domenica 19 ottobre 2014

Sette lezioni di fisica di Carlo Rovelli

Risultati immagini per rovelli lezioni fisicaCarlo Rovelli: Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi

Risvolto

Ci sono frontiere della conoscenza dove brucia il nostro desiderio di sapere: sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nella destinazione dei buchi neri. Qui, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, bellezza e mistero ci lasciano senza fiato. Queste ‘lezioni’ delineano una rapida panoramica della rivoluzione avvenuta nella fisica del XX secolo e della ricerca in corso, discorrendo, con ammirevole trasparenza, della teoria della relatività generale di Einstein, della meccanica quantistica, dell’architettura del cosmo, delle particelle elementari, della gravità quantistica, della probabilità e del calore dei buchi neri, della natura del tempo e di altro ancora.

Raccontare la fisica Alle frontiere dell'ignoto
«Sette brevi lezioni di fisica», un viaggio appassionante in ciò che conosciamo: con uno sguardo aperto all'immenso oceano di ciò che non sappiamo
di Carlo Rovelli Il Sole Domenica 19.10.14Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos'altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell'alba, che cerca fra la polvere della savana le tracce di un'antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. 
Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo. Questo è la scienza. 

La confusione fra queste due diverse attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è l'origine dell'incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l'antilope cacciata all'alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l'antilope possiamo mangiare. Il nostro sapere riflette il mondo. Lo fa più o meno bene, ma rispecchia il mondo che abitiamo. 
L'immagine scientifica del mondo non è in contraddizione con il nostro sentire noi stessi. Non è in contraddizione con il nostro pensare in termini morali, psicologici, con le nostre emozioni e il nostro sentire. Il mondo è complesso, noi lo catturiamo con linguaggi diversi, appropriati per i diversi processi che lo compongono. Ogni processo complesso può essere affrontato e compreso con linguaggi diversi a livelli diversi. I diversi linguaggi si intersecano, si intrecciano e si arricchiscono l'un l'altro, come i processi stessi. Lo studio della nostra psicologia si raffina comprendendo la biochimica del nostro cervello. Lo studio della fisica teorica si nutre della passione e delle emozioni che portano la nostra vita. I nostri valori morali, le nostre emozioni, i nostri amori, non sono meno veri per il fatto di essere parte della natura, di essere condivisi con il mondo animale o per essere cresciuti ed essere stati determinati dai milioni di anni dell'evoluzione della nostra specie. Anzi, sono più veri per questo: sono reali. Sono la complessa realtà di cui siamo fatti. La nostra realtà è il pianto e il riso, la gratitudine e l'altruismo, la fedeltà e i tradimenti, il passato che ci perseguita e la serenità. La nostra realtà è costituita dalle nostre società, dall'emozione della musica, dalle ricche reti intrecciate del nostro comune sapere, che abbiamo costruito insieme. Tutto questo è parte di quella stessa natura che descriviamo. Della natura siamo parte integrante, siamo natura, in una delle sue innumerevoli e svariatissime espressioni. 
Questo ci insegna la nostra conoscenza crescente delle cose del mondo. Quanto è specificamente umano non rappresenta la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura. È una forma che la natura ha preso qui sul nostro pianeta, nel gioco infinito delle sue combinazioni, dell'influenzarsi e scambiarsi correlazioni e informazione fra le sue parti. Chissà quante e quali altre straordinarie complessità, in forme forse addirittura impossibili a immaginare per noi, esistono negli sterminati spazi del cosmo... C'è così tanto spazio lassù, è puerile pensare che in quest'angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale. La vita sulla Terra non è che un assaggio di cosa può succedere nell'universo. La nostra anima non ne è che un altro. 
Noi siamo una specie curiosa, l'unica rimasta di un gruppo di specie (il «genere Homo») formato da almeno una dozzina di specie curiose. Le altre specie del gruppo si sono già estinte; alcune, come i Neanderthal, poco fa: neppure trentamila anni or sono. È un gruppo di specie evolutesi in Africa, affine agli scimpanzé gerarchici e litigiosi, ma ancor più ai bonobo, i piccoli scimpanzé pacifici, allegramente promiscui ed egualitari. Un gruppo di specie ripetutamente uscito dall'Africa per esplorare mondi nuovi e arrivato lontano, fino in Patagonia, fino sulla Luna. Non siamo curiosi contro natura: siamo curiosi per natura. 
Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, «Il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile». Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi fra due mondi, parti solo in parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d'altro. No: siamo a casa.
La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra naturale curiosità ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo. Lucrezio, lo dice con parole meravigliose: «... siamo tutti nati dal seme celeste; tutti abbiamo lo stesso padre, /da cui la terra, la madre che ci alimenta, riceve limpide gocce di pioggia, / e quindi produce il luminoso frumento, e gli alberi rigogliosi, / e la razza umana, e le stirpi delle fiere,/ offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi, per condurre una vita dolce / e generare la prole...». Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo ad imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. 
Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero.
Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.

