sabato 4 marzo 2017
Cosa vuole Trump
Nell’agenda che la nuova amministrazione ha presentato al Congresso si chiarisce che il primo obiettivo è quello di “difendere la sovranità commerciale degli Stati Uniti”
ALBERTO FLORES D’ARCAIS Rep 3 2 2017
La Casa Bianca di Donald Trump è pronta all’affondo finale contro Wto. Che The Donald volesse regolare i conti anche con l’organizzazione mondiale del commercio (dopo aver eliminato l’accordo Ttp firmato da Obama con i paesi dell’Asia e del Pacifico) era noto, adesso ci sono anche i documenti che la nuova amministrazione ha presentato mercoledì al Congresso. Nell’annuale agenda (di cui il
Financial Times ha pubblicato alcuni stralci) sulla “politica per il commercio”, viene infatti chiarito senza alcun dubbio che il governo degli Stati Uniti «non tollererà» alcuna pratica commerciale che venga considerata “unfair” (sleale) come quelle che «falsano il mercato »: ovvero i sussidi governativi, la manipolazione della valuta, il furto di proprietà intellettuale e via dicendo.
Il piano di Trump ha come primo obiettivo quello di «difendere la sovranità degli Stati Uniti» anche in campo commerciale e nel documento viene sottolineato come «il Congresso abbia detto chiaramente che gli americani (intesi sia come aziende che come individui) non sono direttamente soggetti alle decisioni che prende il Wto». Questa ultima parte, che era scritta nelle bozze fatte circolare dall’amministrazione nei giorni scorsi, non appare più nella stesura final. Gli Stati Uniti continuerebbero a far parte dell’organizzazione mondiale del commercio, ma solo nel caso le decisioni del Wto non siano d’ostacolo a quell’idea di “America First” che è alla base di tutta la politica della nuova Casa Bianca. Quindi, tanto per iniziare, niente “lacci” burocratici che possano ledere gli interessi degli Stati Uniti.
«In accordo con questi principi l’amministrazione Trump agirà in modo aggressivo per scoraggiare ogni comportamento poco corretto, mentre incoraggerà solo un mercato veramente competitivo». Quindi provvederà a «rafforzare » ogni tipo di legge americana sul commercio, «difenderà » la sovranità nazionale anche nell’ambito commerciale, userà «ogni mezzo ed ogni leva » affinché i mercati stranieri siano «aperti all’esportazione da parte delle aziende degli Stati Uniti». Per fare un esempio, se il Congresso vota una “border tax” per imporre nuovi dazi il Wto meglio che non metta bocca.
Il fine è chiaro ed è scritto nero su bianco: «Ogni azione in campo commerciale sarà modellata per favorire la nostra economia, per creare nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, per promuovere la totale reciprocità tra noi e i nostri partner commerciali, per rendere più forte la nostra industria manifatturiera di base, per rafforzare la nostra abilità a difendere noi stessi, per espandere la nostra agricoltura e la nostra industria di servizi ».
L’agenda è la messa in pratica di molte delle promesse che Donald Trump aveva fatto durante la campagna elettorale e che gli avevano portato i voti (decisivi) di quegli Stati un tempo operai (e democratici) quali Wisconsin e Michigan dove la crisi era più sentita. In tutti i suoi comizi aveva ripetuto come un mantra che la «World Trade Organization è un disastro ». E una volta insediato alla Casa Bianca si è circondato di uomini che la pensano come lui o che gli suggeriscono come procedere. In primis Wilbur Ross (il nuovo ministro del Commercio) e Peter Navarro (messo a capo del nuovo organismo National Trade Council) che nello scorso settembre - in piena campagna elettorale - avevano scritto insieme un lungo documento che accusava il Wto di «trattare ingiustamente la prima potenza economica del mondo».
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Il nemico giurato dei no-global finisce nel mirino della Destra
Dopo anni in cui ha subito le sue decisioni, ora Pechino ricorre contro chi non la riconosce come “economia di mercato”
FEDERICO RAMPINI Rep
UN BALZO indietro di quarant’anni. La fine delle regole concordate nel commercio internazionale. Un colpo mortale all’arbitro della globalizzazione, il Wto. È questo il piano di Donald Trump.
Svelato in un documento che la sua Amministrazione ha diffuso al Congresso, e di cui alcuni stralci sono stati anticipati dal Financial Times.
