domenica 25 ottobre 2020

Gnoli intervista Pier Aldo Rovatti

Pier Aldo Rovatti Lasciamoci guidare da un’etica minima
di Antonio Gnoli Robinson 23 10 2020

Leggo l’autobiografia che racconta in parte la vita e le opere di Pier Aldo Rovatti (un libro ben condotto da Nicola Gaiarin, dal titolo La filosofia è un esercizio, edito da La nave di Teseo). Vi si colgono alcuni spunti interessanti che prescindono dalla persuasività con cui l’autore si mette in mostra. Colpisce, per esempio, l’involontarietà sfumata di certi sentimenti. La parola “pudore”, che qui torna spesso e traccia una visibilità etica, è pronunciata senza enfasi, quasi a voler attenuare l’invadenza dell’Io. Gli esercizi di filosofia che Rovatti pratica mi pare si collochino in una terra di mezzo, “da qualche parte nell’incompiuto” (per usare il titolo di un libro di Jankélévitch, filosofo che ama), al riparo dagli abusi della ragione. E non è un caso, se alle spalle di tutto questo, ci sia un fortunato pamphlet sul “pensiero debole” che Rovatti scrisse insieme a Gianni Vattimo, all’inizio degli anni ’80. Quella “terra di mezzo”, appunto, simile al luogo stregato delle favole che si può attraversare o restarne dentro inconsapevoli solo per incantamento. In fondo cos’è il pensiero debole, se non il piacere per tutto ciò che non sappiamo stia accadendo?
Per tutto ciò che riteniamo non debba o non possa essere completamente sotto controllo.
Tu che cosa pensi?
«Il libro cui alludi uscì nel 1983. Nessuno di noi due si aspettava che quell’espressione diventasse uno slogan popolare. Anzi, la sensazione è che fossimo in anticipo sui tempi».
Le vostre esperienze nascevano da mondi filosofici differenti, come arrivaste a questa intesa?
«L’incontro con Gianni fu favorito soprattutto dal comune interesse per Nietzsche. Ma anche dalla sua collaborazione ad aut aut che dirigevo, dopo la morte di Enzo Paci. Nel 1977 scrisse un articolo sul “deperimento della politica”, individuando, già allora, un tema che oggi abbiamo sotto gli occhi in forma compiuta».
Come arrivaste alla formulazione del “pensiero debole”?
«Personalmente partendo da Marx e dalla teoria dei bisogni. Mentre Vattimo giunse a questa ipotesi tramite il confronto con Walter Benjamin. Ci sono bastate alcune conversazioni per capire che, pur da zone diverse del pensiero contemporaneo, ermeneutica e fenomenologia per intenderci, potevamo trovarci d’accordo su una situazione apparentemente dettata dal “riflusso” — cominciava a esserci con i primi anni ottanta molta delusione nei riguardi delle ideologie — ma che in realtà apriva a territori nuovi e sorprendenti. La nostra proposta suscitò molto interesse. Non subito. Anzi, all’inizio fu fraintesa. Si disse che il pensiero debole fosse un invito alla pigrizia e all’evasione».
E invece?
«Metteva in discussione due aspetti. Il primo legato alla verità e al nostro rifiuto del fondamento. Un uso, insomma, meno perentorio dei concetti filosofici. Il secondo aspetto, che è quello che prediligo, si riferisce a un potenziale etico che ancora oggi contrasta con una cultura individualistica che spesso ammicca o sposa l’assetto autoritario della verità. Dietro a tutto questo c’era anche la proposta filosofica di Enzo Paci».
Cosa ha rappresentato lui per te?
«È stato un maestro. Una sensazione che ebbi dal primo incontro, in occasione di un esame, e che conservai fino alla fine della sua vita, nel 1976. In fondo, se ho scelto di occuparmi di filosofia lo debbo in massima parte a lui».
Quale alternativa poteva esserci?
«Forse il teatro, sì il teatro avrebbe potuto prendere il sopravvento».
Perché?
«Alla fine del liceo con Salvatore Veca avemmo una collaborazione con il Piccolo Teatro. Facevamo un lavoro di approfondimento dei testi. Questo ci consentiva di avere libero accesso alle prove e al modo in cui Strehler montava uno spettacolo».
Hai un ricordo particolare?
«Fu molto emozionante assistere alla preparazione di
Vita di Galileo di Brecht. Era il 1963, sia io che Veca eravamo già all’università».