«Il tempo non esiste»
«Deluso dal fallimento del ‘68 ho trovato la libertà nella fisica»di Carlo Rovelli Corriere 22.10.14
«Il tempo non esiste». Carlo Rovelli stupisce prima di tutto con questa affermazione che non lascia spazio ad alternative. O meglio toglie il fiato perché ci chiediamo allora che significato abbia l’ansia quotidiana che ci prende guardando l’orologio perché qualcosa ci sfugge. «In realtà — precisa — esistono tanti tempi diversi, ognuno per ogni cosa, per ogni fenomeno. Ma tutti differenti e riferiti a qualcosa di specifico e non col valore assoluto che siamo inclini ad attribuirgli».
Il tempo e lo spazio sono i due temi sui quali lavora Carlo Rovelli, fisico teorico di origini veronesi, professore all’Université de la Mediterranée di Marsiglia, e di cui parlerà al Festival della scienza di Genova.
La frontiera della fisica è divisa su due strade. Da una parte abbiamo la teoria della relatività di Albert Einstein dove ci sono il tempo e lo spazio e la comprensione dell’universo, buchi neri inclusi; dall’altra la meccanica quantistica che decifra il comportamento della materia, della radiazione a livello atomico e subatomico. Questo secondo mondo si ritrova in numerose applicazioni: dal Laser ai computer. Due spiegazioni che restano finora confinate alle rispettive dimensioni, cosmica e materiale, ma che da decenni si cerca di unire in una visione capace di conciliarle, perché unica è la realtà. Il primo a credere che ciò fosse possibile era stato lo stesso Einstein che si era impegnato nel sogno di una «teoria del tutto» in grado di unificare le idee. La leggenda vuole che quando si spense all’ospedale di Princeton, sul comodino avesse addirittura gli ultimi appunti sull’argomento a cui aveva dedicato decenni senza approdare ad alcun risultato. Ma l’appassionante ricerca continuò e trovò nella nascita della Teoria delle stringhe i successori di quel sogno. Ancora una volta, tuttavia, senza risultato, nonostante la sua esplorazione partisse dal 1968 dopo un articolo del fisico Gabriele Veneziano, allora al Cern di Ginevra.
In parallelo, un altro gruppo di fisici avviò indagini teoriche su un altro obiettivo meno totalizzante ma più concreto pur diretto ad unificare i due fronti. Nasceva così la gravità quantistica della quale Rovelli è un illustre protagonista. «Cerchiamo di spiegare innanzitutto che cosa siano lo spazio e il tempo affrontando idee che sono in alcuni casi verificabili. Invece le stringhe, belle nell’immaginazione, sembrano frutto di un eccesso e anche alcune risposte che si attendevano dal superacceleratore Lhc di Ginevra non sono ancora arrivate. Ma noi proseguiamo su una strada alternativa».
La sfida è aperta e i discorsi sul tempo che già animavano i pensieri di Sant’Agostino («Se non mi chiedono che cosa sia lo so, altrimenti no») si dipanano tra formule e teorie. «Il tempo che viviamo come la nostra casa è utile per descrivere fenomeni nella scala quotidiana, ma non vale per tutto l’universo», dice Rovelli. E aggiunge, per provocare: «Il tempo non è fondamentale nell’universo e si può immaginare un mondo senza tempo».
Concetti ardui, che lo scienziato ama affrontare in numerosi libri (dopo l’ultimo «La realtà non è come ci appare», pubblicato da Cortina, in questi giorni è in libreria «Sette brevi lezioni di fisica», con Adelphi) raccontando anche la sua storia di scienziato. «Alla fisica sono approdato per caso — racconta lo scienziato che ama la filosofia —. Dopo aver vissuto il fallimento della contestazione studentesca, ho trovato nella fisica e nei pensieri di Einstein il luogo della libertà che cercavo. La scienza ti porta sempre oltre nella vita; nella scienza le rivoluzioni si fanno davvero». Un giorno ricevette una telefona dall’Università americana di Pittsburg. Era un invito alla scuola di relatività generale. «Non avevo molta voglia di andarmene, ma accettai e ci rimasi dieci anni sempre con l’idea di tornare in Europa. Avevo intanto vinto un concorso all’Università di Roma, ma preferii la proposta di Marsiglia, dove era attivo un importante centro sulla relatività».
L’Italia rimane lontana. «Come per tanti scienziati stranieri — nota con un guizzo critico — che amerebbero venirci, ma sono scoraggiati dalle condizioni che troverebbero».


