Sel si spacca Mezzo partito lascia Vendola e va da Pisapia
Andrea Carugati Busiarda 11 2 2017
Dopo la discesa in campo di Giuliano Pisapia, il cantiere della sinistra che si autodefinisce “di governo” è in pieno fermento. Domenica, al teatro Ambra Jovinelli di Roma, l’ala di Sinistra italiana che fa riferimento al capogruppo Arturo Scotto e al vicepresidente del Lazio Massimiliano Smeriglio farà un passo netto nella direzione dell’ex sindaco di Milano, con una convention che guarda al suo Campo progressista e che prenderà ancor più le distanza dal gruppo di testa di Si, Fratoianni, Vendola e Fassina. Di fatto, il grosso della truppa non andrà al congresso fondativo di Rimini dal 17 al 19 febbraio. Segnale di una spaccatura ormai irrecuperabile. «Non abbiamo partecipato ai congressi territoriali delle scorse settimane, e da allora non ci è arrivato nessun segnale politico», spiega Scotto, che a Rimini potrebbe andare ma che considera il percorso politico comune ormai concluso. Da una parte c’è chi, come lui e Pisapia, intende costruire un nuovo centrosinistra. Dall’altra chi come Fratoianni guarda a Podemos (sarà a Madrid al congresso) e alla Linke tedesca. «Il congresso di Si se le possono fare da soli», spiega Smeriglio, che ha già tagliato definitivamente i ponti e sarà il 14 febbraio a Milano con Pisapia, Boldrini e Franco Monaco al lancio di Campo progressista. «I compagni di Sel vogliono costruire una forza minoritaria, destinata all’irrilevanza. Noi vogliamo contribuire a rifondare il campo democratico e spostarne a sinistra il baricentro, come hanno fatto Sanders negli Usa e Hamon in Francia». Alleati col Pd di Renzi? «Impossibile, cosa faremo alle politiche lo decideremo insieme a Bersani, D’Alema, Pisapia, Rossi, Emiliano. Vogliamo federare un centrosinistra alternativo a Renzi a partire dal lavoro».
Il primo passaggio, domenica, sarà il divorzio da Sinistra italiana, alla presenza di circa 500 militanti e amministratori locali. Poi l’11 marzo, sempre a Roma, il lancio nazionale di Campo progressista con Pisapia. «La nostra assemblea sarà replicata su tutti i territori», spiega Scotto, che tuttavia non intende lasciare la guida del gruppo di Si alla Camera. Con lui 15 deputati, circa la metà del gruppo, destinati a una difficile coabitazione con i colleghi vicini a Fratoianni. Domenica alla “prima” nella Capitale ci saranno come ospiti Gianni Cuperlo e Nico Stumpo e Anna Falcone dei comitati per il No al referendum. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Sinistra italiana parte con una scissione
IL CAPOGRUPPO SCOTTO RIUNISCE A ROMA L’ALA CHE GUARDA A PISAPIA E A UN’INTESA CON IL PD: “RENZI È ARCHIVIATO”
ANNALISA CUZZOCREA Rep 11 2 2017
Fuori da Sinistra italiana, verso il Campo progressista di Giuliano Pisapia. Un pezzo del partito nato dalle ceneri di Sel potrebbe non presentarsi al congresso fondativo di Rimini, il 17 febbraio. Il capogruppo di Si alla Camera Arturo Scotto, dopo aver rinunciato alla corsa per la segreteria, domani riunisce i suoi all’Ambra Jovinelli di Roma. L’iniziativa si chiama “SiApre”, e il nome dice già tutto. L’idea di una Sinistra italiana chiusa e non dialogante con il progetto di Pisapia e con un Pd molto in divenire non piace a Scotto e a chi sosteneva la sua mozione. «Eravamo quasi al 50 per cento», assicura chi è con lui. Mentre si parla di 16 parlamentari che molto probabilmente (salvo cambi di rotta improvvisi di Nichi Vendola e Nicola Fratoianni) abbandoneranno la strada segnata dall’ex governatore della Puglia e dagli ex pd Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre.
