Dibattito. Don Milani, lo spirito preso alla lettera
Alessandro Zaccuri Avvenire giovedì 15 giugno 2017
A lezione dgli ultimi pensando a Barbiana
LORENZO MILANI. I due tomi per i Meridiani contengono lavori messi al bando e ormai introvabili
Luca Kocci Manifesto 26.5.2017, 19:10
La parola per capire e spiegare il mondo e il Vangelo. La lingua per contrastare l’arroganza dei potenti, demistificare la storia scritta dai vincitori, costruire un’alleanza fra uomini, donne e popoli oppressi alla ricerca di verità e in lotta per la giustizia, non nell’aldilà ma su questa terra. C’è un filo rosso che attraversa la vita e la missione di prete e di maestro di don Lorenzo Milani, nato il 27 maggio di 94 anni fa, e di cui il prossimo 26 giugno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte. Un filo doppio, intrecciato di parole e lingua, strumento di libertà e di liberazione per gli impoveriti.
NON UNA CATEGORIA generica e astorica perché, come Milani scrive in una lettera alla studentessa napoletana Nadia Neri, «non si può amare tutti gli uomini», «si può amare una classe sola», anzi «solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio». Ovvero i giovani operai di Calenzano, la sua prima parrocchia, dove resta fino al 1954 e crea una scuola popolare serale. E i giovanissimi montanari del Mugello che, respinti da una scuola statale ancora rigidamente classista (denunciata con grande forza argomentativa e linguistica in Lettera a una professoressa), salgono a Barbiana per andare «a scuola dal prete», dove i valori borghesi sono sovvertiti: «io baso la scuola sulla lotta di classe, non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe», spiega Milani in una conferenza ai direttori didattici di Firenze nel 1962.
A BARBIANA e a Calenzano si studia essenzialmente la lingua, «perché è solo la lingua che fa eguali». «Una parola dura, affilata, che spezzi e ferisca», scrive a Gaetano Carcano, capace di arrivare al cuore dei problemi, «senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto», rifiutando galateo e ipocrisie lessicali e clericali e praticando la parresìa. Arma «incruenta» di cambiamento sociale: «i 12-15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola, i 15-21 per usarla nei sindacati e nei partiti», e poi «in Parlamento», perché – ancora Lettera a una professoressa – come «i bianchi non faranno mai le leggi che occorrono per i negri», così i borghesi non si cureranno dei proletari.
LINGUA italiana e lingue del mondo, per costruire un internazionalismo degli oppressi. «Più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi – scrivono i ragazzi di Barbiana ai ragazzi della scuola elementare di Piadena del maestro Mario Lodi – Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». Quello sulla parola e sulla lingua è solo uno dei temi che è possibile percorrere attraverso gli scritti di don Milani, per la prima volta annotati criticamente e raccolti tutti insieme in due volumi appena pubblicati nei Meridiani Mondadori, grazie a una collaborazione tra la Fondazione per le Scienze religiose di Bologna (diretta da Alberto Melloni) e l’Istituto di Storia del cristianesimo della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli, diretto da Sergio Tanzarella (Don Milani, Tutte le opere, a cura di Anna Carfora, Valentina Oldano, Fedrico Ruozzi, Sergio Tanzarella, pp. 2976, euro 140): Esperienze Pastorali (ritirato dal commercio per ordine del sant’Uffizio nel 1958 perché «inopportuno» e solo recentemente «riabilitato» dalla Congregazione per la dottrina della fede), il Catechismo (lezioni di catechismo «secondo uno schema storico»), gli articoli, gli interventi pubblici, la Lettera ai cappellani militari e ai giudici, Lettera a una professoressa (firmata Scuola di Barbiana, perché frutto di un lavoro di scrittura collettiva) e oltre 1100 lettere private, di cui cento inedite, riportate nella loro integrità testuale.
UNA MINIERA DI TESTI, per leggere don Milani nella sua interezza e verificare la “profezia” che egli stesso scrive in una lettera alla madre, poco prima di lasciare Calenzano per l’esilio di Barbiana: «Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno 50 anni sotto il sedere dei miei vincitori».
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SCHEDA
Apprenditati alla scrittura e relazioni paterne
La “fede” nella parola e nella lingua non nasce improvvisamente in don Milani, già adulto e prete. È una pratica che apprende fin da piccolo, in famiglia, quando era ancora solo Lorenzo.
