venerdì 14 febbraio 2020

Il carteggio tra Cioran e Eliade


E.M. Cioran e Mircea Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983. A cura di Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicorta, Adelphi, Milano, pagg. 300, € 22

Cioran Eliade, amici antipodi
Raffaele Liucci Domenicale 9 2 2020
«U n giovane di Sibiu, biondo, con i capelli scompigliati sulla fronte». Così, nelle sue Memorie, lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) rievocherà il primo incontro a Bucarest nell’inverno del 1932 con il connazionale Emil M. Cioran (1911-1995). All’epoca, questi – studente scapestrato di filosofia – aveva già perso il sonno, «la più grande tragedia che possa capitare», all’origine della sua visione umbratile del mondo. Il più ottimista Eliade, invece, era un promettente orientalista, appena tornato da un soggiorno di tre anni in India, dove aveva approfondito lo studio dello yoga, del tantrismo e dell’alchimia indiana. Dopo quel primo contatto, tra i due nacque «un’amicizia che le differenze biografiche non faranno che corroborare, all’insegna di una stimolante complementarietà», scrive Horia Corneliu Cicorta?, scrupoloso curatore, insieme a Massimo Carloni, del loro cinquantennale carteggio appena pubblicato.
Cioran ed Eliade, in effetti, incarnarono due modelli intellettuali per molti versi antitetici. Il primo, trasferitosi definitivamente a Parigi nel 1937 («Se si deve essere dei falliti, è meglio esserlo a Parigi che altrove»), snobbato se non detestato dai luminari progressisti, si vanterà di essere «l’uomo più sfaccendato» della città: «credo che in questo possa battermi soltanto una puttana senza clienti». Barricato nella leggendaria soffitta-topaia al numero 21 di rue de l’Odéon («vivo come un monaco»), diventerà uno specialista del frammento e dell’aforisma, unici generi compatibili «con i miei sbalzi d’umore». I suoi libri funerei e beffardi pubblicati da Gallimard, a cominciare dal Sommario di decomposizione (1949), avranno sin dal principio una circolazione stentata.
Eliade, all’opposto, secondo l’amico era «il meno ozioso fra tutti gli esseri che ho incontrato su questa terra». Pur dilettandosi nello scrivere anche romanzi, aveva la mentalità del ricercatore di lungo corso e dell’accademico avido di riconoscimenti. I suoi interlocutori erano i colleghi studiosi, non certo le prostitute, i mendicanti e i falliti in cui si rispecchiava Cioran. Dopo aver tenuto nel secondo dopoguerra alcuni corsi all’École Pratique des Hautes Études, nel 1956 Eliade lascerà Parigi per trasferirsi a Chicago, stimato cattedratico e rinnovatore di una disciplina al suo arrivo ancora troppo legata agli studi teologici. «Che carriera, la tua!», gli scrive Cioran alla fine degli anni Sessanta: «In questi giorni ho pensato alla strada che hai percorso da “Est-Vest”, la piccola rivista di cui ti occupavi appena diplomato, fino alla History of Religions».
Quando Eliade illustrerà a Cioran la tormentata stesura dell’«opus magnum» della sua vita, «una storia delle Idee religiose, dal paleolitico fino a Nietzsche» (uscirà in tre volumi a partire dal 1976), emergerà tutto il fossato che li separava. Agli occhi dell’amico, infatti, Eliade dilapidava il proprio talento in affreschi troppo vasti e dispersivi. Del resto, come aveva annotato lo stesso Eliade nel proprio diario alla fine degli anni Quaranta, già allora Cioran snobbava «l’aspetto oggettivo delle religioni», materia da storici: «Lui è interessato unicamente alle modalità personali, esistenziali dei vari santi e mistici».