Ripudiando l’Organizzazione del commercio mondiale, “creatura americana” quanto il Fondo monetario e la Banca mondiale, Trump darebbe un colpo mortale alla sede in cui si risolvono le contese fra i partner del mercato globale. Un tribunale supremo al quale più volte si sono rivolti proprio gli Stati Uniti (114 ricorsi) e che non di rado gli ha dato ragione, per esempio contro la Cina. Denunciarlo come illegittimo, o semplicemente ignorarne la giurisdizione, apre un grande interrogativo sul tipo di regole che in futuro presiederanno agli scambi fra le nazioni. Per Trump significa semplicemente tornare ad applicare senza remore una legge americana del 1974 (U.S. Trade Act), che gli dà poteri vasti, discrezionali e unilaterali per colpire con dazi e misure punitive le importazioni da altri paesi.
Il Wto (World Trade Organization), di cui fu direttore generale anche un grande diplomatico italiano, Renato Ruggiero, è una creatura del clima neoliberista e “globalista” degli anni Novanta. Nasce nel 1995, un anno dopo l’entrata in vigore del mercato unico nordamericano (Nafta), preceduto anche dal grande mercato unico europeo. Il suo battesimo di fuoco, quando l’opinione pubblica si accorge davvero della sua esistenza, è nelle “giornate di Seattle”: dicembre 1999, quando la città americana sulla West Coast viene devastata dalla guerriglia urbana proprio in occasione di un summit Wto. Vi convergono proteste sindacali, ambientaliste, e la nascita dell’ala violenta dei no-global. Prevale allora una critica da sinistra e terzomondista: sbagliando ogni previsione, l’intellighenzia progressista è convinta che la globalizzazione sarà un nuovo capitolo della rapina neo-coloniale ai danni del Terzo mondo. Due anni dopo, dicembre 2001, il Wto su spinta americana coopta la Cina, e la storia imbocca una direzione opposta. Con il fenomeno Cindia, e il decollo di vari satelliti dal Bangladesh al Vietnam, le distanze Nord-Sud si riducono, nasce un ceto medio di 700 milioni di persone, mentre all’interno dell’Occidente sviluppato si accentuano le diseguaglianze e avanza un impoverimento di massa. Di qui la crisi di rigetto attuale, con i populismi, i nazionalismi, i protezionismi di cui Trump è la massima espressione.
Perché “disconoscere” il Wto se fu una creatura americana? È vero che quel tribunale è spesso risultato utile per incalzare la Cina e pretendere dalla seconda economia mondiale il rispetto delle regole. È altrettanto vero che non sempre le decisioni del Wto vengono poi applicate sul campo come dovrebbero, dalle autorità cinesi: l’opacità della giustizia civile cinese è spesso un alibi per mascherare protezionismi tenaci. Ora poi è la Cina a chiedere al Wto una sentenza che potrebbe essere gravida di conseguenze: Pechino ha impugnato davanti a quel foro la decisione occidentale di non riconoscerle lo status di “economia di mercato”. Se il Wto dovesse dare ragione alla Repubblica Popolare, diventerebbe più difficile per Washington applicare misure anti-dumping e altre ritorsioni sul made in China.
L’attacco al Wto si collega a un’antica tradizione della destra americana: il rifiuto di riconoscere autorità sovranazionali. È la stessa ragione ideologica per cui altre Amministrazioni repubblicane – ultima quella di George W. Bush – ebbero un atteggiamento ostile alle Nazioni Unite, all’Unesco, e così via. Di quest’antica avversione alle istituzioni sovranazionali (che pure ebbero tra i fondatori Franklin Delano Roosevelt) c’è traccia nel documento inviato al Congresso dall’Amministrazione Trump e pubblicato sul Financial Times: “Dai tempi dell’indipendenza è un principio fondamentale della nostra nazione che i cittadini americani sono soggetti solo alle leggi e regole del governo americano, non a sentenze di governi stranieri o entità internazionali”.
A questa tradizione della destra, Trump aggiunge di suo la battaglia protezionista, che invece rappresenta una novità rispetto alla cultura liberista del partito repubblicano, e uno strappo contro gli interessi delle multinazionali Usa.
Trump ha più volte evocato una super-tassa punitiva del 35% contro i prodotti che le multinazionali americani assemblano all’estero (per esempio in Messico) e poi reimportano sul mercato domestico. La legge del 1974, nata vent’anni prima del Wto, gli darebbe ampia libertà di manovra in questo campo. Salvo mandare anche alle altre nazioni un segnale “liberi tutti”. Ma Trump è convinto che l’America ha poco da perdere se i suoi partner reagiscono con rappresaglie e ritorsioni: dopotutto è l’America a importare molto più di quanto esporta, e a soffrire un disavanzo commerciale di 650 miliardi.