Scotto è attento a non rivelare le prossime mosse, ma chiede: «In un momento in cui a sinistra tutto si muove, con D’Alema e Bersani dentro il Partito democratico, con il Campo progressista di Giulian Pisapia appena lanciato e la Cgil a lavoro per il referendum sui voucher, Sinistra italiana che fa? Si blinda? Non si pone il problema di trovare un’alternativa ai 5 Stelle e alla destra archiviando la stagione della terza via di Matteo Renzi?».
Per Scotto, Pd non significa Renzi. È questo che più lo distanzia da Vendola e Fratoianni (il compagno di partito che tra una settimana sarà incoronato segretario di Si). «Il centrosinistra non può essere fatto con il suo killer - spiega - ma Renzi è una pagina archiviata. I suoi sono i colpi di coda di una stagione declinante. Ed è soprattutto a lui che conviene una separazione consensuale a sinistra». Per rompere questo gioco, Scotto e i suoi sono pronti a uscire dal partito. In molti hanno già disertato le assemblee territoriali. Considerano il congresso irregolare e il progetto Sinistra italiana «non contendibile», infiltrato da «virus pericolosi sul tesseramento» («C’è qualcosa di strano se a Roma c’era un seggio e a Firenze sette»). L’approdo naturale è il Campo progressista di Pisapia. «Dobbiamo intenderci su un punto, la discontinuità netta con Renzi e le sue politiche - dice ancora Scotto - ma penso che quello dell’ex sindaco di Milano sia un progetto ambizioso con cui occorra interloquire».
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Renzi verso le dimissioni da segretario “O si vota a giugno o si fa il congresso”
Telefonata con Padoan: “Trattare con l’Ue, niente manovra”
Carlo Bertini Busiarda 11 2 2017
Doppio colpo, primarie a fine aprile, con dimissioni da segretario preannunciate lunedì in Direzione. E voto per le politiche a giugno, dopo essersi ripreso il partito con il consenso del popolo dei gazebo. È lo schema ambizioso - tattico e minaccioso - che in queste ore scalda gli animi del segretario Pd e del suo cerchio magico. Renzi non demorde: rincuorato dai sondaggi che danno i 5stelle in calo del 2,7% dopo il caso Raggi - e temendo di pagare nel 2018 lo stesso prezzo che costò a Bersani il sostegno al governo Monti - vuole votare a giugno. Possibilmente l’11: un «election day» per cercare di evitare la sconfitta in molte città in bilico, da Genova a Palermo, con il traino delle elezioni nazionali. Un sogno, in una fase come questa in cui il partito del non voto si ingrossa ogni giorno. Ma al quale Renzi non rinuncia, conscio di esser quello che dà le carte come ricorda Salvini.
Dunque il voto in estate, al massimo in settembre (gira anche una data, il 24): dopo aver fatto trascorrere le prossime settimane dimostrando al Paese e alle più alte istituzioni che il Parlamento non riescono a fare una nuova legge elettorale. «E se non ci riesci ora, perché dovresti riuscirci a farla tra sei mesi? Cosa cambia?», chiede il fedelissimo David Ermini.
La mediazione e le correnti
Ma dietro le minacce c’è il realismo che induce alla mediazione. Lunedì metterà le carte sul tavolo. Della serie, «ditemi se vogliamo fare la legge elettorale e andare a votare, oppure si fa subito il congresso». Mettendo tutti di fronte alle responsabilità di una decisione, quella di rinviare le urne, che può penalizzare il Pd e il Paese. Per lanciare un segnale sui rischi di urne nel 2018, ieri ha benedetto un post del fiorentino Dario Parrini, che cita l’economista Guido Tabellini: per il Paese sarebbe «assai rischioso far coincidere il massimo di incertezza politica - la campagna elettorale - con un evento come la fine del maxiscudo Bce a dicembre 2017, che può aprire una fase di forte turbolenza sui mercati».