Che passione hanno i fisici per la relatività
Nel suo ultimo saggio Carlo Rovelli spiega come la scienza sia sempre seducente: anche i buchi neri Affrontando temi come le particelle elementari si prova la stessa meraviglia che ci sorprende davanti a un’opera d’artedi Massimiano Bucchi Repubblica 1.11.14
L’ABILITÀ di artigiano nel lavorare le lenti e la competenza manuale che aveva sviluppato nel disegno e in particolare nella tecnica del chiaroscuro furono decisive nel permettere a Galileo di mettere a frutto le proprie osservazioni astronomiche. Anni di disegni tecnici e lavori manuali fecero riflettere profondamente il giovane Paul Dirac sulle forme geometriche; un’esperienza rilevante per il suo successivo lavoro di fisico, capace di concepire teorie «come statue di marmo squisitamente scolpite». Sono esempi di come la scienza si sia storicamente sviluppata in profondo rapporto con la cultura e immersa nel dialogo tra i saperi. Oggi purtroppo il discorso sulla cosiddetta “cultura scientifica” è spesso prigioniero di una retorica lamentosa che enfatizza lo stereotipo (peraltro mai “scientificamente” dimostrato) di un pubblico ottuso e di una società ostile. Una retorica che paradossalmente e artificiosamente rischia di rinforzare, anziché superare, la divisione tra culture e saperi.
Gli scritti del fisico Carlo Rovelli costituiscono una felice eccezione. In queste Sette brevi lezioni di fisica ( titolo che pare rievocare il celebre Sei pezzi facili del fisico americano Richard Feynman), sviluppando alcuni articoli pubblicati sul supplemento domenicale del Sole 2-4 Ore, Rovelli parla di relatività, meccanica quantistica, probabilità, cosmo, particelle elementari, gravità quantistica, buchi neri. Temi complessi affrontati con chiarezza e soprattutto senza alcuna supponenza verso il lettore. In questi brevi e densi saggi traspare la passione dello scienziato, il suo stupore per la grandezza di queste conquiste e la sua onestà nell’ammetterne i limiti, «quanto vasto sia ciò che ancora non sappiamo». Le pagine più godibili sono forse quelle in cui l’autore ricorda il suo personale incontro con la «Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein», avvenuto leggendo «un libro rosicchiato dai topi» su una spiaggia della Calabria. Di quell’incontro Rovelli riesce bene a rievocare la propria meraviglia. La stessa che si prova di fronte ad un’opera d’arte o ad un panorama spettacolare; paragoni che spesso ricorrono in queste lezioni. «Il calore dei buchi neri è una stele di Rosetta» scrive Rovelli «scritta a cavallo di tre lingue — Quanti, Gravità e Termodinamica — che attende di essere decifrata, per dirci cosa sia davvero lo scorrere del tempo». E poco importa che il termine quark non venga, come qui si legge, dall’ Ulisse di James Joyce, ma da un’altra opera dello scrittore irlandese, Finnegans Wake . Capita ai fisici, di sbagliare, così come agli scrittori e ai musicisti. Questo libro di Rovelli testimonia che la sfida odierna non consiste nell’iniettare più o meno forzosamente nel pubblico dosi di “cultura scientifica” a colpi di festival e manifesti, ma nel contribuire a riconoscere la scienza come parte integrante della cultura. Per questo non ci si stanca mai di leggere l’ennesima spiegazione della relatività generale (soprattutto se appassionante come quella di Rovelli), così come non ci si stanca mai di ascoltare Le Nozze di Figaro di Mozart o di guardare l’ Ultima Cena di Leonardo.