Quel che li univa era invece l’estraneità allo spirito del tempo. Esaurite le infatuazioni giovanili per la fascisteggiante Guardia di Ferro romena di Codreanu, dopo il 1945 i due transfughi non riusciranno mai a identificarsi del tutto con il mondo liberal-democratico che li aveva accolti. «Il pensiero occidentale mi delude sempre di più, non mi dà nulla (…) Persino la musica è uscita dalla mia vita. Ho optato definitivamente per la prosa, in tutti i sensi del termine», scrive Cioran. Quando poi assiste da vicino ai «discorsi» e alle «farneticazioni» dei sessantottini all’Odéon e alla Sorbona, confessa di sentirsi «combattuto»: «mi è impossibile essere a favore, mi è impossibile essere contro». Gli appaiono «bambini di nessuno», al pari dei legionari di Codreanu. Più drastico Eliade, dal suo osservatorio di Chicago, scandalizzato dal fatto che persino gli studenti di Teologia si ribellassero contro il sistema: «Negli Stati Uniti l’incoscienza, l’infantilismo e il delirio di colpa (giacché sono “bianchi” e “cristiani”) hanno raggiunto limiti tali da non suscitare più, almeno in me, alcun interesse». L’«unica gioia» era stata la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni: «Spero che Dayan [ministro della Difesa] sappia conservare quel che ha conquistato».
Se Cioran, Eliade (e Ionesco, il terzo grande esule romeno dell’epoca) avevano ormai abbandonato la terra e – in parte – la lingua avita, c’era un «amico lontano» qui spesso evocato: il saggista e filosofo Constantin (Dinu) Noica, rimasto in patria e perseguitato dal regime sovietizzato di Bucarest. Era stato lui, in quel lontano inverno del 1932, a presentare Cioran a Eliade. Insieme a Noica, tra il 1958 e 1960 ventitré intellettuali furono arrestati e rinviati a giudizio: accusati fra l’altro di aver letto e diffuso le opere dei due transfughi, introdotte clandestinamente in Romania da Marietta Sadova, un’attrice del Teatro Nazionale di Bucarest che li aveva incontrati durante una tournée a Parigi nel 1956. Il fantasma della patria perduta è il convitato di pietra di questo carteggio, in cui si alternano rimpianto e scherno: «Riguardo al nostro paese», scrive Cioran alla fine del 1968, «sono piombato in una totale indifferenza. Giornali, riviste, libri – tutto quello che ricevo da laggiù lo mando indietro subito, senza nemmeno dare un’occhiata».
Nell’ultimo scorcio dell’epistolario affiorano gli inevitabili acciacchi della vecchiaia. Pur civettando da sempre con l’idea del suicidio, Cioran era solo ipocondriaco. «Una volta alla mia età si moriva», scrive a sessant’anni suonati: «Erano i bei tempi in cui non si aveva l’indecenza di sopravvivere a sé stessi». Più fiducioso appariva Eliade, nonostante una grave forma di artrite alle mani: seguendo una certa tradizione indù, riteneva il dolore, la malattia e la morte altrettante «prove» iniziatiche in vista di una nuova vita. Un malore fatale lo coglierà quasi ottantenne nell’aprile 1986, proprio mentre stava leggendo un libro di Cioran (Esercizi di ammirazione). «Era il meno balcanico di tutti noi», scriverà l’amico in un necrologio dal titolo sottilmente ironico: Finalmente un’esistenza compiuta!
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Vi racconto i miei amici Eliade e Cioran 
Il primo ossessionato dalla politica, dalle religioni, dal suo paese Il secondo, anche lui romeno, indifferente alle cose del mondo Due diversi mistici che si completavano a vicenda
di Pietro Citati Rep 7 12 2020

I francesi amano la Francia, gli inglesi l’Inghilterra, i polacchi la Polonia, i russi la Russia. Ma c’è un fatto straordinario. Non esiste, in Europa e nel mondo, un caso come quello della Romania. La passione dei romeni per la Romania non ha né equivalenti né paralleli. Mircea Eliade scrisse: «Per me esiste un solo problema: la Romania». «Io ho sempre creduto nel destino della Romania: per me è l’unico destino esistente al mondo». Cioran affermava invece l’opposto (oppure l’identico?): «Riguardo al nostro paese sono piombato in una totale indifferenza. Giornali, riviste, libri - tutto quello che ricevoda laggiù - lo rimando indietrosubito,senza nemmeno dargli un’occhiata». E ancora: «La Romania è il mondo dell’assurdo, dell’eccentrico, del folle e dell’incompetenza».
