L'Innocuo Maestro, il Demone Narcisista di Sua Maestà, caca sulla sinistra che ha distrutto e invoca il commissariamento eurocratico dell'Italia.
Tanto, lui sta in Francia [SGA].
Il fondatore di Potere Operaio sulle elezioni italiane. «Auspico che Bruxelles prenda le redini del Governo italiano». Il M5S? «Pulci». Berlusconi? «Condannato prima dalla stampa che dai giudici»
Vanity Fair
Libri. Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli. Un capitolo di etica rivoluzionaria e spinoziana: «Non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza». Il «lavoro vivo» alimenta le piattaforme ed è sfruttato dal capitalismo digitale. I nuovi padroni cercano sempre di tirare la corda che lega i lavoratori, ma non possono impiccarli perché impiccherebbero se stessi
Toni Negri Alias Manifesto 26.1.2018, 23:59
Nel settembre 1969, il primo numero di «Potere Operaio» incitava i lavoratori a lottare contro «automazione e negromazione» (con questo neologismo si indicavano coloro che sarebbero stati dall’automazione esclusi dal lavoro e destinati alla miseria sociale).
Dinnanzi a quel primo apparire di congegni automatici, gli operai rispondevano: più salario, meno orario. L’automazione sembrava un alleato nel definire la forza lavoro in lotta come una «variabile indipendente» dello sviluppo.
QUALCHE SETTIMANA FA, in un seminario parigino, riders di «Deliveroo» ricordavano che le loro rivendicazioni erano, certo, «più salario», ma anche «controllo dell’algoritmo» per conquistare più decenti condizioni di vita. A cinquant’anni di distanza, mentre il padrone, senza vergogna, lesina sempre sul salario, i lavoratori puntano dunque la loro attenzione sulla governance automatica, considerandola un elemento fondamentale nella determinazione del comando sulle loro condizioni di vita.
Se osservassimo solo le rivendicazioni, ieri orario, oggi flessibilità della giornata lavorativa, poco sembrerebbe essere cambiato – quando invece guardiamo alle riflessioni sui congegni automatici, scopriamo che è mutata una cosa essenziale: la maggiore interiorità che oggi il lavoratore ha rispetto all’organizzazione del lavoro, all’algoritmo.
Quindi, sia la debolezza della sua collocazione nel processo lavorativo, sia la virtuale capacità, ovvero la forza, di rompere in maniera decisiva con l’organizzazione capitalista della valorizzazione.
QUESTA DIFFERENZA ci introduce a un paradosso: quanto più il lavoro è sottomesso al capitale, agli automatismi della valorizzazione, come avviene oggi, quanto più ogni momento della vita del lavoratore è utilizzato dal capitale per produrre valore; tanto più il lavoratore è posto nella necessità di lottare per essere autonomo nell’organizzare la giornata lavorativa e la sua vita.
Il processo lavorativo sembra così, ora, essersi sganciato dal processo di valorizzazione e quest’ultimo sembra sussumere il primo, non immediatamente ma, collocandolo dentro un rapporto fluttuante e lasco.
PERCHÉ AVVIENE QUESTO? Perché l’operaio, il lavoratore (generalmente «cognitivo») ha una certa autonomia («cognitiva») che porta con sé quando si inserisce nel processo lavorativo – un’autonomia che il padrone deve assumere in quanto tale per utilizzarla nella produzione.
Ma questo uso è difficile, il «valore della forza lavoro» non è totalmente riconducibile al «valore di scambio», l’autonomia del lavoratore è potenza lavorativa e, virtualmente, rifiuto di subordinazione. Tutto ciò costituisce lotta di classe e, come minimo, va contrattato: questa è la situazione. Fino a che punto si potrà stringere la supremazia del processo di valorizzazione, organizzato dal padrone, sopra il processo lavorativo vissuto e relativamente posseduto dal lavoratore?
IL PADRONE CERCA CONTINUAMENTE di tirare la corda che lega il lavoratore, ma non può impiccarlo – impiccherebbe se stesso – sa dunque che le cose sono cambiate, che il lavoratore non è più quello schiavizzato nella piantagione e neppure quello massificato nella grande industria, ma è, per lo più, e comunque nella tendenza, «cognitivo» – quindi sempre più essenziale e sempre meno controllabile, perchè la sua produttività aumenta quanto più il lavoratore è autonomo e potente nel rapporto cooperativo.
LEGGIAMO Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli, in particolare il magistrale capitolo nel quale appunto di «forza lavoro» si parla.
Qui essa è crudamente «anatomizzata in vita», in movimento – come fare altrimenti quando la classe produttiva è caratterizzata dalla spontaneità e dalla mobilità del lavoro vivo cognitivo?