Anche Padoan in Direzione
Si vedrà in Direzione, dove Renzi ha invitato Padoan per fargli illustrare i successi del suo governo, come la prenderà la minoranza.
Il congresso subirebbe questo timing: voto nei circoli sui candidati alla segreteria, con primarie per la leadership a fine aprile, il 23 o il 30. E poi rinvio all’autunno delle votazioni sugli organismi dirigenti locali. Fare il congresso e votare implicherebbe però una fortissima accelerazione: convocare il congresso subito, per chiudere all’angolo Bersani e compagni costringendoli a cimentarsi in battaglia. E far venire meno le ragioni di vita del governo, portando Gentiloni a dimissioni lampo il giorno dopo le primarie. Qualcuno azzarda: magari dopo un incidente parlamentare: perché la presa di distanze dal governo con la lettera dei 37 fedelissimi guidati dal fiorentino Fanucci - mirata a far quadrare i conti solo con tagli di spesa e proventi da evasione fiscale, senza aumenti di accise - è un avvertimento.
Anche se gli stessi renziani più fedeli lo definiscono «un boomerang», perché «avremmo dovuto essere almeno tutti quelli della prima ora, così sembra che perdiamo pezzi», dice uno dei firmatari. Lo stesso Renzi, nella telefonata di ieri a Padoan, ha comunque ribadito la linea: «La manovra correttiva non serve, non dovete toccare le accise, continuate a trattare con l’Ue».
Il colloquio con Orlando
Un piano che si scontra con i potentati interni, con Dario Franceschini, con cui pare abbia parlato ieri, e altri capicorrente. A partire da Andrea Orlando, con il quale Renzi si è intrattenuto ieri al Nazareno.
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Il bivio del Pd che deve scegliere tra centro e sinistra
La sentenza della Corte obbliga il partito a una svolta
Folli Rep 11 2 2017
DOPO il gran parlare che se n’è fatto, la scissione del Pd non è più un tema di stretta attualità. Può tornare in auge, ma al momento la crisi del partito si sviluppa in altre forme. Per esempio nella strana polemica intorno all’aumento delle accise sulla benzina: è singolare che un gruppo di deputati del Pd legati a Renzi — ma senza che il segretario si faccia coinvolgere — critichi il presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro in modo così aspro. Più che una polemica, sembra una ripicca; di fatto è una dimostrazione di debolezza, non certo di forza. E augurabile che la direzione di lunedì, accettando il dissolversi della prospettiva elettorale a giugno, sappia svilupparsi su un altro piano. Ci sono domande importanti in cerca di risposta. Ad esempio, si tratta di capire quanto sia rimasto del rapporto carismatico fra il leader e la sua base e quanto invece il gioco sia già passato nelle mani dei capi corrente, o meglio dei notabili vecchi e nuovi. In particolare quelli che fanno parte della maggioranza, ma stanno ormai ritirando la delega consegnata tre anni fa al giovane politico di Rignano.
La discussione sul congresso - subito o in autunno - interessa ben poco l’opinione pubblica, ma è utile proprio per capire quali sono i rapporti di forza. Renzi ha bisogno di un congresso scenografico e molto mediatico, dove far valere le sue doti istrioniche per rivolgersi a un pubblico vasto, molto più ampio della platea dei quadri. Gli altri, quelli che vogliono ritirargli la delega, si muovono in un alveo più tradizionale per affermare le ragioni di un gruppo dirigente stanco di applaudire il capo. La questione di fondo è però quella che pone Emanuele Macaluso, coscienza critica di un certo mondo: “Serve un congresso vero. Anche Podemos lo fa in Spagna; perché in Italia no?”.
