domenica 29 marzo 2020
Le opere complete di Rimbaud da Marsilio
Arthur Rimbaud: Opere, A cura di Olivier Bivort, traduzione di Ornella Tajani, Marsilio, Venezia, pagg. 856, € 20
La poesia come rivoluzione
Arthur Rimbaud. Tutti gli scritti editi da Marsilio, curati da Oliver Bivort e tradotti da Ornella Tajani. Un lavoro di rara limpidezza, destinato a rimanere un punto di riferimento
Nicola Gardini Domenicale 29 03 2020
Quando
si guarda all’opera di un sovversivo come Arthur Rimbaud, si comprende
che la storia della poesia è fondamentalmente rivoluzione sociale. Non
tutti i poeti hanno le sue capacità e le sue pretese riformistiche, ma
tutti i poeti, anche quelli che più apparentemente continuano una
tradizione, provano a intervenire sulla realtà, se non altro
allontanandosi per mezzo del ritmo e del canto o di qualche forma di
armonia dalle tristezze del linguaggio corrente. Nessun poeta è meno che
mago, nelle intenzioni. La messa in crisi della lingua non è che il
paradigma di un rinnovamento assai più esteso che coinvolge in una volta
le coscienze individuali e le istituzioni pubbliche, insomma tutti i
fondamenti del vivere civile, in vista di ideali superiori. Io poeta –
io Rimbaud, nella fattispecie – cambio la lingua perché deve cambiare la
società; perché deve cambiare il mondo; perché si può essere migliori,
più veri. Né – sia chiaro – lingua e mondo si rapportano l’una all’altro
su basi puramente analogiche. Qui non si tratta di paragoni: come la
lingua, così il mondo; se la lingua…, allora, per somiglianza, anche il
mondo… La lingua è il mondo, poiché il mondo è luogo di significati
prima che di eventi. Quando si trasformano i significati, si trasforma
inevitabilmente la sostanza delle cose e dell’essere umano.
Insofferente
di tutto, sempre furibondo, Rimbaud non si limita a criticare quel che
ha davanti: la soffocante provincia, la morale borghese, la normatività
sessuale, la religione, i fallimenti della politica francese, la pessima
scrittura. Lui vuole una rinascita generale, una nuova primavera. La
prima parola del suo corpus è appunto “Ver” (il latino per “primavera”).
E quale sarebbe il seme della rinascita? Lui stesso. Questo poeta di
pochi anni, questo puer, che da sempre si sente diverso e
resta coerentemente protestatario ogni giorno della sua vita e, precoce
in tutto come nessun altro, sa contemplare d’un colpo d’occhio e
contenere in sé inizio e fine, slancio e compiutezza, non lamenta alcuna
esclusione: usa la propria diversità come una missione. Nessuna volontà
di appartenenza, nessun conformismo mai, neppure nel più conformistico
degli spazi, cioè la scuola, dove è emarginato per troppa bravura.
L’amore, quello sì; mai l’integrazione.
Rimbaud si sente un
protetto di Apollo e delle Muse; ancor meglio: si sente un Cristo. La
sua frase «Je est un autre», che scrive a due dei suoi principali
corrispondenti (Georges Izambard e a Paul Demeny il 13 e il 15 maggio
1871), significa questo: non esisto se non nell’innalzamento di me
(“monter”, “salire”, è tra i suoi verbi prediletti); sono uomo e sono
dio. Mira a identificarsi con il suo “génie”, ovvero con una dimensione
superiore dell’intelligenza e della sensibilità. La famosa alterità
rimbaldiana dell’io, che non smette di correre a sproposito di bocca in
bocca, non va presa per alienazione o per desoggettivizzazione (o
spersonalizzazione, capriccio di certo avanguardismo novecentesco).