Frequentavate Strehler?
«Più spesso Paolo Grassi, che aveva il ruolo del grande organizzatore. Vedendoci sempre insieme, ci chiese se eravamo omosessuali».
E tu?
«Mi misi a ridere, Salvatore un po’ si vergognò. Si mostrava sempre in grande spolvero con le ragazze».
Il sodalizio tra Strehler e Grassi fu importante, ma non mancarono le incomprensioni.
«Sembravano detestarsi, ma si volevano molto bene. Si compensavano».
Tu e Veca?
«Cosa?».
Anche il vostro è stato un bel sodalizio.
«Liceo, università, amicizie. Maestri. Abbiamo condiviso tantissimo. Anche, fino a un certo punto, aut aut ».
Veca abbandonò quasi subito la rivista rifiutando un certo estremismo politico.
«Il Sessantotto aveva reso quasi ovvio il fatto che il pensiero — e quindi anche una rivista di filosofia — abitasse nella concretezza sociale e tentasse di svolgervi una funzione critica: da dentro, non dall’alto. Alla cultura italiana credo che aut aut abbia trasmesso molto, ma soprattutto questo atteggiamento. Paci aveva vissuto il Sessantotto con entusiasmo, come se rappresentasse dentro l’università quello che lui aveva sempre cercato.
Non so perché Salvatore se ne sia andato via. So che io sono rimasto perché mi sembrava, con le mie modeste capacità, di interpretare bene il modo in cui Paci intendeva il compito della filosofia».
Hai studiato a Milano, ma dove sei nato?
«A Novi di Modena. La guerra e i bombardamenti spinsero la mia famiglia più a Nord, dalle parti del lago di Como. Ho pochissimi ricordi di quella fase. Eravamo cinque fratelli, mio padre e mia madre. Una famiglia lontanissima da quelle attuali. Arrivammo a Milano nel 1951. Papà ragioniere, aprì col tempo uno studio di commercialista e questo mi consentì di frequentare le buone scuole della borghesia lombarda».
Lo dici quasi controvoglia.
«Consapevole che in casa non circolavano molti libri.
Sono grato ai miei per quello che mi hanno consentito di realizzare. Oggi si costruiscono futuri radiosi, poveri figli! Allora era decisiva un’impronta etica».
A quale etica ti richiami?
«Niente proclami: un’etica minima».
C’è dunque anche un’etica massima?
«Quella massima di solito è una dottrina morale fatta di regole e precetti. Il “Super-Io” di Freud o la “legge morale” di Kant. Apparati ingombranti. Quella “minima” è un’etica di vita, un modo d’essere quotidiano, libero dagli imperativi. Il che non significa che ciascuno fa quello che vuole. Bensì che ciascuno si assume in proprio la responsabilità dei suoi comportamenti. È quello che è emerso nei cittadini in un contesto difficile come l’attuale pandemia».
Tu come ci convivi?
«Non ha sconvolto la mia vita di privilegiato, anzi ha permesso a me, come ad altri, una pausa di riflessione, un rilassamento dalla smania e dalla frenesia per le cose. È il mio modo filosofico di rapportarmi al mondo circostante. Il che non toglie che la pandemia sollevi enormi problemi nelle case di chiunque».
Davvero la filosofia occupa un posto nelle nostre esistenze?
«Non in tutte, è ovvio. Che sia o meno il suo compito, come esercizio finisce per cambiarti la vita».
Tra le figure che hanno inciso sulla tua vita ci sono Lacan, Foucault e Derrida. Perché sono state importanti?
«Non soltanto loro. Però in modi diversi hanno smascherato alcune comode verità, proponendo percorsi di pensiero che possiamo prendere o lasciare, ma non ignorare. Li vedo come dei benefattori del pensiero critico. Ci aprono la testa, anche se non voglio farne dei modelli filosofici».
Un paio di scrittori italiani — direi quasi agli antipodi tra loro — tornano spesso nella tua riflessione. Mi riferisco a Pasolini e Calvino.
«Ho ereditato da Paci l’idea che letteratura e pensiero si rinforzano a vicenda. Di mio ho aggiunto l’importanza della scrittura. Oltre a Calvino e Pasolini c’è Coetzee, ma anche altri esempi di figure letterarie alle quali aut aut ha dedicato attenzione, come Thomas Benhard. Di Calvino ho valorizzato Palomar e le Lezioni americane, quali esempi di etica della scrittura. Di Pasolini mi sono rimaste
soprattutto le pagine degli Scritti corsari che mi hanno trasmesso il piacere dell’intervento breve».