Carlo Rovelli, in vetta alla classifica dei libri
“Che sorpresa la mia fisica è un bestseller”
intervista di Marco Cattaneo Repubblica 12.2.15
AI VERTICI delle classifiche dei libri più venduti ci sono Umberto Eco, un premio Nobel come Dario Fo e un bestseller annunciato come Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma sul podio c’è anche, in forte ascesa — come confermato sia dai dati della grande distribuzione che dalla società di rilevazione Eurisko — Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, fisico teorico italiano e professore all’Università di Aix-Marsiglia. Alla fine di gennaio, al Festival della scienza di Roma, la fila per avere un suo autografo era chilometrica, ma nessuno avrebbe scommesso che il suo libro sugli enigmi della fisica scalasse fino a questo punto le classifiche di un paese di cui si lamenta di continuo la scarsa alfabetizzazione scientifica.
«Forse è proprio perché in Italia sappiamo poco di scienza, che viene più voglia di leggere un libro che parla della scienza», ipotizza Rovelli.
A che pubblico voleva arrivare?
«Non pensavo certo di scrivere un bestseller. Pensavo avrei avuto i miei venticinque lettori. Sono stato incerto se scriverlo pensando a un lettore già appassionato di fisica, un liceale o un giovane universitario, oppure a un lettore curioso, ma con tutt’altro per la testa. Ho scelto il secondo tipo, perché il primo lo sa già che la fisica è bella e fa sognare, non c’era bisogno che stessi a raccontaglielo io».
Pensa che l’interesse che ruota intorno ai Festival della scienza, di cui è spesso protagonista, possa essere anche uno degli ingredienti del successo in libreria?
«Penso che le due cose abbiano la stessa causa: la curiosità per una scienza piena di fascino. Penso, forse spero, che la gente sia un po’ stufa di sentir parlare male della scienza».
Già, c’è anche il lato oscuro. A fronte del grande interesse per la scienza c’è una buona quota di società che non si fida. Dagli ogm in agricoltura ai vaccini.
«La diffidenza nella scienza, ancora molto radicata in Italia, è farsi male da soli. C’è chi sta peggio di noi: in queste settimane in Africa medici che cercano di prendersi cura dei malati di Ebola sono aggrediti dalla popolazione che, appunto, “non si fida”. Non siamo esseri ragionevoli. Per secoli in Europa per curare i malati si facevano i salassi, fiduciosi nella tradizione: e tuttora in Europa moltissimi si curano con cure altrettanto inefficaci. La scienza ha limiti, fa errori, non risolve tutti i problemi. Ma resta lo strumento più affilato che abbiamo per capire come succedono le cose, dove sbagliamo e come non sbagliare ulteriormente ».
Ma parliamo di Sette brevi lezioni. Perché suscita un interesse tanto vasto?
«Di quanto il mondo reale sia diverso dall’immagine quotidiana che ne abbiamo dal nostro cantuccio: lo spazio e il tempo che si incurvano, il fluttuare quantistico della materia, l’immensità del cosmo, la sua evoluzione, la trama con cui sono intessuti tempo e spazio... Ma soprattutto la bellezza e lo stupore che suscita quel mondo al di là di questo cantuccio. Che è strano, all’inizio poso co familiare, ma a suo modo semplice, incantevole. E poi c’è un capitolo finale, la settima lezione, in cui parlo di noi: cosa siamo noi esseri umani, in questo caleidoscopio che è il mondo fisico».
Cosa trovo nel suo libro che non c’è in altri sullo stesso tema?
«Penso che persone diverse ne hanno apprezzato aspetti diversi. Se in Italia tante persone lo hanno comprato e letto, è perché qualcosa di quello che volevo comunicare è stato trasmesso. È questo che in questo momento mi fa felice, e un po’, se posso permettermi, mi commuove. È un libro che ho scritto con amore, cercando di metterci molto di quello che sono, del modo in cui percepisco e comprendo le cose, le domande che mi pongo, i tentativi di cercare risposte. Non è un libro che parla anonimo da dentro una disciplina scientifica stabilita. È un messaggio dal fronte, di uno scienziato che sta provando a capire, e prova a offrire, a chi voglia ascoltare, i suoi sforzi per comprendere».
Certo non possiamo aspettarci che l’Italia diventi all’improvviso il paradiso dei paladini della scienza. Che cosa ci serve per fare un pas- avanti nella società della conoscenza?
«Ben altro che un piccolo libro che parla di scienza. La cultura italiana non è povera: è ricca, intensa, e in movimento. È carente dal lato del pensiero critico, della razionalità, della scienza. I valori fondanti dell’Illuminismo fanno fatica ad affermarsi in Italia perché ci sono grandi forze che si oppongono. Ma spero stiamo evolvendo nella direzione migliore».
Che cosa potrebbe suggerire il successo del suo libro a chi racconta la scienza?
«Forse di non raccontare solo quello che abbiamo capito del mondo, ma soprattutto quello che ancora non abbiamo capito, quello che stiamo cercando. E di essere chiari nel distinguere la conoscenza acquisita dai voli di fantasia per cercare di comprendere. Entrambe le cose sono affascinanti, ma alla gente non piace sentirsi dare per certe quelle che sono solo ipotesi. Raccontare l’incertezza è raccontare la verità della scienza».
E a un mondo, quello della politica, che sembra esserne completamente estraneo?
«La politica e — mi perdoni Repubblica — la stampa hanno dato ripetutamente prova della poca cultura scientifica in Italia, ad esempio nel brutto caso delle staminali. Ma non sempre: la nomina da parte di Napolitano di scienziati come senatori a vita mi sembra il marchio di un paese molto civile».
E lei personalmente come vive il successo?
«Il mio mestiere, la mia passione, non è scrivere libri, è studiare fisica. Ma prima mi sentivo più solo, anche nelle mie idee. Le reazioni di vicinanza e l’affetto che ho ricevuto mi hanno stupito e riempito di felicità».

