martedì 25 febbraio 2020
Nostalgistan. Un altro viaggio nelle fu- repubbliche sovietiche
Tino Mantarro: Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo, Portogruaro, pagg. 208, € 15
Bel viaggio nei brutti Stan
Turismo alternativo. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale (Turkmenistan, Kazakistan eccetera) offro luoghi dissonanti, periferie degradate e palazzi fatiscenti
I
viaggiatori indipendenti non si fanno certo dire dove andare dalla
pubblicità turistica (altrimenti non sarebbero indipendenti). Seguono
piste appena tracciate, segni sfuggenti, sotterranee inclinazioni... O
almeno piace loro pensare che sia così; e pazienza se dopo essere
partiti ciascuno per conto proprio, un po’ furtivamente, si ritrovano
poi tutti negli stessi posti.
Le mete predilette sono quasi
sempre Paesi decorosamente poveri, dove viaggiare con poche risorse,
ragionevoli disagi, pericoli solo all’apparenza. Qualche decennio fa
l’Eldorado era l’America centrale e meridionale. Poi cominciò la lunga
stagione del Sud-est asiatico, con la Thailandia di The Beach (il
libro di Alex Garland dal quale fu tratto un fortunato film con
Leonardo Di Caprio). In fondo quella stagione non si è mai conclusa,
anche se oggi i più intraprendenti guardano piuttosto verso il Vietnam o
il Laos.
Da qualche tempo tuttavia si avverte un interesse
crescente per gli Stan (un suffisso etnico, di origine persiana, che
vuol dire «Paese di»), le repubbliche centro asiatiche spuntate dopo la
dissoluzione dell’Impero sovietico: Turkmenistan, Uzbekistan,
Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan.
Va detto però che, in senso
stretto, gli Stan forse neppure esistono. A fine Ottocento i Russi
hanno gradualmente conquistato queste terre popolate da diversi clan
nomadi, forzandoli alla vita sedentaria. Nel 1924 poi Stalin creò le
cinque repubbliche socialiste autonome da cui discendono gli odierni
Stan, disegnando i loro confini con un tratto di penna, senza curarsi
troppo della coerenza e unendo sotto la stessa bandiera popolazioni
diverse. Per fare solo un esempio 5% degli abitanti della capitale
uzbeka Tashkent sono coreani, trascinati attraverso tutta l’Asia e
confinati qui. E quindi un’eredità di tensioni etniche, profughi,
purghe, epurazioni, persecuzioni dei credenti musulmani e di chi
semplicemente possedeva qualcosa (kulaki), migliaia di morti.
Inoltre,
nonostante il suffisso comune, sono Paesi molto diversi tra loro: il
Kazakistan per esempio è decisamente più grande e ricco dei suoi quattro
vicini (grazie alle riserve di petrolio e gas); mentre il piccolo
Kirghizistan, con le sue alte montagne e gli impianti di sci, è una
specie di Svizzera atterrata tra i deserti d’Asia.
Ma poi, perché mai qualcuno dovrebbe voler visitare Paesi così?
Certo
qui già al tempo di Marco Polo si intrecciavano i diversi rami della
Via della Seta, con i loro fantastici caravanserragli dove i mercanti si
scambiavano merci, idee, fedi. E quelle remote memorie storiche
sembrano riprendere vita da quando l’espansione commerciale cinese cerca
di sostituirsi all’ormai evanescente dominio post sovietico. Il perno
di questa strategia è Kashgar, un tempo estremo occidente della Cina,
affacciato su Kirghizistan e Tagikistan, a 4.200 chilometri da Pechino.
Un antico proverbio diceva che «le montagne sono alte e l’imperatore è
lontano»; il primo messo imperiale cinese nel II secolo a.C. ci mise
tredici anni per andare e venire, ma ora i collegamenti con la Cina –
autostrade, treni, aerei – sono rapidi ed efficaci.
Certo ci sono
centri come Bukhara, la città sacra dei musulmani d’Asia con le sue
trecentosessanta moschee e le cento scuole coraniche. O ancora la
leggendaria Samarcanda, sempre in Uzbekistan. E in effetti qui qualche
gruppo di turisti si incontra sempre più spesso. Ma perché spingersi
oltre, come ha fatto Tino Mantarro in un riuscito libro di viaggio
dedicato a questi Paesi? Perché misurarsi con troppa burocrazia,
continue richieste di denaro da parte di doganieri, poliziotti e
militari, poco inglese, scarsa accoglienza negli alberghi ex Inturist,
una cucina monotona dominata dal montone? Perché aggirarsi tra centri
storici ricostruiti e degradate periferie punteggiate da fatiscenti
palazzi prefabbricati? Non a caso il libro s’intitolava dapprima Tutta la tristezza che mi merito.
La
risposta potrebbe essere che una nuova estetica sorregge questo
viaggio, una fascinazione per il mondo ex comunista. In Germania Est lo
chiamano Good Bye Lenin Tourism, di nuovo dal titolo di un film fortunato del 2003, altri parlano di Dark Tourism:
«Quest’estetica di terre in rovina, questi luoghi dissonanti, mai
lindi, mai ordinari, a volte oggettivamente brutti. Paesaggi immensi,
spesso estremi, spazi aperti di sovrumana grandezza. Luoghi dove nulla è
a posto, dove a ogni angolo c’è qualcosa di inaspettato, malmesso e
improvvisato. Dove vivono persone incastrate dalle giravolte del potere,
sconfitte dalle ideologie, travolte dalla fine dei sogni. Posti dove
l’eccentricità non è una posa, ma la regola».
Un’esperienza da
ricordare e gustare pienamente dopo un adeguato intervallo, col senno di
poi: «Tra qualche mese, sarà stata una grande avventura: i ricordi sono
selettivi e lo sporco scivolerà via». D’altronde, come ha scritto
Sylvain Tesson, «viaggiare significa portare in giro la propria
delusione».
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