Il fatto è che un dibattito “vero”, cioè approfondito e urticante, deve affrontare quesiti di sostanza abbandonati sullo sfondo per troppi anni, in base al principio che i temi di destra e sinistra sono ormai mischiati e indistinguibili. Per cui il congresso, quando si terrà, dovrà definire cosa fare del Pd prima che sia troppo tardi. Un partito che considera il referendum un incidente di percorso e punta a riprendere il discorso con un “heri dicebamus”, convinto di poter rastrellare voti sia nel campo berlusconiano sia nei territori dei Cinque Stelle? Ovvero una formazione di centro in chiave neo-democristiana, in grado di riunire Franceschini, Alfano, Casini e altri, ristabilendo un ponte con i Popolari Europei, il cui referente italiano oggi è Berlusconi? O invece di nuovo una forza di centro-sinistra (peraltro già aderente ai Socialisti Europei), capace di proporre una visione sociale rinnovata, nel segno di una cultura di governo matura?
Ieri Giuliano Pisapia ha confermato in un’intervista al “Corriere” la nascita di un polo “progressista” deciso ad allearsi con il Pd al fine di spostarne l’asse a sinistra. L’ex sindaco di Milano, avendo dalla sua un’immagine non usurata e una credibilità personale, intende far leva sull’esperienza degli amministratori locali e sulle mille sigle delle associazioni, fuori dei canali politici ormai ostruiti. Il giorno prima D’Alema, intervistato da “Repubblica”, aveva descritto un percorso abbastanza simile con il tono del padre nobile, salutando come positiva la discesa in campo di Pisapia. Tuttavia emerge una distinzione non di poco conto. Entrambi accennano alla legge elettorale perché si rendono conto che i progetti politici dipendono mai come ora da come gli italiani andranno alle urne. Eppure i loro punti di vista differiscono in modo netto. Sotto questo aspetto, la Corte non solo ha messo il Parlamento di fronte a una precisa responsabilità, ma obbliga il Pd a scegliere una strada o l’altra.
Pisapia è favorevole a un’alleanza di centro-sinistra (con premio) in grado di recuperare anche la fazione “antagonista”, quella che vuole comunque opporsi. Ma ha già escluso l’intesa con i centristi di Alfano. D’Alema — paradossalmente d’accordo con Renzi — non gradisce il premio di coalizione che piace a Franceschini perché ci legge, a torto o a ragione, la rinascita del centrismo neo-democristiano. Vuole invece allearsi con la sinistra, ma inglobandola nel Pd post-renziano, una sorta di corrente. Il rischio è di creare un’incomprensione di fondo già in partenza e di trasmettere il messaggio sbagliato all’opinione pubblica. Come se il Pd e dintorni, una volta di più, non riuscissero a sottrarsi al circuito autoreferenziale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“L’assessore scappi da lì la sola speranza per Roma è una dittatura illuminata” Alberto Asor Rosa: “Non ho firmato alcun appello affinché la sindaca salvi Berdini, anzi dico a lui di salvarsi dai 5stelle: che ci fa in una giunta del genere?”LAURA SERLONI Rep 11 2 2017
Professore, lei è uno degli intellettuali che ha firmato l’appello pro Berdini alla sindaca Raggi… «Mi scusi, ma la devo interrompere. Io l’appello non l’ho firmato ».
Ma il suo nome, Alberto Asor Rosa, è scritto tra quello dei firmatari. Vuole dire che qualcuno l’ha firmata a sua insaputa?
( sorride) «Allora: la mail con la lettera è stata mandata anche a me ma io non ho risposto».
È dunque valsa la logica del silenzio assenso.
«Probabilmente ha funzionato un meccanismo del genere. Però guardi la mia stima per Berdini è senza limiti, ma come ho spiegato ai miei amici l’altra sera io pensavo che fosse più giusto non persuadere la Raggi, ma persuadere Berdini a lasciare la Raggi».
Quindi non soltanto non ha firmato l’appello, ma è persino contrario.
«L’appello non è scandaloso, ma ho una posizione diversa da quella espressa in quel testo».
Però non ha smentito.
«È firmata da miei amici di grandissimo livello culturale e morale, la smentita mi sembrava fuori luogo. Ma se lei me lo chiede, io le rispondo».