«Sette brevi lezioni di fisica» rendono la scienza un romanzo da hit parade21 feb 2015 Libero GIUSEPPE LISCIANI
Uscito a fine 2014, l'agile volume di Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica ( Adelphi, 10 euro) ha ingranato il rapporto del ciclista che scala il Tourmalet e, passo dopo passo, è ora in cima alla classifica dei libri più venduti.
Assieme all'ultimo romanzo di Um berto Eco. E sapete bene che non è ordinaria amministrazione se un libro di fisica e di epistemologia vende come un libro di narrativa. Rovelli, professore di fisica teorica presso l'Università di Aix-Marseille, ha davvero compiuto un piccolo grande miracolo. Ha spiegato, con molta semplicità e in meno di cento pagine, un sacco di cose: come funziona la ricerca scientifica (soprattutto la fisica); come fanno due teorie rivali (la relatività generale e la meccanica quantistica) a convivere descrivendo il mondo e ad essere entrambe attendibili; com'è che lo spazio e il tempo non esistono; come si com portano le particelle elementari; cosa sono i "buchi neri"; quale è, infine, la posizione dell'uomo nel nostro universo.
La prima lezione porta, come titolo, La più bella delle teorie, cioè le parole con cui lo scienziato russo Lev Landau ha definito la relatività generale di Einstein. Secondo questa teoria, lo spazio altro non è che il campo gravitazionale ed è «una delle componenti materiali" del mondo. Un'entità che ondula, si flette, s'incurva, si storce». La Terra gira intorno al Sole non per una forza misteriosa che la attira ma perché corre «diritta in uno spazio che si inclina». A causa dello spazio curvo, anche il percorso della luce traccia linee curve; e anche il tempo si incurva e perciò passa più lentamente in basso, vicino alla Terra, e più velocemente in alto: «Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui». Non abbiamo qui capienza per raccontare le altre lezioni. Ci soffermeremo sull'ultima, in cui Rovelli pone una domanda cruciale: «Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo?».
D'acchito, vien da rispondere, con Rovelli, che «del mondo che vediamo siamo anche parte integrante». Per dirla tutta, «siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie». Tuttavia, la nostra condizione di privilegio ci pone interrogativi complessi. Ad esempio, da che dipende essere coscienti? Il mondo che conosciamo è quello vero? Come lo conosciamo? Che rapporto c'è tra la narrazione che del mondo dà uno scienziato e quella di uno scrittore?
Qui Rovelli mette in campo una sorta di ecumene episte m o lo g ic a , in cui da ogni percorso di ricerca può arrivare legittima conoscenza: come ha sostenuto, verso la fine del secolo scorso, Paul K. Feyerabend. E si dichiara certo, Rovelli, che «quello che impariamo a conoscere, anche se lentamente e a tentoni, è il mondo reale di cui siamo parte». L'autore, così, smentisce un po’ l'atteggiamento, positivo ma problematico, assunto nelle precedenti lezioni: ci saremmo attesi, da lui, un bagno di prudenza nelle idee di Hume. In compenso, verso la conclusione, il libro di Rovelli recupera il tema della incomunicabilità tra la cultura scientifica e la cultura umanistica: anche ad un livello più alto rispetto alla polemica aperta nel 1959 dalla pubblicazione del libro di Charles P. Snow, Le due culture (ripubblicato nel 2005 senza esiti significativi). Questa la pietra che Rovelli getta nello stagno: «La confusione tra inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è origine dell' incomprensione e della diffidenza per la scienza». Chi ha orecchie per intendere intenda. E intervenga, se vuole.      
Ci vuole un fisico bestiale per vincere la sfida in libreria
Il libro di Carlo Rovelli ha venduto 160mila copie ed è da settimane in cima alle classifiche
È solo merito dell’autore o abbiamo cominciato a interessarci alla scienza?
di Elisabetta Ambrosi il Fatto 1.4.15
