Cechov, inviato nelle galere zariste
Qualunque sia stato il motivo contingente che spinse il trentenne medico e scrittore, ormai famoso dopo una lunga gavetta nel sottobosco dei giornaletti satirici, a intraprendere il viaggio a Sachalin, qualche ragione essenziale l’aveva già seminata nel racconto pubblicato subito prima della partenza,«Una storia noiosa». In quelle pagine dominano tonalità emotive affini al libro dell’Ecclesiaste: spaventosa è la vanità una vita non riscattata da alcuna «idea generale», ovvero da un plausibile surrogato del «dio dell’uomo vivente». Insomma: vana è una esistenza che eviti accuratamente di imbattersi in entità come il penitenziario di Sachalin.
Poiché la critica progressista, pur riconoscendo l’indubbio talento letterario di Cechov, si ostinava a negargli quella consistenza etica che era indispensabile, in Russia, a decretare la grandezza di uno scrittore, è ipotizzabile che una causa così ingrata come lo studio delle condizioni di vita dei forzati e degli esiliati di Sachalin fosse necessaria a Cechov per reagìre sia alla sua impasse esistenziale sia alla tenacia dei pregiudizi che investivano la sua statura morale.
Sul sistema penitenziario russo aveva già attirato l’attenzione il giornalista americano George Kennan, che a metà degli anni ottanta visitò le galere siberiane e ruppe l’omertà che ne occultava le condizioni. Naturalmente, la decisione di Cechov di recarsi a Sachalin ebbe un’ampia risonanza sulla stampa, e il suo editore (e amico), il magnate Suvorin, che aveva provato a dissuaderlo da quell’impresa, si guardò bene poi dal pubblicarne il resoconto.
Una volta giunto a destinazione, Cechov, che aveva sollecitato invano un mandato ufficiale per visitare i penitenziari, dovette ricorrere a un espediente. Grazie alla complicità del comandante dell’isola, il generale Kononovic, si fece passare per un addetto al censimento e, così, riuscì a visitare casa per casa, cella per cella, i villaggi e le prigioni dell’isola. L’unico divieto riguardava eventuali colloqui confidenziali con i deportati politici.
Tutto è, L’isola di Sachalin, tranne che un colpo d’occhio impressionistico o una raccolta di aneddoti più o meno suggestivi. È, invece, un testo sistematico, non privo di una certa acribia sociologica, corredato da statistiche e da un’ampia bibliografia.
Al lettore si chiede di esplorare con pazienza l’articolazione degli spazi e la scansione del tempo nella vita della colonia penale. Si passa dai gironi più cupi, come quello dei carceri di Due e di Voevodsk, ad agglomerati meno terribili, quali erano i villaggi situati nella parte meridionale dell’isola. Secondo la legge dell’epoca, una volta scontata la condanna ai lavori forzati, gli ex-galeotti – stremati dalla fatica fisica e da un «cinismo che oltrepassa ogni limite» – avrebbero dovuto assumere le sembianze di pacifici e solerti membri di una colonia agricola. A questo scopo, gli «ordini superiori ingiunsero di dichiarare Sachalin terra fertile e adatta all’agricoltura», senza tenere conto del fatto che nessun cereale riesce a maturare nell’arco della breve estate artica.
L’isola somigliava a una potenza malevola. L’«erba alta quanto un uomo e anche di più», le felci gigantesche e le bardane con foglie larghe un metro, la tajga inestricabile, costituivano uno scenario inquietante che «di notte, soprattutto al chiaro di luna, assume parvenze spettrali». Nessuna forma di vita comunitaria riusciva ad attecchire in quegli strani villaggi multietnici, privi di storia e tradizioni, in cui si consumavano usanze abiette come il concubinato forzato e la prostituzione delle donne deportate.
Il segno più eclatante della forma di vita vigente a Sachalin era, forse, l’oblio del tempo. Un oblio che si accompagnava alla crescita smisurata dell’apatia e all’assenza di ogni ragionevole speranza. Così, alla domanda sull’età, c’era chi rispondeva: «Trent’anni, o forse cinquanta»; molti non ricordavano i giorni della settimana; il passato sopravviveva soltanto come lancinante desiderio di vendetta. La fuga dall’isola, che d’inverno si ricongiunge alla terra ferma grazie al mare ghiacciato, restava l’unica aspirazione propriamente etica, anzi spirituale, dei prigionieri. Cechov non nasconde la sua simpatia per un proposito così degno: «Guardi quell’altra riva e pensi: se fossi un deportato, fuggirei sicuramente, a ogni costo».