Appelli e sit-in sotto il Campidoglio pro Berdini, l’uomo della sinistra. In una amministrazione accusata di essere vicina agli ambienti della destra, l’assessore urbanista sembra essere un po’ una foglia di fico. Che ne pensa?
«Io non capisco più da molto tempo cosa ci sta a fare un uomo come lui in una giunta come questa. Uno come Berdini non sarebbe neanche mai dovuto entrarci. La giunta Raggi non può essere corretta, va il più rapidamente possibile dismessa».
Berdini ha detto sì al M5S perché ha creduto di poter portare al governo le sue battaglie contro lo sfruttamento del suolo e il metodo “palazzinari”. Un Don Chisciotte?
«Non può comunque e non avrebbe potuto funzionare. Io non ho condiviso la sua scelta, ma la mia non è una condanna del suo comportamento, semplicemente io non l’avrei mai fatto ».
A Repubblica Berdini ha detto: “Mi sono abbandonato, riportando dei pettegolezzi”.
Ma si può lavorare con qualcuno che si stima così poco?
«Lui in quella giunta non doveva entrare. Pensava di poter fare qualcosa di giusto ma è un convincimento radicalmente sbagliato. La sua esperienza lì deve terminare il prima possibile ».
Governare Roma sembra una missione quasi impossibile. Come si può salvare la città?
«Roma non si può salvare senza un lavoro di anni, non esiste una soluzione in grado di risolvere rapidamente la situazione ».
Niente politica? Di nuovo un commissario prefettizio?
«Sa cosa le dico? Che arrivo a pensare che ci vorrebbe una dittatura illuminata».
Cosa intende per “dittatura illuminata”?
«Un gruppo di esperti di prestigio indiscutibile. Ci vuole il coraggio di cominciare dallo stato disastroso delle nostre periferie, dove è sempre più terribile andare per le condizioni in cui sono ridotte. Solo con un gruppo di questo livello, la direzione di marcia potrebbe essere invertita ».
Beppe Grillo nel 2011 disse: “Meglio una dittatura illuminata che una democrazia di corrotti”. Ma a Roma anche il M5S è stato investito dagli scandali.
«Serve un periodo di governo che prescinda dalle logiche di affermazione della politica di questa o quella parte. Insomma niente polizze vita, niente strane relazioni. Se c’è un gruppo in grado di farsi accettare, è il benvenuto e forse qualcosa cambierà ».
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La sinistra al pianoforte e i precari arrabbiati La faida dentro Podemos Resa dei conti nel partito erede degli “indignados”: i militanti chiamati a scegliere tra il massimalismo del leader Iglesias e la via riformista del vice ErrejónOMERO CIAI Rep 11 2 2017
«Quelli di Errejón - dice con aria disgustata Iván, operaio precario, 35 anni - da ragazzini andavano a lezione di pianoforte. Sono la versione spagnola della gauche caviar dentro Podemos ». Dopo mesi di colpi bassi e stilettate le due anime del partito nato dalla effervescente stagione degli Indignados (maggio 2011) si presentano oggi a un Congresso, “Vistalegre II”, dal nome del palazzetto dello Sport di Madrid, dove per l’assenza di accordi preliminari, rischiano perfino la scissione, o comunque l’abbandono di chi, dei due maschi alfa - Pablo Iglesias o Iñigo Errejón -, sarà costretto a soccombere nel voto popolare online dei 450mila militanti registrati. Uno scenario impensabile a priori per un partito nato tre anni fa, che vanta nei sondaggi il primo posto a sinistra davanti a un vacillante Psoe, ha il 21 per cento dei voti, 71 seggi, e governa, in coalizione, nei Comuni di Barcellona e Madrid.
Iniziata in sordina, quando prima delle ultime elezioni a giugno dell’anno scorso Iglesias impose l’accordo elettorale con i post- comunisti, la guerra interna è andata via via inasprendosi fino a diventare non solo politica ma culturale e identitaria. Prima i segni: il pugno chiuso di Pablo, la “V” di Iñigo.
