Risvolto
“Che sorpresa la mia fisica è un bestseller”
intervista di Marco Cattaneo Repubblica 12.2.15
AI VERTICI delle classifiche dei libri più venduti ci sono Umberto Eco, un premio Nobel come Dario Fo e un bestseller annunciato come Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma sul podio c’è anche, in forte ascesa — come confermato sia dai dati della grande distribuzione che dalla società di rilevazione Eurisko — Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, fisico teorico italiano e professore all’Università di Aix-Marsiglia. Alla fine di gennaio, al Festival della scienza di Roma, la fila per avere un suo autografo era chilometrica, ma nessuno avrebbe scommesso che il suo libro sugli enigmi della fisica scalasse fino a questo punto le classifiche di un paese di cui si lamenta di continuo la scarsa alfabetizzazione scientifica.
«Forse è proprio perché in Italia sappiamo poco di scienza, che viene più voglia di leggere un libro che parla della scienza», ipotizza Rovelli.
A che pubblico voleva arrivare?
«Non pensavo certo di scrivere un bestseller. Pensavo avrei avuto i miei venticinque lettori. Sono stato incerto se scriverlo pensando a un lettore già appassionato di fisica, un liceale o un giovane universitario, oppure a un lettore curioso, ma con tutt’altro per la testa. Ho scelto il secondo tipo, perché il primo lo sa già che la fisica è bella e fa sognare, non c’era bisogno che stessi a raccontaglielo io».
Pensa che l’interesse che ruota intorno ai Festival della scienza, di cui è spesso protagonista, possa essere anche uno degli ingredienti del successo in libreria?
«Penso che le due cose abbiano la stessa causa: la curiosità per una scienza piena di fascino. Penso, forse spero, che la gente sia un po’ stufa di sentir parlare male della scienza».
Già, c’è anche il lato oscuro. A fronte del grande interesse per la scienza c’è una buona quota di società che non si fida. Dagli ogm in agricoltura ai vaccini.
«La diffidenza nella scienza, ancora molto radicata in Italia, è farsi male da soli. C’è chi sta peggio di noi: in queste settimane in Africa medici che cercano di prendersi cura dei malati di Ebola sono aggrediti dalla popolazione che, appunto, “non si fida”. Non siamo esseri ragionevoli. Per secoli in Europa per curare i malati si facevano i salassi, fiduciosi nella tradizione: e tuttora in Europa moltissimi si curano con cure altrettanto inefficaci. La scienza ha limiti, fa errori, non risolve tutti i problemi. Ma resta lo strumento più affilato che abbiamo per capire come succedono le cose, dove sbagliamo e come non sbagliare ulteriormente ».
Ma parliamo di Sette brevi lezioni. Perché suscita un interesse tanto vasto?
«Di quanto il mondo reale sia diverso dall’immagine quotidiana che ne abbiamo dal nostro cantuccio: lo spazio e il tempo che si incurvano, il fluttuare quantistico della materia, l’immensità del cosmo, la sua evoluzione, la trama con cui sono intessuti tempo e spazio... Ma soprattutto la bellezza e lo stupore che suscita quel mondo al di là di questo cantuccio. Che è strano, all’inizio poso co familiare, ma a suo modo semplice, incantevole. E poi c’è un capitolo finale, la settima lezione, in cui parlo di noi: cosa siamo noi esseri umani, in questo caleidoscopio che è il mondo fisico».
Cosa trovo nel suo libro che non c’è in altri sullo stesso tema?
«Penso che persone diverse ne hanno apprezzato aspetti diversi. Se in Italia tante persone lo hanno comprato e letto, è perché qualcosa di quello che volevo comunicare è stato trasmesso. È questo che in questo momento mi fa felice, e un po’, se posso permettermi, mi commuove. È un libro che ho scritto con amore, cercando di metterci molto di quello che sono, del modo in cui percepisco e comprendo le cose, le domande che mi pongo, i tentativi di cercare risposte. Non è un libro che parla anonimo da dentro una disciplina scientifica stabilita. È un messaggio dal fronte, di uno scienziato che sta provando a capire, e prova a offrire, a chi voglia ascoltare, i suoi sforzi per comprendere».