Le biografie e gli studi si sono soffermati in termini generali sull’ambiente familiare borghese e laico dei Milani Comparetti, rintracciando le origini dell’attenzione alla lingua da parte di don Milani nelle sue frequentazione adolescenziali e giovanili dell’intelligencija fiorentina (come con il filologo amico di famiglia Giorgio Pasquali) e, quasi un’eredità “genetica”, nella discendenza dal bisnonno Domenico Comparetti, grande filologo, papirologo ed epigrafista.
Mai era stata approfondita la figura del padre di don Milani, Albano, eclissato dalla ben più presente madre, Alice Weiss, ebrea, destinataria di centinaia di lettere da parte del figlio. Lo fa adesso Valeria Milani Comparetti (nipote di don Milani, essendo figlia del fratello maggiore, Adriano), che ha ritrovato negli archivi di famiglia lettere e documenti finora sconosciuti di Albano, svelando scenari inediti di una fase poco illuminata della vita del futuro priore di Barbiana (Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole, Edizioni Conoscenza, Roma 2017, pp. 320, € 20).
Fra i tanti, ne segnaliamo due. L’educazione e la passione linguistica di Milani, che devono molto proprio al padre il quale, per esempio, insegna al figlio di cinque anni a scrivere a macchina ed è solito condividere in famiglia i testi che redige, anche per ricevere suggerimenti (anticipazione del metodo della scrittura collettiva con cui sarà redatta Lettera a una professoressa?). E la religiosità. Se la madre Alice, ebrea non praticante, è totalmente disinteressata alla religione, invece il padre Albano, benché non credente, è molto attento, tanto da comporre un testo intitolato Ragione Religione Morale in cui valorizza il «dubbio» e scrive: «L’ateo nega Dio, il materialista ha fede nelle leggi della materia. Invece l’uomo propriamente moderno nel senso scientista non nega nulla ma non ha fede in nulla, tranne forse nella ragione». Elementi che rimettono in discussione la «narrazione semplificata della cultura della famiglia Milani Comparetti» atea e agnostica e aprono la strada a nuove interpretazioni sulla conversione “fulminea” di don Milani. (Luca Kocci)
Un disobbediente in direzione ostinata e contraria
LORENZO MILANI. Molte
le iniziative sul prete di Barbiana, scomparso da 50 anni, domani ne
avrebbe compiuti 94. Carte inedite nel volume «Lettera ai cappellani
militari. Lettera ai giudici», a cura di Sergio Tanzarella. Testo
collettivo e politico in difesa degli obiettori contro l’accusa di
viltà
Alessandro Santagata Manifesto 26.5.2017, 22:29
Negli ultimi mesi il nome di don
Milani è risuonato in maniera quasi ossessiva sui principali canali
d’informazione nazionale. Polemiche spesso vuote o comunque pretestuose,
ma anche contributi di grande qualità e rilevanza, come l’opera omnia
pubblicata in due tomi nella collana dei Meridiani di Mondadori e
diretta da Alberto Melloni, a cui hanno collaborato Anna Carfora,
Valentina Orlando, Federico Ruozzi, e Sergio Tanzarella. A quest’ultimo,
docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia
Meridionale, dobbiamo anche la pubblicazione del libro
Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici
(Il Pozzo di Giacobbe, pp. 168, euro 14.90). Si tratta di due testi
particolarmente importanti nella produzione di Milani, Tanzarella li
inserisce nel loro contesto storico e nella biografia del prete di
Barbiana.
NEL PRIMO DEI DUE TESTI
sono parole scritte quasi a caldo, dopo la lettura insieme ai suoi
ragazzi del «comunicato stampa» pubblicato dai cappellani militari in
congedo della regione Toscana. A Milani quell’accusa di viltà rivolta ai
giovani obiettori che hanno pagato con il carcere la scelta di
rifiutare la divisa è risultata intollerabile, soprattutto per la sua
provenienza clerico-militare, quasi un simbolo del sistema di potere. Da
qui la decisione di impegnare la sua scuola nella preparazione di un
documento collettivo che viene inviato a più di 800 quotidiani.
Come è noto, la lettera ruota attorno al
problema del diritto alla disobbedienza alla leva, ma il ragionamento
si snoda in più direzioni che toccano alcuni nervi scoperti: la
legittimità di un potere ingiusto, la possibilità stessa della guerra
nell’età atomica, e poi l’utilizzo strumentale che è stato fatto
dell’idea di patria per mobilitare le masse in difesa delle oligarchie.
Milani propone quindi un excursus storico – dalle guerre risorgimentali,
passando l’«inutile strage» del ’15-‘18 e le imprese fasciste – che
individua nella Resistenza l’unica «guerra giusta», cioè «non di offesa
delle altrui Patrie, ma di difesa della nostra», una guerra
particolarmente significativa perché combattuta da un esercito che aveva
disobbedito. Quindi entra nel merito dell’attualità italiana, uno dei
pochi paesi cui l’obiezione rimane ancora reato grave.
