domenica 25 ottobre 2020

Revelli: Umano, inumano, postumano

Dal Lager alla tragedia dei migranti così il Disumano è entrato nell'Umano
Nel nuovo libro di Marco Revelli la frattura che si è consumata nel '900 e pone una sfida al presente

Marco Revelli la Stampa 20 10 2020
È stato sufficiente che un'entità biologica non-umana – un virus – entrasse nello spazio cellulare dell'uomo e vi si insediasse, perché l'intera sovrastruttura che costituisce l'architrave del nostro umanesimo si rovesciasse, imponendo le regole impietose (e fredde) dell'immunitas su quelle amichevoli (e calde) della communitas. Così avviene per il «valore di legame», rovesciatosi ora in dis-valore, nel momento in cui la prossimità da segno di benevolenza (di philantropia ovvero amore per l'uomo) diventa minaccia (misantropia), e la distanza tra individui della stessa specie si afferma come dovere civico. Così pure per il principio di eguaglianza, fiore all'occhiello della modernità, travolto nel momento in cui all'uomo aequalis delle leggi umane subentra l'homo hyerarchicus del codice genetico della natura (soprattutto nelle fasi più drammatiche della pandemia, quando si fu costretti a selezionare l'accesso alle terapie intensive), e l'humanum genus si spacca e divide in base a classi d'età, stato di salute, speranza di vita ovvero tra giovani e vecchi, forti e deboli, sani e malati.
Cristianesimo, Rinascimento, Illuminismo, pur nelle loro differenze, condividevano in fondo la stessa doppia certezza: che nell'humanitas intesa come philantropia cioè «comunanza consapevole» consistesse l'essenza dell'uomo, rispetto alla quale l'inumano si poneva come antitesi esterna, come una sorta di «fuori dell'uomo». E nello stesso tempo che l'humanitas fosse il contenuto e l'esito di ogni autentica acculturazione. Che fosse cioè, per dirla con Werner Jaeger, il risultato di ogni Paideia ben riuscita, intesa come educazione dell'uomo alla sua vera forma.
Ebbene, questa credenza si è infranta meno di un secolo fa.

Basti la citazione di un breve testo. D'autore. Dice: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Sono parole di George Steiner ed evocano il vero punto di rottura tra il prima e il (nostro) dopo: Auschwitz. Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l'irruzione massificata del disumano nell'umano (irruzione nel pensiero, non solo nella storia, dove non sarebbe un novum). Il disumano teorizzato e programmato razionalmente (mediante quella stessa ratio che nella visione classica avrebbe dovuto fondare la philantropia).
Con Auschwitz – per questo lo assimiliamo al male assoluto - non solo il disumano si afferma come protagonista esclusivo ma viene a occupare il nucleo centrale dell'umano. S'installa in esso come sua autentica essenza: come mostruosa metamorfosi dell'Humanitas (a Elie Wiesel che si chiedeva «Ad Auschwitz dov'era Dio?» Primo Levi replicava domandando dov'era l'uomo). E nello stesso tempo si presenta non come separato ma interno al processo di acculturazione che dell'Humanitas costituisce l'aspetto non formale. Ad Auschwitz, è ancora Steiner a ricordarcelo, la barbarie prevalse sul terreno stesso dell'umanesimo cristiano, della cultura rinascimentale e del razionalismo classico, dunque non come negazione antitetica ed estrinseca di esso, ma come torsione (e variante) interna al suo sviluppo.
Mostrando, nella forma più feroce, quanto l'uomo ha osato fare all'Uomo, come scrisse Primo Levi, Auschwitz infrange irrimediabilmente la linea che separa umano e disumano: rivela quanto e come il dis-umano sia in senso proprio, letterale, «in-umano», cioè in-scritto nell'umano, parte di esso, espressione della medesima radice.
L'inumano - è stato a ragione affermato da Carlo Galli - non è baudelairianamente il male di vivere («Un'oasi d'orrore in un deserto di noia»). E neppure la leopardiana estraneità della natura all'umano (il nostro esser Nulla per la Natura). «L'inumano è piuttosto il presentarsi attuale della possibilità che l'uomo sia nulla per l'altro uomo, ossia che l'uomo consideri nulla l'altro uomo». Esso costituisce la confutazione pratica e mentale del postulato secondo cui tutti gli uomini partecipino dell'umanità: una caduta dello sguardo (l'incapacità di vedere sé nell'altro). Dell'udito (l'incapacità di ascoltare la parola dell'altro, il suo «racconto»). Del pensiero (che l'altro uomo sia pensabile come pensante, Soggetto e non solo Oggetto). L'inumano è il Nulla che s'insedia nel luogo e in luogo dell'Humanitas: è la rottura irreparabile del meccanismo del riconoscimento all'interno del genere umano giunta a costituire la cifra stessa del tempo presente in quanto tempo estremo del nichilismo compiuto.
Ma se questo è vero la Dis-humanitas come In-humanitas è diventata oggi a tutti gli effetti la trama intima della nostra attualità. Il nostro modo di essere uomini in un universo di non-uomini.
Che cos'altro ci mostra lo spettacolo atroce, protratto per anni, della morte di massa dei migranti nei nostri mari osservato prima con pena poi sempre più con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio, se non l'immagine di questa riduzione dell'uomo a nulla per l'altro uomo? E la vicenda avara dell'accoglienza, prima subìta a denti stretti, poi via via rifiutata, negata, osteggiata, in tutto il continente europeo mobilitato per ri-confinare, contrastare, ridurre e possibilmente estinguere i flussi anche se dietro quella estinzione c'è – lo sappiamo ma ci rifiutiamo di pensarlo – la morte seriale? Che cos'è se non la riproposizione in qualche modo omeopatica del medesimo paradigma della de-umanizzazione dell'Altro sperimentato allora sulla scala abnorme dell'eccezionalità e fattosi ora quotidianità, anche se in forma meno sconvolgente perché non guidato da un'esplicita ideologia del disumano e da una dichiarata intenzionalità della distruzione? —
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