La «Madre di tutte le bombe», che il Pentagono ha sganciato sulle postazioni dell’Isis in Afghanistan, è solo un esempio dell’arsenale e delle truppe che il presidente Trump ha a disposizione per colpire la Corea del Nord. Si va dai Navy Seals, i reparti speciali che si stanno addestrando in questi giorni proprio con gli alleati di Seul, e potrebbero prendere di mira direttamente il leader Kim, alle bombe nucleari come la MK-41, mille volte più potente di quella che esplose su Nagasaki.
La Gbu-43/B, cioè la Massive Ordnance Air Blast Bomb usata ieri in Afghanistan, è in servizio dal 2003 ed è la più potente bomba convenzionale dell’arsenale americano. Gbu sta per guided bomb unit, una sigla che si applica a diversi ordigni. Nonostante le sue le dimensioni, però, impallidisce rispetto all’atomica usata nel 1945 su Hiroshima, perché ha solo lo 0,075% della sua forza.
Subito dopo viene la Blu-82/B, soprannominata «Daisy Cutter», che pesa 6,8 tonnellate, contiene esplosivo Gsx, ma vale appena lo 0,052% dell’arma nucleare che mise in ginocchio il Giappone. Queste però sono bombe capaci di penetrare i bunker, e quindi distruggere le infrastrutture del programma atomico nordcoreano, senza fare stragi tra la popolazione delle proporzioni di Hiroshima e Nagasaki. Lo stesso lavoro può farlo la Gbu 57, una massive ordnance penetrator, e su scala minore la Gbu-28, soprannominata «Deep Throat», gola profonda, bomba a guida laser da 630 libbre di esplosivo per distruggere i bunker.
I missili che abbiamo visto colpire in Siria la settimana scorsa sono i classici Tomahawk, unità da quasi due milioni di dollari che possono essere lanciati da navi e sottomarini, e armati con testate convenzionali o nucleari. In questo arsenale, nel comparto dei razzi aria-terra lanciati dagli aerei, ci sono poi i Jdam, cioè Joint Direct Attack Munition, e i Jsow, Joint Standoff Weapon, vettori guidati con un costo che va da 280.000 dollari fino a oltre 700.000.
«La potente armata», come l’ha definita Trump, che naviga verso le coste della Corea del Nord, è guidata dalla portaerei nucleare Vinson, una delle dieci unità della classe Nimitz di cui dispone la marina militare Usa. Sotto l’acqua, invece, gli strumenti più letali sono i sottomarini nucleari della classe Ohio, che possono lanciare tanto i Tomahawk, quanto le testate atomiche.
In cielo i bombardieri invisibili B-2 hanno un raggio di 7.000 miglia, mentre in un ipotetico conflitto potrebbe fare il loro esordio gli F-35, costosi e contestati caccia dell’ultima generazione. Insieme ai droni, come l’MQ 9 Reaper che può viaggiare per oltre mille miglia, che sono stati l’arma preferita dall’ex presidente Obama nella lotta al terrorismo.
Trump ha detto che vuole rafforzare l’arsenale nucleare, ma naturalmente non ha avuto ancora il tempo di farlo. Comunque ha già in mano ordigni come la MK-41 da 25 megaton, cioè mille volte più potente dell’atomica scoppiata su Nagasaki.
Se si arrivasse a combattere sul terreno, invece, gli strumenti più avanzati restano i carri armati M1 Abrams e gli obici da 155 mm. In Corea del Sud, poi, proprio in questi giorni si stanno svolgendo le esercitazioni annuali congiunte «Foal Eagle» e «Key Resolve», che coinvolgono circa 17.000 militari. Tra di loro ci sono anche i Navy Seals del Team 6, cioè quello che era andato ad uccidere Osama bin Laden in Pakistan. Il comandante della U.S. Navy Gary Ross smentisce, ma secondo i media locali si stanno addestrando per un eventuale raid che prenda di mira Kim Jong-un.