Con mia moglie, ho vissuto due anni a Parigi, e ho passato la maggior parte di quel tempo insieme a Cioran e alla sua compagna, una donna deliziosa, Simone Boué. Abitavano presso il parco del Luxembourg, frequentato anche da un artista grandissimo, Joseph Roth, l’autore di un capolavoro,
La marcia di Radetzky, e di altri libri molto belli. Quante volte, abbiamo salito quelle scale: un tempo Cioran abitava con Simone in piccole, modeste, tristi camere ammobiliate. Poi acquistò (o affittò: ho i più vasti dubbi sulle finanze di Cioran) un appartamento a Rue de l’Odéon. Arrivare fin lassù era un’impresa. Da principio non aveva ascensore: le stanze abitate da Cioran e da Simone erano al quinto o al sesto piano; e bisognava arrampicarsi e inchinarsi con tutta la forza della nostra giovinezza.
Poi qualche miracolo, o qualche oscuro, misterioso finanziatore, immaginò un ascensore. La casa era graziosissima. Non c’erano libri (Cioran doveva averli ingoiati tutti): il letto era quasi invisibile; e tutti mangiavamo intorno a un tavolo di vimini, su quattro seggiole di vimini, parlando senza fine, con una eloquenza, una chiacchiera, un amore del pettegolezzo, che Cioran giudicava come una delle vette dell’intelligenza umana. Quanto abbiamo chiacchierato! Quanto abbiamo riso! Mai, forse, nella mia vita, avevo riso tanto, con la collaborazione di Simone e di mia moglie, che si assomigliavano un poco.
Come i grandi malinconici, Cioran aveva la passione, l’estro, l’assurdità, l’immaginazione del riso. Restavamo per ore a chiacchierare: via via, il riso diventava più assurdo e inconcepibile; fino a quando, arrivati al culmine, Cioran indossava l’impermeabile, e usciva di casa, camminando a mezzanotte per le deliziose strade di Parigi, della sua Parigi, piovosissima, che egli amava con una passione travolgente, pur affermando di detestarla.
Non mi vergogno di dire che ho adorato Cioran. Mi riesce difficile descriverlo, sebbene ancora oggi, dopo tanti anni, pensi a lui con un grandissimo affetto. Amava il paradosso e la battuta: era spiritosissimo, e saliva su una scala immaginaria che aveva costruito con le sue dita così fini, a cui Simone aveva certo contribuito. Aveva letto moltissimo: per esempio Klages e Hartmann. Amava la metafisica: era la persona più naturalmente metafisica che abbia mai conosciuto – io che mi sento perduto, preciso, mediocre, preside, come diceva Federico Fellini. Era un genio del paradosso, e poteva giungere a un punto che si capovolgeva soltanto nella sua enorme risata.
Era anticristiano oppure fingeva di esserlo: ma, con molta più naturalezza, era confuciano, taoista, buddhista, pagano. Molto spesso non riuscivo a seguirlo. Era il più mistico degli scettici, il più scettico dei mistici: era ambivalente, e amava tanto il brillio delle apparenze quanto lo spessore della concentrazione baudelairiana.
I suoi veri avi erano La Rochefoucauld, Saint-Simon, Madame du Deffand, naturalmente Baudelaire: molto meno Sainte-Beuve. A volte prorompeva in scoppi d’intelligenza biblica: soprattutto Giobbee il Qohelet . Odorava di Settecento come di Verveine: maprofumava molto più di una profondissima vocazione anticristiana. Dubito di quel che pensava di Gesù Cristo: certo quei miracoli non gli piacevano; ma sentiva in san Paolo un fratello d’elezione. Fondeva la concentrazione e la leggerezza, lo spessore, la profondità e l’apparenza più futile e frivola. Amava compromettersi, con questa cosa stravagante che è la nostra terra. Scriveva con grande piacere, alternando gli stili. «Ho scalzato tutte le mie illusioni, le ho sbeffeggiate, e adesso eccomi costretto a vivere i miei sarcasmi, a trarne le conseguenze pratiche – vittima di una visione risibile. Come rimpiango i tempi in cui una frase ben tornita mi consolava di qualsiasi insuccesso! Ma a che pro continuare a lamentarsi? Bisognerebbe poter pregare». E come scriveva a Mircea Eliade, pregava profondamente, insinuandosi per qualche strada che lui solo conosceva nell’enorme, impossibile, assurdo paradiso.