Poi i referenti: la sindacalista in lotta della Coca Cola, per Pablo; la giovane star videomaker di You-Tube, per Iñigo. E infine il territorio: per Pablo, le zone povere e degradate di Madrid come Lavapiés o Vallecas (dove vive in una casa ereditata dalla nonna), mentre il regno di Iñigo sono i quartieri di classe media socialista, come Argüelles. Ossia il sud, ad alta concentrazione di migrazioni interne e esterne, e il nord benestante di Madrid. Ma perfino l’abbigliamento: le camicie a quadri di Iglesias e le Ralph Lauren, celesti e fighette, di Iñigo. Bruno, economista, 50 anni, spiega che dentro Podemos i seguaci di Iglesias sono, a maggioranza, lavoratori precari giovani che non hanno trovato occupazione vincolata al loro livello di studi, tecnici o universitari, e sposano attitudini più dure e rivoluzionarie. Mentre quelli di Errejón sono più trasversali e meno articolati politicamente. Sinistra light. Come la sua ex, oggi portavoce al Comune di Madrid, Rita Maestre. Padre agente tributario, madre funzionaria comunale e studi nell’esclusivo Liceo italiano della capitale. Beautiful people del partito che ha cambiato la politica spagnola, commenta qualcuno, «quelli di buona famiglia che cadono sempre in piedi». Insomma, nel backstage di Podemos, con lo scontro che oppone il líder máximo, accusato di voler azzerare qualsiasi dissenso interno, con il suo numero due, sarebbe in corso nientemeno che una lotta di classe. Che adesso viene letta quasi come un paradigma della storia dei movimenti di sinistra. Gramsciani contro populisti, bolscevichi contro menscevichi, rivoluzionari contro riformisti. Così nel progetto di Podemos, Iglesias diventa il profeta dell’avanguardia chiusa e omogenea che vuole prima di tutto riaccendere le proteste cittadine, le rivolte di strada, mentre Errejón privilegia le istituzioni e le alleanze, come quella con il Psoe, senza nessuna condizione in cambio.
Meno di dieci anni fa, quando frequentavano Scienze politiche, Iglesias, la sua compagna Tania Sanchez e Errejón, andavano spesso di pomeriggio a casa di Manuel Monereo, anziano politico e avvocato, noto nel Partito comunista clandestino degli anni della dittatura, a discutere di tattica e strategia. Allora erano inseparabili. Poi nel “teatro del barrio” di Lavapiés fondarono Podemos. Oggi Pablo e Tania, sono separati e nemici, lei appoggia Iñigo. Ma anche altri esponenti della prima ora hanno preso strade diverse. Due fondatori come Carolina Bescansa e Nacho Alvarez si sono dimessi per evitare di prendere parte alla rissa tra le due fazioni. Mentre un maître à penser di Podemos, il filosofo Carlos Fernández Liria, lancia i suoi strali - soprattutto contro Iglesias - accusando gli attuali dirigenti di «giocare per assoluta irresponsabilità con le illusioni e le speranze di milioni di persone» e mettere a rischio un disegno politico importante non solo per la Spagna ma per l’Europa.
In tre anni da partito politico sono cambiate molte cose e oggi la Spagna assiste alla guerra di Podemos come fosse una telenovela di vendette tra ex amici o qualcosa di più serio come le scelte strategiche del futuro mentre nei sondaggi il movimento continua a consolidarsi come seconda forza del Paese, sempre davanti al Psoe. Però il Congresso non ha l’aria di trascorrere indolore. Se dovesse perdere, Iglesias ha già detto che metterà il suo seggio parlamentare a disposizione del partito. Se a essere sconfitto sarà Errejón, dovrà lasciare la carica di segretario politico e numero due. Dopodomani Podemos sarà comunque un’altra cosa, un’altra pelle. L’ultima mediazione tentata dal team di Iglesias è stata quella di offrire a Errejón la candidatura a sindaco di Madrid. Soluzione respinta. Si va alla conta dei voti. Se Podemos sarà più bolscevico o più menscevico lo sapremo presto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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