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Automobili e computer meno cari così il libero scambio ci ha aiutato
La delocalizzazione ha avvantaggiato i paesi asiatici ma in Occidente si sono persi sicurezza, reddito e posti di lavoro
EUGENIO OCCORSIO Rep
Se oggi compriamo per poche centinaia di euro un computer laptop più che efficiente, per poche migliaia un’auto di media cilindrata, o possiamo permetterci a un prezzo ragionevole un capo di moda pret-à-porter, lo dobbiamo alla globalizzazione, cioè alla possibilità che venga assemblato un pc o una macchina con componenti fabbricate in diversi Paesi del mondo, oppure che si faccia lavorare la maglieria in aree a più basso costo del lavoro (ferma restando la condanna a qualsiasi forma di sfruttamento). Un mondo in cui, come spiegò due secoli fa l’economista inglese David Ricardo, il primo teorico della globalizzazione, «ad ogni Paese viene affidato il compito di fare quello che sa far meglio così che tutti possano goderne i vantaggi comparativi».
Secondo questa logica, aggiornata da Dani Rodrik, economista di Harvard, nessuno deve restare indietro perché in Italia sarà valorizzata la produzione di abbigliamento di alta qualità, oltretutto a più alti margini, così come in Germania si faranno le macchine di maggior prestigio, in Francia le fragranze più raffinate, in America i computer più costosi e sofisticati, e così via. Insomma quello che nei Paesi emergenti hanno più difficoltà a confezionare efficacemente per carenze di esperienza, know-how, cultura. Così facendo non è un’equazione “a somma zero”, in cui alla ricchezza creata nei Paesi terzi corrisponde un simmetrico impoverimento in occidente, bensì un gioco a valori moltiplicati perché le economie di scala che diventano possibili innescano un meccanismo di crescita generalizzata. Ma qui cominciano i guai: lo stesso Rodrik ne La globalizzazione intelligente parla della «trinità impossibile»: l’esperienza insegna che è durissima avere nello stesso tempo stati nazionali, democrazia e mercati aperti. Uno dei tre salta sempre, come Trump insegna.
La globalizzazione ha riscattato dalla fame centinaia di milioni di persone, ma ha creato incertezza e paure in altrettanti come non finisce di ricordare papa Francesco.
Le istituzioni internazionali, come quella del commercio, non hanno sostenuto un equilibrato sviluppo tra le diverse aree
Eppure il concetto, che porta in sé la libertà degli scambi, dei commerci, della localizzazione, è affascinante, Ma perché la teoria virtuosa venga convertita in pratica occorre una classe politica internazionale all’altezza della sfida, in grado di coordinare efficacemente questa complessa transizione. Negli ultimi 40 anni la distribuzione senza più frontiere del lavoro e della produzione ha subito una brusca accelerazione, nella finanza è caduto il rapporto fra il risparmio di un Paese e il finanziamento del suo sistema produttivo, qualsiasi servizio – dai call center alle analisi di Borsa – viene ormai gestito telefonicamente in posti remoti spesso sconosciuti purché parlino un po’ della lingua dell’interlocutore. L’evoluzione è irrefrenabile: i cinesi, che da beneficiari sono diventati i vessilliferi della globalizzazione, cominciano – perché il costo del lavoro è triplicato – a costruire fabbriche all’estero, Italia e America comprese, una delocalizzazione produttiva alla rovescia.
La globalizzazione è la caratteristica più appariscente della moderna economia. Ma è anche l’accusato numero uno per le diseguaglianze, le povertà, le tensioni, le crisi. Le si fanno pagare anche colpe non sue: le viene attribuita l’emorragia di posti di lavoro in patria, e quindi l’impoverimento della classe media, mentre parte delle cause attengono sicuramente da un lato alla recessione e dall’altro all’innovazione tecnologica e alla carenza di investimenti (che andrebbero a loro volta canalizzati con una gestione politica). Le mancanze dei politici si riflettono nelle istituzioni sovranazionali: Joseph Stiglitz sostiene che il Fondo monetario, spingendo su privatizzazioni e austerity, ha messo in ginocchio le economie asiatiche nel 1997, l’Argentina nel 2001, la Grecia nel 2012. Altre istituzioni altrettanto internazionali come il Wto sono nate per contenere questi effetti negativi ripristinando condizioni di libero scambio e valorizzando la globalizzazione “buona”. Ma ora Trump lo ripudia, così come fecero i Samurai contro la prima industrializzazione nel ‘700 facendo perdere al Giappone due secoli di storia.
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TRUMP E IL VIRUS RUSSO
VITTORIO ZUCCONI Rep
INESTIRPABILE come un virus che il candidato stesso iniettò nella campagna elettorale, la “Russian Connection” torna ad alzare la febbre nel corpo della Presidenza Trump. E costringe il ministro della Giustizia Sessions ad arrendersi, a rimangiarsi le parole sue e del presidente ed autoricusarsi dalle indagini sui rapporti fra Mosca e la campagna di Trump.
