lunedì 4 maggio 2020
Capitalismo politico o socialismo del XXI secolo? Aresu assimila USA e Cina e li contrappone all'Europa
“La difesa è molto più importante della ricchezza”.
Adam Smith segna così i confini dell’economia politica, nel momento
della sua nascita. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella
sicurezza nazionale, dominio arcano dei grandi contendenti dell’arena
globale, gli Stati Uniti e la Cina. Le due potenze fondono l’ambito
economico e quello politico, attraverso le decisioni del Partito
comunista cinese e degli apparati di difesa e sicurezza nazionale degli
Stati Uniti. Pechino e Washington vivono un acceso conflitto di
geodiritto: una guerra giuridica e tecnologica combattuta attraverso
sanzioni, uso politico delle istituzioni internazionali, blocchi agli
investimenti esteri. Partendo dalla filosofia, Alessandro Aresu traccia
un percorso chiaro che porta il lettore fino alla più recente attualità,
descrivendo in dettaglio il conflitto tra diritto ed economia in atto
tra Stati Uniti e Cina.
La Nave di Teseo
Alessandro Aresu: Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, Milano,
pagg. 508, € 22
Le sfide del secolo asiatico
Scenari globali. Nella fase in cui si profila il crescente peso cinese, uno studio si interroga sulla natura del capitalismo, l’equilibrio tra libertà e sicurezza, le evoluzioni del diritto
Prima
dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, l’atteggiamento
diffuso, tra gli osservatori liberali, era che il modello di sviluppo
cinese non fosse sostenibile. Chris Patten, il politico Tory che è stato
l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, richiamava a questo
proposito l’autorità di Margaret Thatcher che, durante una visita in
Cina, aveva affermato che non importa se si parte con la libertà
economica o con quella politica, perché alla fine le due risultano
inseparabili.
La tesi di fondo di Patten, o di Will Hutton -
autore in quella stagione di un libro sulle prospettive della Cina nel
XXI secolo - era che un sistema economico capitalistico, come quello
emerso dalle riforme iniziate da Deng Xiaoping, non fosse compatibile,
nel medio periodo, con istituzioni politiche non liberali. La classe
media che si forma in seguito all’aumento della ricchezza avrebbe prima o
poi messo in discussione il sistema di governo autoritario del Partito
Comunista Cinese, provocandone l’indebolimento e infine il crollo, come
era avvenuto in Russia, e nei Paesi del blocco sovietico, dopo la caduta
del muro di Berlino. Di qui il dilemma che si poneva alla leadership
cinese: crisi o riforma?
Riletti oggi, questi e altri scritti che
articolavano il senso comune del liberalismo post 1989 farebbero
sorridere, se le condizioni in cui si trova il mondo, in parte anche per
responsabilità delle classi dirigenti liberali di diversi Paesi
occidentali, non fossero così preoccupanti. Nel giro di poco meno di un
decennio, gli Stati Uniti hanno dissipato una larga parte del “capitale
morale” su cui poteva ancora far leva la loro pretesa di essere leader
tra le democrazie oltre che la potenza egemone del mondo dopo la
fine della guerra fredda. L’Europa, cui si affidava la speranza di una
forma di egemonia diversa da quelle del passato, basata non sulla forza,
ma sulla capacità di diffondere una cultura di diritti, tolleranza e
solidarietà, ha superato con grande difficoltà la sfida della crisi
finanziaria, uscendone indebolita e divisa. Ha poi gestito nel modo
peggiore il problema dei migranti, lasciando che al proprio interno si
rafforzassero tendenze autoritarie e persino neofasciste che sembravano
consegnate per sempre alla pattumiera delle ideologie. Sta cercando,
infine, una via d’uscita dalla crisi sanitaria provocata dall’epidemia
di Covid-19, seguendo diverse strategie nazionali, spesso in frizione
l’una con l’altra, e faticando a trovare una forte soluzione condivisa
per quella economica che si prospetta nei prossimi mesi per via della
chiusura di buona parte delle attività produttive e commerciali nella
maggioranza dei Paesi del continente.
