lunedì 16 marzo 2020

Midcult: Hopper a Basilea

Edward Hopper. Basilea, Fondation Beyeler
Info: www.fondationbeyeler.ch/en

Sedotti dalle case di Hopper
Basilea. Alla Fondation Beyeler 65 opere del pittore statunitense la cui ispirazione derivava esclusivamente dalla natura e dalle abitazioni, simbolo della «presenza assente» dell’uomo
Ada Masoero Domenicale 15 3 2020
Chiunque abbia visto Psycho, il celeberrimo film del 1960 di Alfred Hitchcock, non può aver dimenticato la sinistra casa vittoriana del protagonista, che incombe sul suo motel. Per quella casa il regista ammise senza difficoltà di essersi ispirato al dipinto di Edward Hopper The House by the Railroad, 1925, oggi al MoMa di New York. Ma quello non fu che uno dei “prestiti” cui ricorse Hitchcock, i cui film sono costellati di citazioni dai suoi dipinti. Quanto a Hopper, era a sua volta un accanito cinefilo che, dopo vent’anni da disegnatore pubblicitario (un lavoro non amato ma con cui si mantenne a lungo e da cui trasse la capacità di colpire infallibilmente l’emotività dell’osservatore), nel 1960 era ormai da decenni un autentico mito negli Stati Uniti. I due, a detta di Robert F. Boyle, scenografo prediletto di Hitchcock, condividevano l’identica passione per «il penultimo momento», quel momento cioè, inconsapevole e sereno, che precede lo scatenarsi improvviso di una tragedia. Era esattamente «the Hopper look», ripeteva Boyle, ciò che Hitchcock cercava: lo stesso sguardo che avrebbe sedotto generazioni di registi, da quelli delle serie televisive (specie se noir) a grandi personalità come Wim Wenders, che per la mostra in corso a Basilea alla Fondation Beyeler ha realizzato il cortometraggio 3D Two or Three Things I Know about Edward Hopper, in cui gli rende omaggio rievocando luoghi e scene dei suoi dipinti.
Dal MoMA non è arrivato in mostra The House by the Railroad, (sebbene case simili - quelle tipiche del New England dove Hopper villeggiava - figurino in altri dipinti) ma di lì è giunto il non meno iconico The Gas, 1940: tre rosse pompe di benzina; una piccola stazione di servizio ancora illuminata, nel crepuscolo che sta calando; l’anonimo addetto che sigilla i distributori per la notte e, alle spalle, l’oscurità degli alberi di una foresta lungo la quale corre una strada deserta che subito piega verso chissà dove: un set perfetto per un episodio di qualunque serial da pelle d’oca. E un esempio eloquente dell’«Hopper look».
La mostra, curata da Ulf Kuster, riunisce 65 opere (dipinti, acquarelli, disegni, incisioni) datati tra il 1909, quando Hopper andò per la prima volta a Parigi, e gli anni Sessanta, giunti in gran parte dal Whitney Museum di New York, cui la moglie Jo, incontrata alla scuola d’arte, ritrovata a 40 anni e sposata solo allora, ma subito diventata compagna inseparabile di vita e di lavoro, lasciò tutto il loro patrimonio artistico. Prendendo le mosse dal dipinto Cape Anne Granite, 1929, già in collezione Rockefeller e ora in prestito permanente alla Fondazione Beyeler, il curatore si è concentrato sui soli paesaggi, aspetto sinora poco esplorato, eppure molto presente nel suo lavoro.
Hopper, che era nato nel 1882 a Nyack, località costiera dello Stato di New York, e che, pur fra innumerevoli viaggi, a New York City avrebbe sempre vissuto (vi morì nel 1967), usava passare lunghe estati tra il Maine e il Massachusetts, dalle cui coste rocciose, sferzate dalle onde e bruciate dal sole, era sedotto. In mostra ci sono paesaggi marini bellissimi e mai banali, per la resa magistrale di una luce che scolpisce le rocce e le scogliere, modella i volumi dei fari, incide le superfici delle facciate di assicelle bianche delle case locali. Il suo obiettivo del resto, ripeteva lui, era «dipingere la luce sul lato di una casa»: c’è forse qualcosa di più cinematografico?
Quanto alle case, per lui erano dotate di una loro vita, emanazione delle vite di chi ci viveva, tanto che una splendida veduta urbana del 1950 (lo schizzo era stato ripreso dal sedile della sua auto, come usava fare), è intitolata Ritratto di Orleans. Case “infestate”, le sue (da realtà benefiche o malefiche non è dato di sapere), come la propria casa natale, ripresa dall’interno in Stairway, 1949, dove la scala sfocia in un piccolo ingresso aperto su un’impenetrabile (e improbabile) foresta, per lui simbolo delle profondità minacciose dell’inconscio. Ovunque poi, la ferrovia, i cui binari senza fine valgono per Hopper come segni dell’illimitatezza del paesaggio americano, mentre imprimono sulla natura il segno dell’uomo. E ovunque, anche nei paesaggi più fulgenti di colori (come il magnifico Railroad Sunset, 1929), la malinconia, il silenzio, la solitudine, propri di chi, come lui, era votato alla pittura ma anche alla letteratura - specie tedesca, Goethe in testa a tutti - e a una riflessività che lo induceva a coltivare per mesi, se non per anni, ogni soggetto prima di dipingerlo. Tanto che il catalogo dei suoi dipinti conta 366 numeri soltanto. Rare, nei suoi lavori, le figure umane (che sono per lo più legnose, inanimate. Evidente che non lo interessavano): per lui, infatti, la natura e le case, simbolo della “presenza assente” dell’uomo, erano la sola, vera fonte d’ispirazione.
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