Definisci “etica della scrittura”.
«Una scrittura che produce pensiero perché non è mai fine a se stessa e non è mai scollegata dal modo di comportarsi. Bisogna mordersi tre volte la lingua prima di parlare, dice il signor Palomar».
Tutto questo richiama una parola alla quale tu dai importanza: “pudore”.
«Viviamo in una società spudorata, esibizionista, per molti aspetti volgare e chiassosa. “Pudore” significa per me fare un passo a lato, vuol dire provare a esercitare il silenzio, riattivare quell’ascolto che non riusciamo più a praticare. Il pudore si contrappone all’egocentrismo».
È un modo di abitare la distanza? Cito il titolo di un tuo libro.
«In effetti la “distanza” non va intesa come alterigia o esclusione ma come cura di sé e degli altri».
Ma cosa significa “abitare la distanza”?
«Dando un’occhiata a quello che accade oggi, il libro che scrissi e al quale alludi mi pare di una certa attualità e forse perfino utile. Di solito noi “sorvoliamo” con il pensiero la realtà; “abitare” le cose significa invece tentare di starci dentro con una certa distanza, ossia senza una rischiosa identificazione».
Detto altrimenti è il senso della misura?
«Non lasciarsi travolgere da ciò che ci è prossimo. E d’altro canto non provare a ignorarlo. Abitare noi stessi. Imparare a conoscere la nostra parte straniera. Non sapere chi siamo ci trattiene dall’idea di ritenerci gli unici a sapere come vanno le cose del mondo».
Un’altra parola sulla quale torni spesso è “gioco”. Si può giocare con la filosofia?
«“Gioco” non è qualcosa di ovvio, come ci ha insegnato Roger Caillois. È un’esperienza complessa, divertente ma anche denudante. Considerata vitale per una parte della filosofia. Il problema è che molti bambini oggi stanno disimparando questa esperienza. Figuriamoci gli adulti».
Giocano in maniera sbagliata?
«Nel mentre giocano sono giocati».
Questo rovesciamento porta a una figura letterariamente affascinante, il giocatore d’azzardo. Chi è?
«È uno che spesso rischia di perdere di vista tanto il gioco quanto l’azzardo. Pascal ci ha insegnato che la scommessa ha a che fare con il senso della nostra vita».
Scommettere è come mettersi in mano alla probabilità e al caso. Tu cosa preferisci?
«Probabilità e caso si muovono di concerto. Tenni all’università un intero corso dedicato al gioco e in quell’occasione organizzai con gli studenti una visita a un Casinò perché si rendessero conto di ciò che vi accadeva e lo confrontassero con l’importanza dell’esperienza dell’azzardo».
In un Casinò girano soldi, non idee. Curiosa scelta del luogo.
«Perché? Dopotutto il Casinò è uno dei banchi di prova dove si può imparare a nostro vantaggio l’esperienza della perdita».
Cosa intendi con esperienza della perdita?
«Tentare di rovesciare l’idea che una società si fondi esclusivamente sulla competizione e l’agonismo. Fin da bambini ci insegnano che occorre vincere, primeggiare, sbaragliare gli avversari. Ma a quel punto se perdi non hai più difese. Rientri nella categoria dei falliti. L’esperienza della perdita è un modo per rovesciare questa situazione, terribile per chi la vive».
Alla perdita non si sottrae chi vive la propria vecchiaia. Come ti rapporti ai tuoi quasi ottant’anni?
«Tenderei a dare a quel “quasi” una lunga durata. Mi sento giovane, fin troppo. Ho perfino allestito, dopo essere andato in pensione, una scuola filosofica a Trieste».
Ne sentivi il bisogno?
«Sono uscito un po’ scontento dall’università. Mi piace molto insegnare e questa piccola scuola, che ho messo in piedi con i miei collaboratori, mi dà modo di diffondere un poco quella filosofia, con la effe molto minuscola, intrecciata alla vita che ho sempre avuto in mente. Qui a Trieste, dove sono arrivato nel 1978, mi sono sempre sentito libero e lontano da ogni bega intellettuale».
È essere su un confine che ti affascina?
«Diciamo che il cosiddetto “confine” ti offre qualche opportunità in più».
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