Nel frattempo, la Cina, che
pure era stato il primo Paese colpito dall’epidemia, sta riaprendo
l’area di Wuhan, cui era stato imposto uno strettissimo lockdown,
e si avvia a recuperare parte del terreno perso in questi mesi sul
piano economico. Forte di questo risultato, e di una posizione di sempre
più larga influenza internazionale, grazie a una rete capillare di
investimenti e iniziative culturali, lo “Stato-civilizzazione” cinese
sfrutta con intelligenza gli spazi lasciati vuoti da Stati Uniti ed
Europa. Appare sempre più evidente che quello in cui siamo entrati si
avvia a essere un “secolo Asiatico” che sarà plasmato, e speriamo non
devastato, dalla competizione tra potenze con aspirazioni imperiali. In
particolare, la partita si giocherà tra Cina e Stati Uniti d’America.
Questo
è lo sfondo su cui si colloca il libro di Alessandro Aresu, un
intellettuale dal profilo peculiare per un Paese, come il nostro, che
spesso è afflitto da una concezione quasi feticista dei confini
disciplinari. Di formazione filosofica, ma laureatosi con un maestro del
diritto commerciale, Guido Rossi, Aresu ha un percorso professionale
tra istituzioni di ricerca, riviste di geopolitica e ministeri. Un
profilo che si trova nelle sue eclettiche letture, che vanno dalla
storia, alla politica, all’economia, ma senza mai perdere di vista il
dettaglio rivelatore, si trovi esso nella biografia di un funzionario
francese, in un romanzo di successo o in un paper accademico. A
fare da filo conduttore al libro è il tema della varietà dei
capitalismi, un classico del pensiero sociale dei primi del Novecento,
da Max Weber a Werner Sombart, che sta tornando, in parte proprio per
via dello “scandalo” cinese, di prepotente attualità.
In specie,
ciò che interessa ad Aresu è il superamento della distinzione tra
modelli teorici dell’economia e analisi sociale, e lo studio dei diversi
modi in cui sia il capitalismo con “caratteristiche cinesi” sia quello
statunitense hanno una specifica dimensione politica. Per questo egli
recupera la felice formula weberiana del “capitalismo politico” basato
sulla cooperazione, non sempre priva di problemi, tra la mano invisibile
del mercato e quella visibile della potenza, da rintracciare sia negli
Stati sia nelle grandi concentrazioni di potere economico in grado di
influenzare, in vari modi, i decisori politici.
Uno degli aspetti
più interessanti del libro di Aresu, che ha proporzioni mastodontiche, è
l’abilità con cui riesce a portare alla luce i conflitti che
attraversano le nostre società, che sono stati accuratamente
“neutralizzati” (Carl Schmitt è uno degli autori che tornano spesso,
anche se per fortuna senza i manierismi degli Schmittologi) da una
politica concepita esclusivamente come amministrazione. Si tratta di
tensioni che non hanno più la natura dirompente degli scontri che
conosciamo dalla storia della prima Rivoluzione industriale. Non ci sono
più delle Peterloo, almeno non in Europa. Ma passano piuttosto
attraverso l’uso della tecnologia e di forme di controllo morbide (di
cui, ironia della sorte, Chris Patten esaltava le potenzialità di
liberazione nel suo libro sulla Cina, riflettendo tra l’altro
sull’epidemia di Sars) che si diffonderanno inevitabilmente in seguito
alla pressione irresistibile delle esigenze della produzione in un mondo
sempre più vulnerabile alla diffusione rapida e su larga scala di
agenti patogeni che possono rivelarsi molto aggressivi.
Alla fine
non c’è un vincitore, o una filosofia della storia. Anzi, credo che il
pregio del libro di Aresu sia proprio nelle domande che pone: sulla
natura del capitalismo, sul futuro della democrazia, sulla vitalità
della socialdemocrazia, sull’equilibrio tra libertà e sicurezza, sulle
trasformazioni del diritto in un’economia globale. Ciascuna meriterebbe
un approfondimento, che non si trova in un lavoro che si rivolge a un
pubblico non accademico, forse a quella “classe dirigente” di cui tanto
si lamenta oggi l’assenza. Sfogliandolo, chi vuole andare avanti, trova
una straordinaria quantità di riferimenti, molti libri che vale la pena
di leggere, come William Dalrymple sulla compagnia delle Indie o Simon
Winchester su John Needham, insieme a tanti classici. Questo fa ben
sperare per il futuro, perché di persone curiose e dalla mente aperta
come Aresu abbiamo bisogno.
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