Certo non possiamo aspettarci che l’Italia diventi all’improvviso il paradiso dei paladini della scienza. Che cosa ci serve per fare un pas- avanti nella società della conoscenza?
«Ben altro che un piccolo libro che parla di scienza. La cultura italiana non è povera: è ricca, intensa, e in movimento. È carente dal lato del pensiero critico, della razionalità, della scienza. I valori fondanti dell’Illuminismo fanno fatica ad affermarsi in Italia perché ci sono grandi forze che si oppongono. Ma spero stiamo evolvendo nella direzione migliore».
Che cosa potrebbe suggerire il successo del suo libro a chi racconta la scienza?
«Forse di non raccontare solo quello che abbiamo capito del mondo, ma soprattutto quello che ancora non abbiamo capito, quello che stiamo cercando. E di essere chiari nel distinguere la conoscenza acquisita dai voli di fantasia per cercare di comprendere. Entrambe le cose sono affascinanti, ma alla gente non piace sentirsi dare per certe quelle che sono solo ipotesi. Raccontare l’incertezza è raccontare la verità della scienza».
E a un mondo, quello della politica, che sembra esserne completamente estraneo?
«La politica e — mi perdoni Repubblica — la stampa hanno dato ripetutamente prova della poca cultura scientifica in Italia, ad esempio nel brutto caso delle staminali. Ma non sempre: la nomina da parte di Napolitano di scienziati come senatori a vita mi sembra il marchio di un paese molto civile».
E lei personalmente come vive il successo?
«Il mio mestiere, la mia passione, non è scrivere libri, è studiare fisica. Ma prima mi sentivo più solo, anche nelle mie idee. Le reazioni di vicinanza e l’affetto che ho ricevuto mi hanno stupito e riempito di felicità».
«Sette brevi lezioni di fisica» rendono la scienza un romanzo da hit parade21 feb 2015 Libero GIUSEPPE LISCIANI
La prima lezione porta, come titolo, La più bella delle teorie, cioè le parole con cui lo scienziato russo Lev Landau ha definito la relatività generale di Einstein. Secondo questa teoria, lo spazio altro non è che il campo gravitazionale ed è «una delle componenti materiali" del mondo. Un'entità che ondula, si flette, s'incurva, si storce». La Terra gira intorno al Sole non per una forza misteriosa che la attira ma perché corre «diritta in uno spazio che si inclina». A causa dello spazio curvo, anche il percorso della luce traccia linee curve; e anche il tempo si incurva e perciò passa più lentamente in basso, vicino alla Terra, e più velocemente in alto: «Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui». Non abbiamo qui capienza per raccontare le altre lezioni. Ci soffermeremo sull'ultima, in cui Rovelli pone una domanda cruciale: «Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo?».
Qui Rovelli mette in campo una sorta di ecumene episte m o lo g ic a , in cui da ogni percorso di ricerca può arrivare legittima conoscenza: come ha sostenuto, verso la fine del secolo scorso, Paul K. Feyerabend. E si dichiara certo, Rovelli, che «quello che impariamo a conoscere, anche se lentamente e a tentoni, è il mondo reale di cui siamo parte». L'autore, così, smentisce un po’ l'atteggiamento, positivo ma problematico, assunto nelle precedenti lezioni: ci saremmo attesi, da lui, un bagno di prudenza nelle idee di Hume. In compenso, verso la conclusione, il libro di Rovelli recupera il tema della incomunicabilità tra la cultura scientifica e la cultura umanistica: anche ad un livello più alto rispetto alla polemica aperta nel 1959 dalla pubblicazione del libro di Charles P. Snow, Le due culture (ripubblicato nel 2005 senza esiti significativi). Questa la pietra che Rovelli getta nello stagno: «La confusione tra inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è origine dell' incomprensione e della diffidenza per la scienza». Chi ha orecchie per intendere intenda. E intervenga, se vuole.
