova vi eravate più visti?
«In questi mesi avrei voluto andare a trovarlo. Zygmunt era malato, ma non voleva essere ricoverato all’ospedale. Si rifiutava anche di prendere le medicine. È morto nella sua casa di Leeds, la stessa dove viveva da 45 anni. Come era nel suo temperamento alla fine ha preferito non vedere nessuno. Era un uomo generosissimo e forte, abituato a prendersi cura degli altri, non era abituato a stare dalla parte di chi ha bisogno di attenzioni ».
Quando l’aveva sentito l’ultima volta?
« Il 19 dicembre avevo sentito sua figlia, Lydia. Era fiduciosa, quel giorno Zygmunt si sentiva meglio, si era perfino alzato e si era messo a lavorare a un libro. Aveva lavorato per due o tre ore di seguito. Poi il 31 dicembre mi ha chiamato Aleksandra Kania, la sua seconda moglie, dicendomi che era peggiorato di nuovo ».
Che ruolo ha avuto l’incontro con Bauman nella sua vita?
« Non saprei da dove iniziare, tante sono le cose che mi ha insegnato. Era un uomo carico di umanità e di voglia di vivere. Finché ha potuto. La mattina si svegliava presto e faceva una camminata a passo veloce prima di mettersi a lavorare. Preparava la colazione, amava cucinare e stare con gli amici. Quando andavo a trovarlo mi preparava i miei cocktail preferiti il Negroni e il Martini rosso, shakerandoli per migliorarli. Una volta – aveva 89 anni – venne a prendermi all’aeroporto con la sua macchina. Guidava in modo spericolato e aveva messo Beethoven a palla ».
Sembra un ritratto perfettamente in linea con il suo pensiero, negli anni sempre più legato alla vita concreta piuttosto che alle teorie astratte.
«Esattamente. Per me è stato anche, anzi soprattutto, un maestro di vita, un padre. Ci separavano trent’anni e da lui ho imparato così tante cose…, perfino a fare il papà e a prendere l’autobus. Lo guardavo, guardavo come si comportava con le sue tre figlie e imparavo».
Che cosa c’entra l’autobus?
«Un giorno mi vide arrivare in taxi e mi rimproverò. Mi disse che l’autobus era sociologicamente più interessante, perché permetteva di guardare le persone. Era tipico suo. Gli piaceva imbastire conversazioni con tutti, con il cameriere di un ristorante o con un passeggero in metropolitana, senza preclusioni ».
Aveva coniato la categoria della liquidità, ma nei suoi libri difendeva le cose durevoli, la saldezza delle relazioni dalla facile corrosione dei consumi veloci.
«Che ci credesse lo testimonia la resistenza dei suoi rapporti. Il matrimonio con Janina era durato 61 anni. Alla sua morte si era isolato, era diventato refrattario ad ogni contatto. Fino a quando un giorno sua figlia Lydia, storica dell’arte e pittrice, lo aveva convinto a fare un giro in Polonia. È lì che ha incontrato Aleksandra, che poi sposerà in seconde nozze. Si erano conosciuti tanti anni prima. Aleksandra, che oggi è un’eminente sociologa, era stata una sua studentessa di dottorato ».
Il fatto che a settembre abbia incontrato papa Francesco, l’ha stupita?
«Nient’affatto. Aveva un’ammirazione sconfinata per questo papa, che per lui incarnava lo spirito evangelico dei primordi, l’unica voce a parlare ancora contro il consumismo».
Nessun commento:
Posta un commento