Era malinconico , uno dei più grandi malinconici della terra. Conosceva tutte le forme della malinconia: la più ovvia, la malinconia disperata: la malinconia prodotta dalla rinuncia al tabacco, quella nata dalle facili amicizie, quella prodotta da un colpo di telefono inatteso; quella generata dall’abulia, o dalla più semplice gastrite; dalla macerazione di cui avevano parlato Kierkegaard e Baudelaire, o dalla demenza di Stavrogin. Pensava, spesso, che la vita non aveva alcun senso, e che la creazione era stata un errore, e una stoltezza, e un castigo di Dio. Era, al tempo stesso, brillante, pessimista, sterile, sarcastico, mistico, scettico, colpevole del peccato di Adamo e di tutti i peccati che, a partire dalla Genesi, gli uomini hanno compiuto sulla terra. Ma non amava affatto la Genesi: la detestava, come detestava gli antisemiti. Amava Tocqueville.
A Parigi, si sentiva dimenticato: a volte simile a tutti i giovani francesi che avevano rinnegato de Gaulle. Se Cioran elaborava una precisa autopsia del centro, Eliade cercava di raccogliere attorno a sé le “storie comparate delle religioni”.
Tutti avevano accusato Cioran di essere stato un nazista, o un filonazista; e in realtà nessuno era più mite e meno nazista di lui, malgrado le sciocchezze che aveva pronunciato da giovane, quando aveva immaginatodi essereuna Guardia di ferro. Non aveva nessuna passione politica: la politica lo disgustava, anche il modestissimo Pompidou, mentre aveva avuto una debole ammirazione per de Gaulle, così alto, così altero, così affascinante, che attraversava gli Champs-Élisées con le sue altissime gambe e il piccolo cappello da generale. De Gaulle detestava gli inglesi, che invece Cioran amava moltissimo, fino ad attraversare tutta l’Inghilterra in bicicletta, insieme a Simone, tappa dopo tappa.
Gli sembrava che lavorare fosse un peccato: il peccato di Adamo, di Mosè, di Giobbe, a cui non voleva assomigliare in nessun modo. Giobbe gli ripugnava.
Non aveva unsoldo. Mircea Eliade lo finanziava generosamente. Presto Eliade andò in America, dove teneva conferenze, pagate stupendamente, all’Università di Chicago, sulla storia delle religioni. Teneva saggi sulle religioni del Tibet e della Mongolia, fino alle teologie ateistiche contemporanee. Eliade aveva letto assolutamente tutto: dalla dinastia cinese degli Shang a Confucio, al dio celeste Tien, che abita nell’Orsa Maggiore, nel centro del Cielo. Ricordava una frase del Tao Te Ching: il quale «circola dovunque nell’universo, ma sapeva di non potere mai essere fermato, e in lui non c’è posto per la morte ». Eliade concluse con una frase cinesestupenda: «Tutto è puro spirito. Non lo toccano néil calore della boscaglia in fiamme, né il gelo delle acque straripanti; né la tempesta che solleva l’oceano con un frastuono spaventoso. Le nuvole sono i suoi attacchi, il sole e la luna le sue cavalcature. Egli vagabonda al di là dei Quattro Mari: l’alternarsi di vita e di morte non lo riguarda affatto, mai, in nessun caso, e ancor meno i concetti banali di bene e di male».
Eliade raccontava del Brahmanesimo e dell’Induismo, di Buddha e dei suoi contemporanei, dei Celti, dei Traci, d’Orfeo, di Pitagora, dei Misteri di Dioniso, dei Misteri di Mithra, forse di Cristo, dello sciamanesimo. Sapeva ogni cosa: nessuno poteva gareggiare con lui; e univa e fondeva l’idea di ordine e quella di grazia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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