Ci vuole un fisico bestiale per vincere la sfida in libreria
Il libro di Carlo Rovelli ha venduto 160mila copie ed è da settimane in cima alle classifiche
È solo merito dell’autore o abbiamo cominciato a interessarci alla scienza?di Elisabetta Ambrosi il Fatto 1.4.15
Anche in casa Adelphi gli animi sono ancora increduli: 160.000 (e il numero è in crescita costante) sono le copie che ha finora venduto il libro di Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, ormai stabilmente in classifica da settimane: ottanta pagine che raccontano in maniera limpida, affascinante e concisa la Teoria della relatività generale di Einstein, la meccanica quantistica, l’architettura dell’universo, le particelle elementari, la gravità quantistica, i buchi neri, infine il modo in cui noi possiamo pensarci nel mondo descritto dalla fisica. “Non nascondo che vedere il libro di Rovelli un po’ sopra Stephen King e un po’ sotto le Cinquanta sfumature fa una certa impressione”, racconta Matteo Codignola di Adelphi, ricordando l’analoga fortuna editoriale del saggio Sei pezzi facili del fisico Richard Feynman.
“QUELLO di Rovelli è un libro emozionante e divertente che comunica a chi legge la sensazione che chiunque può avvicinarsi al mondo della scienza, in genere considerato impervio. Ma il successo di un libro è sempre imprevedibile, anche se va detto che l’Italia è un mercato particolare, dove libri importanti – penso a un autore come Thomas Bernhard – si vendono più che nel paese di origine”. “Una rondine non fa primavera, ma già il fatto che ci poniamo la domanda sul perché questo libro sta avendo tanto successo dovrebbe farci riflettere”, spiega Massimo Bucciantini, storico della scienza all’Università di Siena, autore di libri su Galileo e Keplero e di recente di un saggio sulla storia della statua di Giordano Bruno (Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi). Lui un’idea chiara delle ragioni di questo piccolo exploit editoriale se l’è fatta e ci aiuta a capire di più. “In primo luogo si tratta di un’operazione editoriale intelligente, a partire dal titolo e in particolare dall’aggettivo ‘brevi’, che fa capire che si tratta di un libro per chi la scienza non la conosce per nulla o quasi. In questo modo il lettore digiuno di fisica viene messo a proprio agio. Il secondo motivo è che a differenza di tanti intellettuali aristocratici l’autore si mette in gioco con un’operazione intelligente di divulgazione. Ben vengano libri così, che spiegano con chiarezza e intelligenza concetti non così semplici. Vorrei ricordare che sono molti i Nobel che una volta smessa la ricerca si dedicano, appunto, alla diffusione e divulgazione scientifica. Il terzo motivo per cui questo libro è importante, e vende, è che declina la scienza non separandola dalla cultura: da noi ancora vige l’idea che la scienza sia solo calcolo, misurazione”.
Ma non basta: ci sono poi anche ulteriori motivazioni che spiegano i motivi del successo di questo piccolo saggio. “È un libro di segno inverso rispetto alla retorica avvocatesca e tribunalizia di questo paese che pervade anche i programmi scolastici e anzi mi piacerebbe leggere un analogo di economia e politica”, continua Bucciantini. “L’altro aspetto vincente del saggio è che in un momento caotico mette in ordine le idee seguendo la chiave della semplicità, e forse un altro motivo per cui si vende è che c’è un grande bisogno di idee chiare e distinte. Infine, è un libro che non ha nessun finalismo, sostiene che la scienza e la fede debbano restare separate e anzi il finale è all’insegna di Lucrezio”.