Anche in casa Adelphi gli animi sono ancora increduli: 160.000 (e il numero è in crescita costante) sono le copie che ha finora venduto il libro di Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, ormai stabilmente in classifica da settimane: ottanta pagine che raccontano in maniera limpida, affascinante e concisa la Teoria della relatività generale di Einstein, la meccanica quantistica, l’architettura dell’universo, le particelle elementari, la gravità quantistica, i buchi neri, infine il modo in cui noi possiamo pensarci nel mondo descritto dalla fisica. “Non nascondo che vedere il libro di Rovelli un po’ sopra Stephen King e un po’ sotto le Cinquanta sfumature fa una certa impressione”, racconta Matteo Codignola di Adelphi, ricordando l’analoga fortuna editoriale del saggio Sei pezzi facili del fisico Richard Feynman.
“QUELLO di Rovelli è un libro emozionante e divertente che comunica a chi legge la sensazione che chiunque può avvicinarsi al mondo della scienza, in genere considerato impervio. Ma il successo di un libro è sempre imprevedibile, anche se va detto che l’Italia è un mercato particolare, dove libri importanti – penso a un autore come Thomas Bernhard – si vendono più che nel paese di origine”. “Una rondine non fa primavera, ma già il fatto che ci poniamo la domanda sul perché questo libro sta avendo tanto successo dovrebbe farci riflettere”, spiega Massimo Bucciantini, storico della scienza all’Università di Siena, autore di libri su Galileo e Keplero e di recente di un saggio sulla storia della statua di Giordano Bruno (Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi). Lui un’idea chiara delle ragioni di questo piccolo exploit editoriale se l’è fatta e ci aiuta a capire di più. “In primo luogo si tratta di un’operazione editoriale intelligente, a partire dal titolo e in particolare dall’aggettivo ‘brevi’, che fa capire che si tratta di un libro per chi la scienza non la conosce per nulla o quasi. In questo modo il lettore digiuno di fisica viene messo a proprio agio. Il secondo motivo è che a differenza di tanti intellettuali aristocratici l’autore si mette in gioco con un’operazione intelligente di divulgazione. Ben vengano libri così, che spiegano con chiarezza e intelligenza concetti non così semplici. Vorrei ricordare che sono molti i Nobel che una volta smessa la ricerca si dedicano, appunto, alla diffusione e divulgazione scientifica. Il terzo motivo per cui questo libro è importante, e vende, è che declina la scienza non separandola dalla cultura: da noi ancora vige l’idea che la scienza sia solo calcolo, misurazione”.
Ma non basta: ci sono poi anche ulteriori motivazioni che spiegano i motivi del successo di questo piccolo saggio. “È un libro di segno inverso rispetto alla retorica avvocatesca e tribunalizia di questo paese che pervade anche i programmi scolastici e anzi mi piacerebbe leggere un analogo di economia e politica”, continua Bucciantini. “L’altro aspetto vincente del saggio è che in un momento caotico mette in ordine le idee seguendo la chiave della semplicità, e forse un altro motivo per cui si vende è che c’è un grande bisogno di idee chiare e distinte. Infine, è un libro che non ha nessun finalismo, sostiene che la scienza e la fede debbano restare separate e anzi il finale è all’insegna di Lucrezio”.
MOLTO PIÙ scettico, casi editoriali a parte, sulla fortuna della scienza e della divulgazione scientifica nel nostro paese è il pedagogista Benedetto Vertecchi, che pure ha apprezzato il libro di Rovelli. “Non credo che il fatto che un libro abbia successo consenta di fare inferenze sull’impatto che ha davvero nella cultura della popolazione. 160 mila copie sono tante, ma se facciamo un confronto, ad esempio, con il numero di persone che leggono gli oroscopi è facile capire che la cultura scientifica sta messa proprio male. Insomma, va benissimo che ci siano libri che aprano la prospettiva, ma quella occidentale sta diventando una cultura antiscientifica perché si accontenta di pseudoscienza che non richiede alcun pensiero o dimostrazione.
Pensiamo alle infinite medicine alternative che non dimostrano nulla o alle infinite ricette di migliorismo sociale cui non corrisponde alcuna analisi storica: insomma sembra interessare di più il magico che non la capacità di argomentazione e la conoscenza per cause di aristotelica memoria. Altrimenti non ci chiederemmo perché, se andiamo nelle università, troviamo uno studente di fisica per decine di studenti di facoltà di musica o spettacolo”.