UNA nuova umiliazione per la superbia di questa presidenza. Un nuovo accesso di febbre. Solo ora, improvvisamente, il ministro, ex senatore e supporter della prima ora del Donald, si è ricordato di avere avuto conversazioni con i russi che aveva negato sotto giuramento. Se ne è ricordato perché lo ha letto sul Washington Post, mercoledì notte.
Da quando — era luglio dello scorso anno — Donald Trump lanciò un inaudito appello pubblico e diretto alla Russia, dicendo «Se mi sentite, spero che riusciate a trovare le 30 mila mail di Hillary Clinton», il dubbio, materializzato nei file arrivati prontamente a WikiLeaks e rovesciati sulla campagna elettorale per danneggiare Hillary, è diventato sospetto. Ha generato inchieste, ha provocato il licenziamento dell’allora capo del team Trump, Paul Manafort, scoperto a ricevere finanziamenti dalla fazione ucraina pro Putin, ha distrutto il massimo consigliere strategico Mike Flynn, cacciato per la stessa ragione, e ha imbarazzato il ministro che aveva avuto contatti coi russi a sua insaputa. Fino a costringere il presidente a dire che «probabilmente » — si noti l’avverbio — il ministro ha detto la verità e gode ancora della sua «assoluta fiducia».
I giornali, quei maledetti quotidiani come il Washington Post e il “fallito” New York Times che Trump detesta e che stanno ritrovando la carica investigativa assopita negli anni di Obama, lo hanno pizzicato. Aveva risposto sotto giuramento alla Commissione del Senato che doveva approvare il suo incarico di «non avere mai avuto rapporti con esponenti russi». Sapendo di mentire, avendone avuti invece almeno due nei mesi finali della campagna elettorale, e di averli “dimenticati”. Mentre, in un retroscena da serial tv di spionaggio, fra Cia, Dipartimento di Stato, Fbi, Nsa, era in corso una battaglia segreta e furiosa fra i funzionari obamiani uscenti e i trumpisti entranti per salvare, o distruggere, gli elementi e le intercettazioni che servirebbero a dimostrare l’esistenza di una complicità fra il Cremlino e la gente di Trump. Il corpus delicti.
Volano richieste di dimissioni per il ministro, improbabili allo stato delle cose, e pressioni parlamentari perché Sessions abbia almeno il pudore di nominare un Procuratore speciale indipendente per indagini che avrebbe dovuto condurre su se stesso, un passo che ha dovuto accettare. La Casa Bianca, furiosa per questo accesso febbrile che ha sporcato l’effetto roseo del primo discorso alle Camere di Trump e lo show sul ponte di una portaerei, risponde con le prevedibili controaccuse di “caccia alle streghe” politica. Ma se fosse dimostrato che proprio il custode della legge, il futuro ministro, ha giurato il falso davanti al Senato, il caso andrebbe oltre le accuse di connivenza con i russi, decisi a sabotare Hillary con le nuove armi della cyberguerra fredda. Falsa testimonianza e ostacolo alle indagini — non le trasgressioni erotiche — furono le due incriminazioni che portarono Clinton all’Impeachment.
Questa infezione latente resta, per ora, uno scandalo circoscritto. Non sembra agitare il grande corpo dell’America oltre le mura della politica. Fu così anche nei grandi affaire del passato, dal Watergate al Sexgate, che bollirono nella pentola a pressione della politica e del giornalismo prima di scottare i presidenti. Ma l’ipotesi, alla quale tutte le centrali di spionaggio e controspionaggio credono, di un’attiva operazione di intelligence russa volta a compromettere Clinton, di promesse segrete di trumpisti fatte a Putin in cambio della “manina”, di battaglie a colpi di file per nascondere il “Siberian Candidate” manovrato da Mosca, si incardina in un’omissione che invece resta nel cuore della presidenza: il segreto sulle dichiarazioni dei redditi che Trump rifiuta di pubblicare.
Dal 1973, tutti i presidenti e i candidati hanno sentito il dovere di rendere noti i loro documenti fiscali, nei quali devono essere denunciati anche investimenti internazionali, rapporti finanziari, conti esteri, introiti da proprietà oltremare e Trump non vuole aprire i suoi “libri”. Non voleva farlo neppure Richard Nixon che alla fine della sua agonia civile fu costretto dalla pressione pubblica. C’è un rapporto fra i sospetti di una “Russian Connection” e le dichiarazioni dei redditi? Se non c’è, perché tanta ostinazione a nasconderli? Il virus lavora.
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