Chi leggerà questo libro sulle galere zariste, non si aspetti racconti a effetto di delitti demoniaci, descrizioni degli insondabili abissi che abitano una mente criminale, cronache di fervori e pentimenti. Niente di più lontano, da queste pagine, delle idee dostoevskiane sul Male e la Redenzione che nutrono Delitto e castigo o I fratelli Karamazov.
Cechov non si stanca di spiegare quanto «quasi tutti i reati fossero terribilmente poco appassionanti, banali» e «quanto fossero incolori e squallidi gli innumerevoli resoconti (…) che mi è toccato ascoltare dai detenuti». Non è, del resto, incolore, squallida e inappariscente tutta la quotidianità di cui si è sempre nutrita la narrativa di Cechov?
Di tutt’altro genere è il viaggio che sta al centro del lungo racconto La steppa, riproposto da Quodlibet nella bella traduzione di Paolo Nori (pp. 192, euro 14,00). Pubblicato nel marzo del 1888, è uno dei testi che segnano una svolta nell’attività di Cechov, di certo il suo racconto più lirico: i tempi di stesura si allungano, lo stile si raffina. La steppa rievoca i dintorni della natia città di Taganrog, che l’autore bambino percorreva in calesse per recarsi dal nonno paterno, e conclude un nutrito ciclo di testi (da Griša a Voglia di dormire) dedicati all’infanzia e spesso alla speciale infelicità che le tocca in sorte.
Un bambino di nove anni, Egòruška, viene portato in città con un viaggio di quattro giorni perché venga iscritto al ginnasio. Gli otto capitoli scandiscono i movimenti di una partitura in cui non mancano brani virtuosistici: odori, suoni, luci, atmosfere della steppa filtrati dalla percezione del piccolo protagonista che, varcando i confini del proprio microcosmo, è investito dalla casualità senza lustro della vita con l’intensità che siamo propensi ad attribuire a un’esperienza miracolosa.
Persone di ogni rango sociale, parole udite lungo la strada, paesaggi intravisti dal calesse lasciano impressioni indelebili, destinate a trasformarsi in quei «ricordi d’infanzia» che, come i sogni, non ammettono resoconti lineari, e riportati nella scrittura di Cechov hanno prodotto alcune tra le pagine migliori della narrativa di tutti i tempi.
Le memorie dal sottosuolo del Dr. Cechov Torna in libreria “L’isola di Sachalin” in cui il drammaturgo (e medico) racconta la fisiologia del maleSTEFANO MASSINI Rep 20 7 2017
Il dottor Anton Cechov: medico e drammaturgo. Un nesso casuale? Non credo affatto, anzi. L’autore teatrale è a suo modo un fisiologo, a cui è costituzionalmente imposta dal mestiere una sana dose di sfacciata impudenza nel maneggiare tessuti sensibili: come il medico non può recedere alla vista del sangue e degli umani miasmi, così al drammaturgo necessita di fatto una analoga scaltrezza clinica nel raccontare i più sfrontati gorghi del nostro esistere. Senza dire poi che le parole scritte per la scena sono destinate a farsi esse stesse carne, trapiantandosi nella glottide, nell’epidermide e nel respiro degli attori, cosicché l’inchiostro dei drammaturghi è l’unico a disfarsi per statuto in un bagno di sudori e di saliva. Ecco, credo che questa componente fisio-patologica della scrittura cechoviana sia determinante per leggere con nuovo sguardo “L’isola di Sachalin”, ora riproposto
da Adelphi nella nitida affilata traduzione di Valentina Parisi. Ed è un libro da rileggere, da riscoprire, da lasciar parlare nella sua ferocia squassante che fino da subito ti porta (meglio: ti deporta) in un vortice di immagini, personaggi, abbaglianti contrasti e vibranti sfumature.