Il talento e la curiosità di Einstein
di Giorgio Dall’Arti Il Sole 29.4.15

Notizie tratte da: Carlo Rovelli, «Sette brevi lezioni di fisica», Adelphi, Milano, pagg. 88,
€ 10,00.

Materia «Per adesso, ecco quello che sappiamo della materia. Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano assieme all'infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l'immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».
Paradosso Rimane un paradosso al centro della nostra conoscenza del mondo fisico. Il Novecento ci ha lasciato due teorie fondamentali: la relatività generale e la meccanica quantistica. Due teorie che non possono essere entrambe giuste, perché si contraddicono l’un l'altra: per la prima il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo; per la seconda, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia.
Rabbino «La Natura si sta comportando con noi come quell'anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltato il primo, il rabbino dice: “Hai ragione”. Il secondo insiste per essere ascoltato, il rabbino lo ascolta, e gli dice: “Hai ragione anche tu”. Allora la moglie del rabbino, che orecchiava da un'altra stanza, urla: “Ma non possono avere ragione entrambi!”. Il rabbino ci pensa, annuisce, e conclude: “Anche tu hai ragione”».
Calore Il calore, come sappiamo, va sempre dalle cose calde verso le cose fredde. Un cucchiaino freddo dentro una tazza di tè caldo diventa caldo anch’esso. Perché? Per caso. Lo ha dimostrato il fisico austriaco Ludwig Boltzmann. È una questione di probabilità. Il motivo è che è statisticamente più probabile che un atomo della sostanza calda, che si muove veloce, sbatta contro un atomo freddo e gli lasci un po’ della sua energia, che non viceversa.
Boltzmann La teoria di Boltzmann non fu presa sul serio da quasi nessuno. Il fisico austriaco si impiccò il 5 settembre 1906 a Duino, vicino a Trieste. Non assistette così al riconoscimento universale della correttezza delle sue idee.
Tempo Che cos'è il tempo? Esiste il «presente»? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l'idea di un presente comune a tutto l'universo sia un'illusione, e lo « scorrere » universale del tempo sia una generalizzazione che non funziona.
Illusione Quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive in una lettera alla sorella: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione».
Effimeri «Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo? Del mondo che vediamo siamo anche parte integrante». Per dirla tutta, «siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie».
Basso Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui.
Einstein «Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso» (Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire). 


Non c’è una formula per fare un best-seller«Einstein, la scoperta più bella». È la prima delle 7 brevi lezioni. È la #bellezzadellafisica, che non ha nulla da invidiare a quella dell’arte, della musica e della letteraturaDa ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.
Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità: Rab - ½ R gab = Tab . Tutto qui.
Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.

1 commento:

enzaccio2008@live.it ha detto...

semplicemente "illuminante"....riesce a rendere partecipi della difficolta' dello studioso a immaginare spazi scenari visioni nuovi....stai li quando dice ....trasmette un entusiasmo positivo e gratificante dello sforzo che si fa per seguire i concetti esposti con chiarezza ma affatto scontati. direi che dovrebbe essere da sprone a altri che vogliano divulgare...si fa cosi!