IL LAVORO VIVO è qui descritto nella sua qualità di potenza immediatamente produttiva, tanto più potente perchè questa sua facoltà è moltiplicata dalla cooperazione ed estesa nell’ulteriore rapporto che lega produzione e riproduzione.
QUELLO CHE SOPRA DEFINIVAMO, oggettivamente, un paradosso, cioè la convivenza fra soggetto della valorizzazione capitalista (la forza lavoro sfruttata) e il lavoro vivo, cioè la personalità vivente nel lavoro, il lavoro di soggettivazione – quella convivenza che mal si combinava, anzi, che veniva spezzandosi, quel matrimonio difficile da celebrare fra processo di valorizzazione e processo lavorativo, è qui colto dal punto di vista del lavoro vivo stesso, dalla sua soggettivazione.
TALE È infatti il senso della domanda: «cosa può una forza lavoro?» Nel capitolo conclusivo del libro si fissa così la scoperta della dualità potente della forza lavoro, nell’autonomia di quel lavoro vivo che si oppone, pur nutrendolo, al capitale costante.
A CIO’ CONSEGUE una questione ancore più importante: come può questo potere del lavoro vivo cognitivo, farsi forza? Come può farsi sovversivo? Questa domanda è da proporre, meglio, da riproporre, perchè il libro di Ciccarelli comincia di lì, dall’ingabbiamento della forza lavoro nell’algoritmo, nelle piattaforme – e ne mostra con grande lucidità le vischiosità e le latenti contraddizioni, ne chiarisce la sempre virtuale dialettica oppositiva.
Una controversia, è l’eufemismo che Ciccarelli usa drammatizzando quella dualità di potenza e soggezione/sfruttamento e concludendo, senza alcun eufemismo, la critica della forza lavoro con un capitolo di etica rivoluzionaria. E spinoziana: «viviamo in un non sapere: non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza».
BISOGNERÀ proseguire la ricerca sul terreno che è stato fin qui dissodato, e chiedersi come colpire il capitale sul terreno dell’algoritmo imprenditoriale (quando lo si sia riconosciuto come «soggettività del capitale costante») che organizza lo sfruttamento del capitale variabile.
In secondo luogo, si tratterà di comprendere quali siano le condizioni nelle quali i lavoratori possono organizzare strategie di rottura di quel dominio – questo è il terreno della «conricerca», cioè di un’etica divenuta prassi politica; e infine, si tratterà di cogliere, attraverso la lotta, i dispositivi di «riappropriazione proletaria» di quel «comune» che sta sotto le macchine della nuova organizzazione della valorizzazione.
La persona dietro il lavoro non è una merce né una tecnologia
Forza Lavoro. La dignità umana va protetta dal controllo tecnologico indipendentemente dal tipo di lavoro, subordinato o autonomo. Se anche si arriverà a un vero reddito di cittadinanza, la situazione non cambierà: la persona che lavora andrà ancora tutelata. A partire da Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale di Roberto Ciccarelli (DeriveApprodi)
Valerio De Stefano Alias Manifesto 26.1.2018, 23:58
Il libro di Roberto Ciccarelli dà al giurista del lavoro da pensare fin dal titolo: Forza lavoro. In fisica, in effetti, il lavoro ha una definizione precisa, come «energia scambiata tra due sistemi attraverso l’azione di una forza». Nel diritto capire cosa è il «lavoro», e quindi darne una definizione precisa, è molto più complesso. È un processo che va avanti da diversi secoli, influenzato da innumerevoli fattori sociali, culturali ed economici. Prima di capire cosa sia il lavoro, poi, va investigato se, in termini giuridici, esista davvero il lavoro in sé e per sé.
I CODIFICATORI ottocenteschi davano una risposta positiva a questa domanda. Il lavoro era disciplinato nel diritto dei contratti e delle cose: si parlava di «locazione di opere e di servizi» per identificare lo scambio tra lavoro e remunerazione. Il lavoro era reificato in una entità a sé, che poteva essere separata dalla persona del lavoratore e della quale si poteva disporre liberamente. Corollario di questa concezione, funzionale al nascente sviluppo dell’impresa capitalistica, era la considerazione del lavoro come «merce», da scambiare sul mercato in cambio di un compenso. Lo scambio, poi, sarebbe dovuto avvenire, secondo i dettami del laissez faire, senza intralci regolatori quali regole su un minimo di compenso o su un massimo di ore di lavoro e, soprattutto, senza mediazione collettiva e sindacale. Su quest’ultimo punto, la concezione reificata del lavoro come merce comporta che ogni associazione o accordo volto ad aumentare il potere contrattuale del singolo lavoratore e quindi anche il prezzo di scambio della «merce-lavoro» si debba configurare come una violazione della libertà di commercio e delle leggi della concorrenza.