Le opzioni a disposizione di Trump sono quindi molte, e potenti, in grado tanto di distruggere le infrastrutture del programma nucleare, quando di rovesciare il regime. Il problema sono le possibili rappresaglie di Pyongyang, che potrebbe colpire la Corea del Sud con le sue armi nucleari, convenzionali, o anche chimiche, che secondo gli analisti giapponesi possiede ed è in grado di utilizzare. Un colpo solo basterebbe a fare strage, vista la vicinanza con Seul. O peggio ancora un coinvolgimento della Cina, che se fosse trascinata in un conflitto potrebbe trasformarlo in una apocalisse globale. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Nel 1998 la Commissione bipartisan di studio sul rischio di guerra atomica contro gli Stati Uniti pubblicò il suo, allarmato, rapporto, proponendo tra le altre idee lo sviluppo di ordigni «preventivi», bombe non nucleari ma di devastante potenza, capaci di distruggere bunker e cunicoli sotterranei, con silos nucleari nemici. Il rapporto, la cui lettura ancora molto spiega del nostro mondo, ebbe come prima firma quella del futuro ministro della Difesa Donald Rumsfeld, la cui controversa «dottrina», guerra tecnologica del XXI secolo contro guerra atomica del XX, ha trovato ieri una nuova applicazione, quando gli Stati Uniti hanno, per la prima volta, usato una bomba Moab in Afghanistan.
Moab sta per Massive Ordnance Air Blast, ma, nell’eterno gusto militare per le sigle, è conosciuta come Mother Of All Bombs, madre di tutte le bombe, costruita dalla Dynetics, pesa 9525 chili, lunga 9,15 metri, con 8.165 chili di esplosivo tritonal, Tnt e polvere di alluminio.
Non è la più potente nell’arsenale non nucleare Usa, il record va al Mot, pesante ben 14.000 chili, ma, sganciata con un paracadute e poi guidata da sensori, penetra bunker fino a 60 metri di profondità, lasciandosi intorno il deserto in un raggio di 150 metri.
Moab è stata lasciata esplodere sul distretto di Achin, provincia di Nangarhar, in Afghanistan, non lontano dal Pakistan, dove un ridotto di circa 800 terroristi Isis organizza i propri raid. Il presidente Trump ha ordinato di intensificare i bombardamenti in Afghanistan, dove i taleban hanno il controllo di ampi territori e Isis è alle corde. Da gennaio 2017, 450 bombe ad alto potenziale hanno colpito il Paese, contro un totale di 1300 usate da Obama nel 2016, il doppio di missioni dell’aeronautica.
Gli esperti di strategia sanno che Moab, (Putin ha una sua superbomba, si chiama Padre di Tutte le Bombe, vanterebbe quattro volte la potenza degli ordigni Usa) non vincerà la guerra contro i taleban, radicati su un territorio vasto, ma è capace di indurre terrore «shell shock», la nevrosi da bombardamento della Prima guerra mondiale, in chi sopravvive alla sua esplosione. «Moab crea deterrenza, spaventa chi sa di averla puntata contro» osserva Robert Hammack, uno dei progettisti.
Intanto la squadra navale Usa, con la portaerei Vinson, incrocia verso la Corea del Nord e il regime di Kim Jong-un lascia intendere che, nelle prossime ore, un nuovo test nucleare potrebbe essere ordinato sul sito di Punggye-ri, dove i satelliti rilevano una febbrile attività in vista del 15 aprile, anniversario di nascita di Kim Il-sung, fondatore del regime e nonno di Kim. Trump ha chiesto al presidente cinese Xi Jinping una mano per frenare la deriva atomica di Pyongyang, illegale secondo l’Onu, minacciando via twitter di agire da solo se Pechino non collaborerà contro il riottoso vassallo. Xi ha ridotto le importazioni di carbone dalla Corea, ma non intende lasciare Washington libera di colpire al proprio confine.
Un raid preventivo, atomico o convenzionale, contro la Corea è da sempre escluso dagli strateghi sud coreani, cinesi e americani, consapevoli che, come provano Germania 1943-1945 e Vietnam 1966-1973, bunker sotterranei ben organizzati sopravvivano anche a rovinosi bombardamenti. E c’è il pericolo che, attaccato, Kim possa girare un ordigno, o materiale radioattivo, a terroristi per fabbricare una bomba «sporca» e destabilizzare Usa o Europa. Trump però, d’istinto, potrebbe non ascoltare queste letture accademiche e agire comunque: la sua imprevedibilità preoccupa la Cina, e potrebbe indurla a rompere il tradizionale attendismo e stoppare finalmente il demagogo Kim. Resta però, su tutti, il rischio dell’incidente, delle comunicazioni mal comprese, e per questo, al confine nucleare delle Coree, si annuncia una Pasqua difficile.
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