In questo clima la decisione del
settimanale comunista «Rinascita» – di cui è vice-direttore responsabile
Luca Pavolini – di pubblicare la lettera fa esplodere il caso. Milani e
Pavolini vengono denunciati da un gruppo di ex-combattenti per apologia
di reato e istigazione a delinquere. Come emerge in maniera chiara
dalla ricostruzione del curatore, l’arcivescovo di Firenze Florit non si
mostra certo solidale e a Barbiana arrivano anche vere e proprie
lettere di ingiuria e di minaccia (spalleggiate dalla campagna
denigratoria della stampa fascista).
ESPRIMONO VICINANZA
invece personalità di rilievo quali Giorgio La Pira e soprattutto Aldo
Capitini, teorico della nonviolenza e organizzatore nel 1961 della prima
marcia Perugia-Assisi, che decide di attivare una rete di solidarietà.
Grazie alla ricerca di Tanzarella, fondata su una serie di fonti inedite
(comprese, in particolare, le fonti processuali) sappiamo che Milani si
era rivolto anche al giurista Arturo Carlo Jemolo e a Giorgio Peyrot,
responsabile legale della Tavola Valdese a Roma, che lo avrebbero
aiutato a organizzare la strategia difensiva. Il risultato sarà quella
Lettera ai giudici che Milani, ormai gravemente ammalato, fa pervenire
al Tribunale e distribuisce alla stampa nazionale.
È una testimonianza alta di moralità educativa (e sacerdotale), una
lezione sulla disobbedienza civile che mette in discussione il potere di
giudicare chi si batte per una legge giusta, chi si fa precursore dei
tempi annunciati dalla trasformazione italiana, dal Concilio Vaticano
II, ma non ancora recepiti dalla legge.
DOPO CHE I PROCESSI di
Norimberga e Gerusalemme hanno sancito il dovere alla disobbedienza
contro i crimini della guerra – scrive Milani – «condannare la nostra
lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono
avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti
li pagherà chi li ha comandati». Sulla base della tradizione della
Chiesa sul primato della legge di Dio, della Pacem in terris e,
soprattutto, della Gaudium et spes, che ha riconosciuto le ragioni degli
obbiettori e invitato il legislatore a tenerne conto, Milani difende
poi la propria ortodossia e rilancia la battaglia sul duplice piano
della riforma della Chiesa e della società, chiamata a tenere fede a
quell’art. 11 della Costituzione che utilizza in maniera quasi profetica
il verbo «ripudiare».
L’autore dichiara di non voler scendere sul piano delle disquisizioni
dottrinali, ma nei fatti propone una revisione profonda in piena
sintonia con quei padri conciliari che hanno dichiarato ingiustificabile
la guerra nucleare.
SUL TERRENO POLITICO e
giuridico si muove invece la condanna di quell’accusa di viltà che, in
virtù delle ricerche di Peyrot (ora ricostruite da Tanzarella), Milani
può dichiarare estranea allo stesso linguaggio dei tribunali militari e
dunque irricevibile. Il Tribunale gli darà ragione, ma la sentenza verrà
ribaltata in Appello che condannerà Pavolini, ma non il parroco di
Barbiana, deceduto il 26 giugno 1967.
Il successivo ricorso in Cassazione porterà all’annullamento della
sentenza di condanna perché il reato contestato era stato estinto
dall’amnistia del 3 giugno 1966.
NELLE ULTIME BATTUTE
della sua ricostruzione, Tanzarella ricorda la breve introduzione
scritta da Milani, ma pubblicata in forma anonima, all’edizione delle
due lettere del 1965 uscita con il titolo Il dovere di non obbedire.
Questa scelta era presentata come più consona a «esprimere meglio le
tesi fondamentali di queste pagine»: a più di cinquant’anni di distanza,
e con alle spalle l’approvazione della legge Marcora del 1972
sull’obiezione, le lotte della Lega degli obiettori e la legge del 1998,
gli interventi del magistero contro «le guerre umanitarie» e i passi
avanti del diritto internazionale, possiamo pienamente dargli ragione e
continuare a leggere le due lettere con lo sguardo rivolto al nostro
presente di guerra e ai conflitti del futuro.
1 commento:
Chissà cosa avrebbe pensato Don Milani di un meridiano a 140 euro sponsorizzato da un ministro che ha mentito sulla laurea....
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