NEI PRIMI ANNI dell’industrializzazione, frequenti erano gli attacchi giudiziali ai sindacati «colpevoli» di alterare il libero gioco della concorrenza nel mercato della «merce-lavoro». Non è un caso che quando, negli Stati Uniti del 1914, una legge statuì per la prima volta il principio secondo cui «il lavoro non è una merce», fu per difendere i sindacati dagli attacchi dell’antitrust. Se il lavoro non è una merce, proseguiva la legge, allora l’azione sindacale non può essere condannata come un «cartello» sotto le disposizioni antitrust. Il principio che il lavoro non è una merce venne introdotto di lì a poco nell’atto fondativo della Organizzazione Internazionale del Lavoro, diventando così uno dei fondamenti del diritto internazionale del lavoro. L’originario scopo di difesa dall’antitrust si affievolì e il principio passò a significare, come insegnato dai fondatori del diritto del lavoro moderno, che il lavoro in sé e per sé non esiste, esistono le persone che lavorano e le persone hanno dignità, bisogni e diritti umani che rendono impossibile considerare il lavoro, giuridicamente, al pari di una merce.
Si tratta, ovviamente, di una questione ancora aperta. La fondazione del diritto del lavoro subordinato novecentesco col suo bagaglio di protezioni dei bisogni umani del lavoratore (malattia, maternità ma anche le limitazioni al potere gerarchico del datore sulla persona lavoratrice) tendeva a umanizzare il lavoro e demercificarlo. Per molti motivi, questo modello è andato in crisi negli ultimi decenni. Si sono sempre più diffuse pratiche organizzative che spostano il rischio derivante dai bisogni umani del lavoratore sulla sua persona e lo allontanano dal rischio di impresa. Il pericolo di questa nuova «mercificazione» del lavoro è poi oggi amplificato dall’(ab)uso di tecnologie che rendono, in effetti, invisibile il lavoro umano.
I FATTORINI DI DELIVEROO, gli autisti di Uber o i lavoratori dei magazzini Amazon, per non parlare dei crowdworkers, i lavoratori a cottimo online, rischiano in primo luogo di venire estromessi dal nostro immaginario. Ordinare una pizza col telefonino dal divano o farci consegnare gli acquisti online rischia di far passare l’idea che dietro le interfacce accattivanti del consumo online non ci sia lavoro umano, quasi che a recapitarci il tutto fossero algoritmi e robot, estensioni meccaniche dei nostri dispositivi senza fili e non persone in carne ossa. È facile allora pensare che il lavoro «digitalizzato ma non digitale» debba rimanere senza le protezioni a tutela della persona del lavoratore, anche se in molti casi i processi produttivi e distributivi si basano formalmente o riproducono informalmente gli schemi del lavoro subordinato che darebbe accesso a quelle tutele.
IL RISCHIO PRINCIPALE è che il lavoro diventi invisibile socialmente, rischio ancora più pronunciato quando si somma ad altre dimensioni tradizionali di invisibilità, come quella del lavoro domestico, da sempre ai margini delle attenzioni lavoristiche: i lavoratori domestici ingaggiati tramite piattaforma sono sempre di più. Ancora una volta, questo settore, che vede una presenza dominante di manodopera femminile e immigrata, resta ai margini del dibattito sul nuovo lavoro invisibile. È invece essenziale spezzare il circolo vizioso dell’invisibilità. Se cento anni fa era indispensabile rivendicare che il lavoro non è una merce, oggi è altrettanto urgente sottolineare che «il lavoro non è una tecnologia» e che, fin quando ci saranno persone che lavorano, ci saranno anche bisogni umani da tutelare sul lavoro.
CI SARA’ DIGNITÀ umana da proteggere dall’invasività degli strumenti di controllo digitale, dagli algoritmi che fissano i tempi e l’intensità di lavoro e processano i «voti» che i consumatori assegnano ai singoli lavoratori. Se anche si arriverà a un vero reddito di cittadinanza, la situazione non cambierà: la persona che lavora andrà ancora tutelata. E la dignità umana andrà protetta dal controllo tecnologico indipendentemente dal tipo di lavoro, subordinato o autonomo. Solo così il «futuro del lavoro» potrà assumere un’autentica dimensione liberatrice; al riparo dalle visioni ireniche o alle opposte previsioni distopiche, il dibattito va ricondotto alla sua essenziale concretezza: dietro il lavoro c’è la persona e le persone non sono merci. Né strumenti tecnologici.
