lunedì 16 marzo 2020
Razzismo e eugenetica verso gli europei negli Stati Uniti liberali: Okrent
Nell’America in cui si saldarono razzismo e xenofobia
Ermanno Bencivenga Domenicale 15 3 2020
«William
non ha tanti figli come Tonio perché non ammassa la famiglia in una
stanza, non mangia maccheroni su una nuda tavola, non fa lavorare la
moglie scalza nei campi, non fa raccogliere cipolle ai figli invece di
mandarli a scuola». Chi scrive questa frase, nel 1914, è Edward Ross,
sociologo di Stanford che nel 1901 aveva introdotto l’espressione
«suicidio di razza».
William è un immaginario rappresentante
della razza che si sta suicidando: quella «nordica» degli originari
coloni statunitensi. Tonio è una caricatura degli immigrati dall’Italia
meridionale, che Theodore Roosevelt definiva «la più fertile e meno
desiderabile popolazione d’Europa». La frase di Ross è un grido
d’allarme: un flusso inarrestabile proveniente dal Sud e dall’Est
europeo sta sommergendo i «nativi americani» (all’epoca, il termine
designava i Wasp, White Anglo-Saxon Protestants). Di
italiani, nel 1850 ne erano arrivati 431; nel 1887 sarebbero stati
47.622; nel primo decennio del XX secolo oltre due milioni.
Siamo in The Guarded Gate,
di Daniel Okrent, giornalista e scrittore che ha lavorato al «New York
Times», «Time» e «Life» e qui racconta una fase sciagurata della storia
americana, in cui due demoni che da sempre tormentano quel Paese, il
razzismo e la xenofobia, si saldarono (come del resto stanno facendo di
questi tempi) producendo mostruosità legislative. Okrent è ebreo, quindi
è particolarmente sensibile al destino della sua gente: a quanta se ne
sarebbe salvata dall’Olocausto se quelle leggi fossero state meno
punitive e demenziali. Ma, scrivendo in questo Paese e in questo
momento, è utile ricordare quel che ci tocca da vicino: «Il matrimonio
di un uomo bianco educato e raffinato con una bella contadina del Sud
Italia potrebbe rimandare indietro i suoi figli, quanto a sviluppo
intellettuale, di molte centinaia di anni» (da America: A Family Matter di Charles Gould, del 1920, pubblicato da Scribner).
Dal
1891 Henry Cabot Lodge, deputato e poi senatore, si batté per porre
limiti all’immigrazione. Inizialmente la sua proposta era di introdurre
un esame di lettura che tenesse lontane le orde di ignoranti. Ma,
sebbene il Parlamento si esprimesse più volte, a grande maggioranza, in
favore di questa misura, un presidente dopo l’altro, da Cleveland a Taft
a Wilson, vi posero il veto. Entrò in campo allora la «scienza»: più
precisamente l’eugenetica, che aveva ricevuto il nome e i primi sviluppi
dall’inglese Francis Galton, cugino di Darwin, e avrebbe conosciuto
l’apogeo nei primi trent’anni del Novecento. Scienziati come Fairfield
Osborn, paleontologo e direttore dell’American Museum of Natural
History, e pseudoscienziati come Madison Grant, ricco avvocato
ambientalista, riciclarono la loro xenofobia in un linguaggio di razze
geneticamente inferiori. L’impareggiabile Ross poteva così parlare dei
napoletani come di «una classe degenerata» che mostrava «un’angosciosa
frequenza di fronti basse, bocche aperte e lineamenti sgraziati».
I
risultati della santa alleanza non si fecero aspettare. Nel 1917 la
solita legge si ripresentò in Parlamento, fu approvata, Wilson pose un
nuovo veto ma stavolta i parlamentari votarono in numero sufficiente da
annullarlo. Era solo l’inizio, ed era una vittoria di Pirro: avrebbe
incoraggiato chi voleva immigrare ad alfabetizzarsi e divenire così più
temibile (nei decenni successivi l’analfabetismo italiano sarebbe sceso
dal 70% al 23 per cento). Si approntarono allora piani più ambiziosi e,
con il sostegno dell’eugenetica («non si fanno accese discussioni sulle
tabelline; non si contestano i dati quantitativi di una scienza», diceva
Charles Davenport, il suo maggiore esponente americano), due leggi del
1921 e del 1925 stabilirono quote sempre più limitate per varie
categorie di immigrati. Come risultato, i 222.260 italiani che erano
entrati negli Stati Uniti nel 1921 si ridussero nel 1925 a 2.662.
La
legge del 1925 sarebbe stata abrogata solo quarant’anni dopo, da Lyndon
Johnson. Nel frattempo, l’eugenetica aveva rivelato la sua debolezza
teorica ed era stata coinvolta nelle infami pratiche omicide del
nazismo. L’ampia galleria di personaggi evocata con sapienza e con gusto
da Okrent è oggi un corteo di fantasmi. Ma è bene non dimenticarli, e
al proposito va citato un altro squallido aspetto di questa vicenda. Ho
menzionato un editore prestigioso come Scribner e uno scienziato
rispettabile come Osborn. Avrei potuto menzionarne altri, e con loro
università come Harvard e Princeton, giuristi come Oliver Wendell Holmes
(celebre è il suo «tre generazioni di imbecilli sono abbastanza», nella
decisione con cui confermava una legge sulla sterilizzazione forzata
della Virginia), giornali come lo stesso «New York Times» di Okrent:
tutti entusiasti sostenitori di una scienza farlocca e di politiche
abiette.
Sono considerazioni che lasciano affranti, e alle quali
si può rispondere solo con tenacia e con modestia: la tenacia, appunto,
di ricordare; la modestia di cautelarsi contro le mode, scientifiche e
non.
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