domenica 12 febbraio 2017
La letteratura italiana dell'industria
Non solo Lettera 22 gli scrittori di Adriano
Paolo Volponi e Ottiero Ottieri, Leonardo Sinisgalli e Franco Fortini così la letteratura scoprì il mondo dell’industria e degli operai
PAOLO MAURI Rep 11 2 2017
Chissà se gli scrittori d’oggi che in cospicuo numero frequentano, almeno mentalmente, i commissariati e gli obitori ripensano ogni tanto agli scrittori dell’altro ieri che si erano invece posti il problema di come frequentare le fabbriche e di come parlare di industrie e di operai nei loro romanzi e nelle loro poesie. Compito non facile, affrontato con mille distinguo e naturalmente
con esiti diversi, tuttavia, ritenevano per esempio Calvino e Vittorini, compito da discutere ampiamente: ed ecco dunque un numero della rivista
Il menabò, per l’esattezza il numero 4 del 1961, interamente dedicato a letteratura e industria. Il fascicolo si apre con una poesia di Vittorio Sereni, resoconto di una o più visite in fabbrica. Un mondo che il poeta dichiara subito di non conoscere: «Che cos’è / un ciclo di lavorazione? Un cottimo / cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile le calandre, / questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente…». Un mondo imposseduto, chiosa Vittorini che introduce la discussione, auspicando una letteratura che impari a conoscere e penetrare la realtà nuova creata dalle fabbriche, così distante dalla realtà della natura cui la letteratura era da secoli abituata.
Ottiero Ottieri firma un suo
Taccuino industriale: è forse lo scrittore più desideroso (e da molti anni) di raccontare la fabbrica e gli operai, ma, osservazione poi molte volte ripresa, considera la fabbrica un mondo chiuso, nel quale «non si entra e non si esce facilmente». Difficile che ne scrivano gli operai o gli impiegati diventando artisti e difficile, per gli artisti che vivono fuori, capirne qualcosa. Ottieri scrive negli anni Cinquanta, ma fin dai primi anni Quaranta si occupa di questa nuova realtà. «Ho una pesante eredità di scrupoli, di dubbi, ambivalenze, paure. Assodato questo, il massimo problema è stato di raggiungere la classe operaia per altre vie da quelle del partito». Ottieri non si sente un “rivoluzionario professionale” e scrive: «Ho piantato quindi giornali e case editrici, per entrare in una industria speciale, unica in Italia, comandata da un uomo unico, ma pur sempre industria».
Quell’industria è la Olivetti di Ivrea, alla quale (ma non è l’unico) lo scrittore accenna con pudore senza citarla direttamente. Quando esce il numero citato del Menabò, Adriano Olivetti è già morto da un anno. È lui ad aver costruito una fabbrica trasparente e ad aver cercato di realizzare una comunità (il termine non è casuale) diversa, badando al benessere anche psicologico degli operai, preoccupandosi di allestire mense, asili e biblioteche e portando gli intellettuali, spesso poeti e scrittori, nel vivo del lavoro industriale. Non solo per provvedere alla pubblicità, tipico lavoro per creativi, ma anche per selezionare il personale e talvolta dirigerlo.
Giuseppe Lupo ha pubblicato La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità, pagg. 316, euro 15) nel quale esplora con molta competenza una grande quantità di materiale sparso tra libri, riviste (anche il già citato
Menabò) e testimonianze giornalistiche per ricostruire quella che fu un’avventura singolare e ancora oggi esemplare. Tutto comincia, si può dire, da una pubblicità, firmata da Nivola, Pintori e Sinisgalli, con cui Olivetti lancia l’idea che si possa accantonare la penna per mettersi a scrivere a macchina. Si vede un calamaio con dentro una rosa che accompagna una stilografica poggiata di traverso, mentre il logo Olivetti, che rimanda alla macchina da scrivere, è quasi in disparte.
Ma tutto, in realtà, comincia quando l’ingegner Olivetti elabora e discute fin dagli anni Trenta un progetto che sta come terza via tra il capitalismo e il comunismo, poggiando su un senso a suo modo religioso della vita e della comunità. Ed è appunto nel ’46 che nasce la rivista Comunità inaugurata da un editoriale, profetico e suggestivo, scrive Lupo, di Ignazio Silone intitolato Il mondo che nasce.
Olivetti aveva posto l’urbanistica al centro della sua riflessione e con l’urbanistica un nuovo modo di progettare il lavoro. Leonardo Sinisgalli, che fu forse il primo intellettuale chiamato da Olivetti, ebbe modo di dire che la sua morte prematura fu traumatica come quella di Kennedy. Olivetti non vide stampato il più olivettiano dei romanzi di Volponi, Memoriale, che uscì nel ’62, con al centro l’operaio Albino Saluggia e neppure fece a tempo a leggere Lessico famigliare di Natalia Ginzburg dove gli è riservato un ritratto, un’istantanea romana: «Era a piedi; andava solo, col suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni… ». Adriano aveva sposato Paola Levi, sorella di Natalia.
Ma torniamo agli operai e agli intellettuali. Nel 1995 Paolo Volponi, rispondendo a una domanda di Francesco Leonetti, dice che gli intellettuali allora «non miravano al potere servendolo e contemporaneamente investendosene, ma guardavano al potere per criticarlo, per svelarlo, per aiutarlo ad essere sempre più legittimo e fecondo ». Franco Fortini, che in Olivetti si occupava di pubblicità, visse in modo molto problematico il suo essere dentro la fabbrica volendo prendere però le distanze, al punto da inventare per il poeta una strategia del falso, uno stratagemma per poter essere infido verso il potere. Nel celebre saggio Astuti come colombe uscito nel numero 5 del Menabò, Fortini passa al pettine fitto il numero precedente e si interroga sul discorso di Vittorini che ritiene negativo il vecchio e positivo il nuovo. «Un albero è arcaico e un televisore è nuovo? Ecco un modo di ragionare che non cessa di sorprendermi ». E più avanti: «Come scrittore mi dico di voler apparire il più astratto, il meno impegnato e impiegabile, il più “reazionario” degli scrittori. Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile ».
Dunque niente era pacifico e scontato. Se Ottieri aveva raccontato l’Olivetti di Pozzuoli in
Donnarumma all’assalto, se Volponi aveva colto il male di vivere nell’operaio Saluggia, la collaborazione tra intellettuali e industria non era idilliaca, ma ovviamente problematica. E l’Olivetti non fu l’unica a impiegare scrittori e poeti tra i suoi dirigenti, lo fecero anche la Pirelli e altre industrie. La storia del Novecento è anche storia di industrie e dunque di operai e di alienazione. Tempi moderni è come un sasso che infrange il cristallo di una vetrina. Il cinema e la letteratura continueranno a raccontare gli operai che non vanno in paradiso. Romanzo popolare di Monicelli ha per colonna sonora una canzone di Jannacci, quella di Vincenzina che «vuol bene alla fabbrica». Balestrini aveva fatto sfogare un operaio nel suo Vogliamo tutto. E forse un’epoca finisce con La dismissione di Ermanno Rea. La Olivetti di Adriano rimane nella memoria come un laboratorio che talvolta sembra fantascienza. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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