Cosa resta del lavoro libero nell’economia digitale Dalle Dot.Com a Uber e Deliveroo. La forza lavoro non è sottomessa totalmente, secondo l'immaginario Black Mirror, ma ci pone ancora la sfida di pensare a e studiare le potenzialità e capacità di lotta e resistenza, di creazione e emancipazione aperte dalla socializzazione tecnologica Tiziana Terranova Alias Manifesto 26.1.2018, 23:55
Sono ormai passati quasi vent’anni da quando le cosiddette dot.com iniziarono a dire che il loro modello economico si basava sulla valorizzazione della partecipazione degli utenti (moderatori o animatori di forum e giochi online) e della loro loro capacità di produrre contenuti (testi, audiovisivi ma anche modifiche di videogiochi). Fino alla metà degli anni novanta, Internet era stato un medium a predominante finanziamento pubblico che si reggeva soprattutto sul lavoro di ingegneri e scienziati – incluso quello delle donne «computer». La commercializzazione di Internet a partire dalla metà degli anni novanta, invece, era stata presentata da subito come l’inaugurazione di una nuova fase non solo del medium in quanto tale, ma più in generale dell’economia di mercato. L’idea che il lavoro degli utenti costituisse parte integrante di questo modello sottolineava sia l’abbondanza della forza lavoro digitale e del plusvalore cognitivo e affettivo distribuito nelle masse inter-connesse che la capacità di tale forza lavoro di innescare una svolta del modo di produzione capitalista in quanto tale.
IL SIGNIFICATO di free labor in quanto concetto di matrice operaista stava nell’ambivalenza insita nel diventare gratuito e volontario della forza lavoro, cioè di quella capacità di produrre del lavoro vivo intesa non solo come spesa energetica, ma come forza sociale e virtuale, capacità espressiva e relazionale. La forza lavoro post-fordista nel suo insieme, avevano suggerito i pensatori post-operaisti, è caratterizzata dalla mobilitazione e crescente socializzazione del linguaggio e degli affetti, delle forze del cervello e della memoria, del sistema nervoso e della percezione. Nel mondo anglofono, i cultural studies avevano documentato le straordinarie potenzialità espressive e la natura politica delle cosiddette forme di consumo, riconfigurando la produzione culturale non come semplice fruizione passiva di contenuti, ma come capacità di soggettivazione e lotta attorno ai significati. In questa relazione ambivalente, si pensava allora, forse era possibile trovare sia le tracce dell’arricchimento affettivo e cognitivo della forza lavoro post-fordista, che le nuove forme di cattura, e quindi possibilmente anche di lotta e emancipazione. D’altro canto, la sfida femminista all’economia politica marxista prodotta negli anni settanta a partire dalla rivalutazione della produttività fondamentale del lavoro domestico, aveva già sollevato la questione delle specifiche forme di asservimento e assoggettamento che hanno caratterizzato lo sfruttamento del lavoro volontario e gratuito delle donne.
VENTI ANNI DOPO, la nozione che l’economia digitale è sostenuta dal lavoro degli utenti è diventata praticamente senso comune, ma la situazione è anche enormemente mutata. Non abbiamo più a che fare con piccole aziende quali le originali dot.com, ma con il consolidarsi di titaniche concentrazioni di potere attorno a poche grandi multinazionali americane (Google, Facebook, Apple, Amazon) a cui si aggiungono mano a mano che nuovi mercati vengono ‘disintermediati’ nuovi monopoli di settore (quali Uber e Airbnb).
Il CAPITALISMO di piattaforma si caratterizza per la costruzione di infrastrutture tecniche, logistiche e sociali, mentre moltiplica forme eterogenee del lavoro e della produzione del valore e le integra attraverso spazi innervati e sostenuti da software, algoritmi e in generale dal lavoro di coding e di programmazione.
TUTTE LE FORME del lavoro (dal taylorismo al lavoro a cottimo, dal lavoro salariato a quello gratuito, da quello di cura a quello più meccanico e ripetitivo) sono dunque sempre più integrate dalla tecnologia creando nuove forme di comando e controllo. Eppure, ci sembra ancora oggi importante, ribadire che questa situazione non rappresenta la sottomissione totale della forza lavoro, secondo l’immaginario Black Mirror, ma ci pone ancora la sfida di pensare a e studiare le potenzialità e capacità di lotta e resistenza, di creazione e emancipazione aperte dalla socializzazione tecnologica o iper-socializzazione della forza lavoro nelle sue molteplici e eterogenee espressioni.
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