Quanta potenza in questa presa diretta: l’occhio di Cechov si sofferma come la lente di un microscopio sugli abomini di una colonia penale, e più di una volta indugia sul dettaglio con la stessa spietatezza con cui un giovane adepto di Esculapio potrebbe intestardirsi a fissare una cancrena. Perché poi, in fondo, di questo tratta il libro: l’autore sfida se stesso in un reportage sull’estremo limite del male, e quasi a sondare le sue stesse capacità di resistenza narrativa, forza la propria penna a non distogliere lo sguardo dall’ulcera infetta del genere umano, qui colta in una Gomorra di seimila criminali costretti ai lavori forzati su una lingua di terra ingrata dove la colonnina di mercurio resta sotto zero per duecento giorni l’anno.
È allora sì un diario di viaggio — prodigo di note geografiche e perfino antropologiche — ma soprattutto è un referto da autopsia, in cui il cadavere dell’umano convivere viene sezionato per dare un nome al morbo letale che ci regredisce in bestie. E difatti la bestialità a Sachalin regna sovrana: nella miseria i disperati si giocano alle carte tutto quel che hanno, compresa la razione di pesce secco, mentre le madri gestiscono bordelli dove schierano le figlie, e i bambini crescono ignorando chi sia il padre. In un susseguirsi incalzante c’è posto per qualunque barbarie: da Kisljakov che uccise la moglie sfasciandole il cranio a martellate fino allo squilibrato che rubava nelle chiese «perché dei soldi a Dio che gliene importa?», e via così in un catalogo di marciumi su cui spicca la regina delle vecchie delinquenti, tale Sof’ja detta Manina d’Oro.
Verrebbe insomma da pensare che nel descrivere questo inferno Cechov sia stato mosso dallo stesso accanimento con cui Shakespeare diede forma scritta al mattatoio del deforme Riccardo III Gloucester, quasi a ricordarci che i teatranti hanno da sempre — da Eschilo fino ad Artaud — l’istinto irrefrenabile di contemplare l’abisso, in bilico sull’orlo, resistendo alla vertigine. Eppure nel caso del dottor Cechov, qualcosa di diverso — e di più profondo — sembra agitarsi fra le righe. In un passaggio del libro, egli riferisce come due nativi del luogo gli avrebbero chiesto quanto veniva pagato un giovane come lui per svolgere quell’assurdo mestiere dello “scrivi-scrivi”: appena Cechov risponde «trecento rubli», i due inorridiscono per una cifra ai loro occhi esagerata. In realtà era poco più che dignitosa per un autore sì trentenne ma già acclamato. Ed è questo il punto: per trecento rubli lo scrivi-scrivi Cechov si costringe di fatto a mesi di tortura autoinflitta. Di più: per trecento rubli non si sottrae a intervistare pluriomicidi e psicopatici armati d’ascia, origlia in laide baracche dove si prostituiscono bambine, esprime perfino giudizi su certi secondini corrotti fino al midollo. Ebbene, è chiaro che la posta in palio era ben altra, ed evidentemente importantissima.
Cosa mai poteva essergli scattato nell’animo per indurlo a un viaggio di undicimila chilometri oltre il più estremo confine della Siberia, dove «solo i fili del telegrafo raccontano una presenza umana»? La risposta ha di nuovo molto a che fare con il teatro, credo. Riavvolgiamo il nastro. La trasferta siberiana di Cechov inizia il 21 aprile 1890, e si dà il caso che il nostro uscisse da un sonoro fiasco sul palcoscenico del Teatro Abramova di Mosca: la critica aveva puntato i fucili sulla sua ultima opera, gli intellettuali lo accusavano di aver smarrito l’ispirazione, nei salotti ci si chiedeva dove fosse finito il genio fino a ie- ri lodato come un nuovo Gogol’. In altre parole si era creata inevitabilmente un’aspettativa: Cechov si era tramutato in uno stile.
Davanti a tutto questo, Anton decide di andare alla ricerca del più profondo legame che vincola un drammaturgo alla scrittura: la capacità di perlustrare il perimetro dell’umano. Guardare in faccia l’estremo dolore, chiamare per nome il baratro, farsi sconvolgere dal clamore dell’abiezione e dai barlumi di speranza che comunque essa contiene. Solo un’esperienza estrema come Sachalin poteva restituire a Cechov il polso del proprio narrare, soprattutto per la scena. Il teatro è cosa di uomini fatta per altri uomini, lo stile viene dopo: talvolta occorre la Siberia per ricordarlo a te stesso. Splendidamente.
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