MOLTO PIÙ scettico, casi editoriali a parte, sulla fortuna della scienza e della divulgazione scientifica nel nostro paese è il pedagogista Benedetto Vertecchi, che pure ha apprezzato il libro di Rovelli. “Non credo che il fatto che un libro abbia successo consenta di fare inferenze sull’impatto che ha davvero nella cultura della popolazione. 160 mila copie sono tante, ma se facciamo un confronto, ad esempio, con il numero di persone che leggono gli oroscopi è facile capire che la cultura scientifica sta messa proprio male. Insomma, va benissimo che ci siano libri che aprano la prospettiva, ma quella occidentale sta diventando una cultura antiscientifica perché si accontenta di pseudoscienza che non richiede alcun pensiero o dimostrazione.
Pensiamo alle infinite medicine alternative che non dimostrano nulla o alle infinite ricette di migliorismo sociale cui non corrisponde alcuna analisi storica: insomma sembra interessare di più il magico che non la capacità di argomentazione e la conoscenza per cause di aristotelica memoria. Altrimenti non ci chiederemmo perché, se andiamo nelle università, troviamo uno studente di fisica per decine di studenti di facoltà di musica o spettacolo”.
Il talento e la curiosità di Einstein
di Giorgio Dall’Arti Il Sole 29.4.15
Notizie tratte da: Carlo Rovelli, «Sette brevi lezioni di fisica», Adelphi, Milano, pagg. 88,
€ 10,00.
Materia «Per adesso, ecco quello che sappiamo della materia. Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano assieme all'infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l'immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».
Paradosso Rimane un paradosso al centro della nostra conoscenza del mondo fisico. Il Novecento ci ha lasciato due teorie fondamentali: la relatività generale e la meccanica quantistica. Due teorie che non possono essere entrambe giuste, perché si contraddicono l’un l'altra: per la prima il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo; per la seconda, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia.
Rabbino «La Natura si sta comportando con noi come quell'anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltato il primo, il rabbino dice: “Hai ragione”. Il secondo insiste per essere ascoltato, il rabbino lo ascolta, e gli dice: “Hai ragione anche tu”. Allora la moglie del rabbino, che orecchiava da un'altra stanza, urla: “Ma non possono avere ragione entrambi!”. Il rabbino ci pensa, annuisce, e conclude: “Anche tu hai ragione”».
Calore Il calore, come sappiamo, va sempre dalle cose calde verso le cose fredde. Un cucchiaino freddo dentro una tazza di tè caldo diventa caldo anch’esso. Perché? Per caso. Lo ha dimostrato il fisico austriaco Ludwig Boltzmann. È una questione di probabilità. Il motivo è che è statisticamente più probabile che un atomo della sostanza calda, che si muove veloce, sbatta contro un atomo freddo e gli lasci un po’ della sua energia, che non viceversa.
Boltzmann La teoria di Boltzmann non fu presa sul serio da quasi nessuno. Il fisico austriaco si impiccò il 5 settembre 1906 a Duino, vicino a Trieste. Non assistette così al riconoscimento universale della correttezza delle sue idee.
Tempo Che cos'è il tempo? Esiste il «presente»? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l'idea di un presente comune a tutto l'universo sia un'illusione, e lo « scorrere » universale del tempo sia una generalizzazione che non funziona.
Illusione Quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive in una lettera alla sorella: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione».
Effimeri «Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo? Del mondo che vediamo siamo anche parte integrante». Per dirla tutta, «siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie».
Basso Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui.
Einstein «Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso» (Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire).
Non c’è una formula per fare un best-seller«Einstein, la scoperta più bella». È la prima delle 7 brevi lezioni. È la #bellezzadellafisica, che non ha nulla da invidiare a quella dell’arte, della musica e della letteraturaDa ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.
Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità: Rab - ½ R gab = Tab . Tutto qui.
Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.
1 commento:
semplicemente "illuminante"....riesce a rendere partecipi della difficolta' dello studioso a immaginare spazi scenari visioni nuovi....stai li quando dice ....trasmette un entusiasmo positivo e gratificante dello sforzo che si fa per seguire i concetti esposti con chiarezza ma affatto scontati. direi che dovrebbe essere da sprone a altri che vogliano divulgare...si fa cosi!
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