Rappresenta invece un potenziamento del sé, una “transustanziazione”,
un’”alterazione” – se vogliamo continuare a giocare con la varietà
semantica – del pensiero; un “tradurre” il dato in metafora, nella
metafora trovando un nuovo dato. “Traduction” è proprio una parola di
Rimbaud (mi sto riferendo a uno dei suoi passi più celebri, «Alchimia
del verbo»), un hapax legomenon, che, mentre risulta enigmatico
per alcuni, per me indica abbastanza chiaramente il progetto di mutare
l’inerzia verbale e mentale in “altra lingua”. In conclusione, il poeta
sa che prima o poi, grazie alle sue magie, tutti dovremo parlare e
pensare da “stranieri”. Alterandosi, il pensiero si accresce e vede di
più, più a fondo. E tale alterazione ha qualcosa del fenomeno
incontrollabile, è un’“éclosion”, uno “sbocciare”, che non deriva, alla
fine, da nulla di volontario. Che ci possono fare, illustra
figurativamente Rimbaud ai due citati signori, il legno e l’ottone se un
giorno si ritrovano violino e tromba? Certo, ci vuole impegno a
diventare altro: ci vuole un “dérèglement” (“sregolamento”) dei sensi
(le facoltà percettive) per diventare “Voyant”, “visionario”. Però,
l’impegno arriva fino a un certo punto. “Ce n’est pas du tout ma faute”:
“Io non ci ho nessuna colpa”. Lo “sregolamento” stesso è parte dello
“sbocciare”.
La carriera di Rimbaud è un’iniziazione perenne; una
ricerca che, sostenuta da una vocazione anche troppo presto matura, si
riforma continuamente su sé stessa, approfondendo e smentendo i
risultati via via raggiunti, pendolando tra fallimento e trionfo, fino
alla consunzione ultima della volontà e della parola. Comincia a scuola
con alcuni componimenti metrici in latino, il massimo della “regola”,
che sanno di Ovidio (da lui quel “ver” che ho ricordato) e di Virgilio
(oh eccezionalmente belli, soprattutto quando si considera che l’autore
ha solo quattordici anni, e colmi di profezie), passa per ogni
sperimentazione e registro (e non pochi capolavori), perviene a una resa
dei conti nella prosa poetica di Une saison en enfer e si chiude con il francese introverso, buio delle Illuminations. Poco più di cinque anni di attività, durante i quali il poeta pubblica appena tre poesie, una satira politica e Une saison en enfer (che
per altro a lungo non avrà alcuna circolazione). Poi, per oltre sedici
anni, il silenzio: i viaggi, il disinteresse per quel che in Francia si
va facendo della sua opera, il cancro.
Tutti gli scritti di Rimbaud escono ora per Marsilio con il titolo di Opere,
accompagnati dal testo a fronte. La traduzione è di Ornella Tajani e la
cura di Olivier Bivort. Si tratta di un bel volume, elegante e
informativo, governato da senso della misura e da rara limpidezza di
intenti, destinato a rimanere – suppongo – il Rimbaud italiano per molti
anni. Bivort ha giustamente deciso di sistemare i testi secondo la data
di composizione, lasciando emergere dalla semplice sequenza cronologica
la direzione della creatività rimbaldiana. Ha incluso anche i
componimenti latini (tradotti da Emilio Pianezzola), che saranno una
sorpresa per il lettore meno esperto del Rimbaud “pre-Bateau ivre” o per
quello più riluttante ad accettarli fuori dei confini dell’esercizio
scolastico, e una scelta di alcune lettere, compresa quella che Rimbaud
scrisse a Paul Verlaine dopo la rottura. Sia l’introduzione sia le note
di commento sono ispirate alla più sincera volontà di chiarezza e di
informazione (spiace solo non trovare alcuna nota sul termine
“traduction”, che al bravo curatore forse sarà sembrato fin troppo
accessibile). Un’ottima cronologia completa gli apparati esplicativi. La
traduzione, che la traduttrice giustifica in una lunga nota, è limpida
ed elegante; districa non pochi viluppi e non si sforza di riprodurre
isosillabismi, rime o giochi di parola laddove la somiglianza tra le due
lingue non venga in soccorso, e in tal modo propone un giusto metodo
per tutti i traduttori di opere complete di poesia. Un conto, infatti, è
tradurre componimenti singoli, per ragioni artistiche o determinate da
circostanze particolari, un conto tradurre un corpus completo per
un’ampia diffusione. Suggerisco solo, in vista di una ristampa, di
rendere l’“ô” delle esclamazioni con “oh” e non con “o” (come in
“Genio”, p. 513) perché sia evitata confusione con la “o” disgiuntiva
(“o” andrebbe bene se si trattasse di invocazioni alla seconda persona). © RIPRODUZIONE RISERVATA
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