domenica 16 febbraio 2020
Un'edizione della settima lettera di Platone. Bonazzi, Torno
Il sogno vano del buon governo
Quanti
viaggi Platone fece a Siracusa? Partì veramente tre volte per la
Sicilia? Evitiamo questioni filologiche per ricordare che le fonti a
nostra disposizione parlano di sue visite in Egitto, a Cirene, a Megara,
nell’Italia meridionale e, appunto, in Sicilia. Le odissee culturali
sono parte costituente delle biografie dei filosofi antichi. Certo, c’è
il silenzio di Aristotele, dei suoi scritti a noi pervenuti; tuttavia,
già nell’antichità non furono messi in dubbio tali itinerari. Anzi, come
scrive Filippo Forcignanò, «la tendenza più prudente nella storiografia
contemporanea è di ritenere sostanzialmente affidabili le informazioni
circa i viaggi in Sicilia e plausibile quello che racconta la Settima lettera».
Già, la Settima lettera:
delle tredici a noi pervenute sotto il nome di Platone, è quella ricca
di dati e la più fascinosa. Stando alle notizie pervenuteci, il filosofo
si recò la prima volta a Siracusa nel 388 a.C., quando tiranno era
Dionisio I. Il viaggio non avrebbe avuto fini politici particolari, ma
con buone probabilità il pensatore era interessato ai circoli pitagorici
attivi a Taranto, città in cui conobbe Archita (Eudemo da Rodi
riferisce che concepiva l’universo infinito). Dionisio I e Platone
s’incontrano, discutono e, stando a quanto scrive Plutarco nelle Vite, parlano di virtù.
Alla
morte del tiranno, il potere passa al figlio Dionisio II e Dione, amico
e allievo di Platone, assume rilevanza a corte. Forcignanò nota:
«Siracusa divenne per il filosofo un obiettivo concreto». Per questo
ritorna nella primavera del 366. Le eventuali speranze sono deluse:
presto Dione è esiliato e Platone è messo da parte, anzi minacciato di
morte. Non gli resta che riprendere la via del Peloponneso, dove anche
il sodale ed ex consigliere ripara. Ormai Platone non ha più illusioni
sui progetti siracusani, ma Dione lo convince a recarsi nella città
siciliana una terza volta. È un nuovo fallimento. Dione, nonostante la
prudenza dell’amico filosofo, ricorre alle armi, assedia la città,
Dionisio II fugge; tuttavia nel 354 è ucciso su ordine di Callippo. Che -
ironia - fu un frequentatore della scuola di Platone.
I
personaggi ricordati, il sogno politico di un governo filosofico, le
vicende e anche la propria formazione sono argomenti che Platone affida
alla Settima lettera, suo unico testo a noi giunto in cui scrive
in prima persona. Filippo Forcignanò ha curato una nuova traduzione con
greco a fronte, chiara e circostanziata introduzione, utile commento. Un
lavoro degno di lode che presenta a un pubblico, non solo di
specialisti, uno scritto considerato autentico dalla critica più
autorevole. In esso si coglie la speranza che accompagnò Platone «di
attuare i miei pensieri sulle leggi e sul governo», perché «quello era
il momento di provare».
Il testo greco che Forcignanò ha scelto è
sostanzialmente quello di Moore-Blunt (Tebner), anche se ha tenuto conto
di Burnet (Oxford) e di Souilhé (Belles Lettres); comunque ha accolto
anche altre lezioni, testimoniate dalla critica, e le ha elencate alle
pagine 61 e 62.
Il rumeno Vintila Horia scrisse nel 1964 un romanzo intitolato La settima lettera.
In esso ripercorreva il sogno di Platone nel costruire la città ideale.
Può essere utile per leggere con più dolce prospettiva quanto è stato
accennato. Oppure è possibile intravedere la speranza che mai prese
forma anche nel finale del libro IX della Repubblica, dove
Platone parla di un «modello fissato nei cieli per chiunque voglia
vederlo». Che esso esista o no, è cosa priva d’importanza, poiché -
asserisce - quello è il solo Stato nella politica di cui un vero
filosofo possa mai considerarsi parte.
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