venerdì 22 maggio 2015

Canfora e Cardini su Palmira



Se si calpesta la storia antica
Roccaforte inespugnabile faro della cultura ellenistica Palmira sopravvisse alle mire di Marco Antonio e Aureliano. La città che sfidò l’esercito romano

di Luciano Canfora Corriere 22.5.15
La storia antica sembra non interessare nessuno, per lo meno a giudicare dalla indifferenza con cui il cosiddetto mondo civile assiste alla distruzione di uno dei più importanti siti archeologici del mondo. Dinanzi a questa inerzia senza scusanti conviene ricordare che Palmira non è una realtà antica ma antichissima.

Il suo nome ricorre nell’Antico Testamento nelle Cronache. La sua realtà è centrale in quel quadrilatero cruciale che collega la Mesopotamia e il Golfo Persico col Mediterraneo, in un alternarsi di paesaggi fertili e deserto. Le località che delimitano tale quadrilatero sono Babilonia, Edessa, Antiochia e Gaza. Al centro di questo quadrilatero vi è Palmira. Per familiarizzarsi con la topografia e la storia di questo centro, la più celebre delle cosiddette città carovaniere, conviene rifarsi al grande libro dello storico russo Rostovtzeff (1870-1952): libro particolarmente felice e molto fortunato in Italia, grazie alla traduzione che ne fece prontamente l’editore Laterza (Città carovaniere, Bari 1934).
Le città carovaniere erano stazioni commerciali delle carovane che trasportavano merci e uomini dal deserto arabico al Mediterraneo. In Siria, oltre Palmira, va ricordata almeno Damasco. Al tempo stesso va ricordato che tali realtà gravitarono inevitabilmente verso il regno seleucide, fondato da Seleuco I dopo la morte di Alessandro Magno. Sin dall’epoca seleucide (III a.C.) una colonia macedone, uomini e soldati parlanti greco, si era insediata a Palmira. Ma col decadere della potenza seleucide finì per essere una sorta di Stato cuscinetto tra l’impero partico e la provincia romana di Siria.
La prima notizia esplicita, nelle fonti classiche, riguarda il saccheggio di Palmira da parte delle legioni del triumviro Marco Antonio (41 a.C.), in quegli anni — siamo dieci anni prima della battaglia di Azio — padrone della parte orientale della repubblica imperiale romana. Antonio tentava di rilanciare il controllo romano al di là della provincia di Siria, perennemente minacciata dalle incursioni partiche. È sintomatico della complicata realtà etnica, religiosa e politica di quell’area il fatto che i Romani non siano mai riusciti ad avere il controllo pieno delle campagne, ma si siano attestati nelle principali realtà urbane. In momenti di inquietudine politica i Parti irrompevano nell’area a sostegno dei nemici di Roma e se del caso si ritiravano. Quando Palmira viene saccheggiata dalle legioni di Antonio accade il fenomeno inverso: gli abitanti si sottraggono alla morsa delle truppe romane e, portandosi dietro le loro ricchezze, si rifugiano al di là dell’Eufrate, sotto protezione partica.
Quando Augusto, divenuto unico padrone della repubblica imperiale, decise di avviare una entente cordiale con i Parti, accettò di buon grado che Palmira costituisse un territorio neutro e inaugurò un lungo periodo di pace. Nel frattempo i palmireni, che erano arabi, avevano ormai realizzato un insediamento stanziale ed un grado di civiltà elevatissimo; si difendevano dai predoni beduini per proteggere il loro commercio. Fu un grande pacificatore quale Adriano a ridare sicurezza alla regione. Al tempo della sua visita a Palmira (129 d.C.) la città assunse l’epiteto di Hadriana. Da Marco Aurelio a Settimio Severo ci fu invece un crescendo di tensione romano-partica con reiterati conflitti, ed è a seguito di quella prolungata tensione che a Palmira si venne costituendo una realtà politica nuova di tipo monarchico intorno alla famiglia di Odenato.
Il seguito della vicenda è noto. Odenato, buon amico dei Romani, e gratificato del titolo di corrector totius Orientis, cui aggiunse di suo il titolo di «re dei re», fu liquidato da una congiura che portò al potere il figlio Valballato, sotto reggenza dell’ambiziosa e abilissima madre Zenobia. Siamo negli anni della cosiddetta «seconda anarchia militare» (III secolo d.C.). Solo con la ascesa al trono di Aureliano il governo romano riuscì a porsi il problema di contenere l’espansionismo palmireno: ormai Zenobia controllava parte della penisola arabica, l’intero Egitto, la Siria e l’Asia minore fino alla Bitinia.
Dapprima Aureliano accettò lo stato di fatto e concluse un accordo con Zenobia sulla base del riconoscimento da parte di Roma del dominio di Zenobia su tutte le regioni conquistate. Palmira intanto era anche un faro di cultura ellenistica e intorno alla regina si raccolse una élite culturale il cui più noto esponente fu il filosofo Cassio Longino. L’accordo durò pochissimo. Nell’anno 271 Aureliano sferrò un attacco frontale contro il regno palmireno, prendendo a pretesto la assunzione da parte di Valballato, del titolo Imperator Caesar Augustus . L’attacco fu concentrico: da un lato la rapida riconquista dell’Asia minore e dall’altro la durissima campagna in Egitto che comportò la distruzione, ad Alessandria, dell’intero quartiere del Bruchion, dove era il palazzo reale dei Tolomei, comprendente un patrimonio inestimabile dell’umanità quale la grande biblioteca, situata dentro il palazzo reale. È bene ricordare infatti che il distruttore della biblioteca più importante del mondo antico non fu Giulio Cesare, ma Aureliano: ne parla ancora, circa mezzo secolo dopo, lo storico di origine siriaca Ammiano Marcellino.
Dall’Egitto, Zenobia fuggì a Palmira e organizzò l’ultima resistenza. Quando i Romani erano sul punto di espugnarla, infliggendo perdite e distruzioni alla città, Zenobia tentò di fuggire presso i Parti, ma fu raggiunta e arrestata mentre varcava l’Eufrate. Secondo le fonti romane avrebbe cercato di salvarsi accusando i suoi consiglieri, Longino incluso. Nulla di preciso si sa sulla sua fine. Forse, imitando Cleopatra, riuscì ad evitare di ornare il trionfo di Aureliano.


Palmira, addio al gioiello che il raiss Assad ha protetto e l’Occidente ha lasciato soloLa città patrimonio dei monumenti ellenistici

di Franco Cardini La Stampa 22.5.15
Probabilmente quelli dello «Stato islamico» di Al Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi.

Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i «crociati occidentali» li odiano, dal momento che le decapitazini non bastano adesso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius?
Semplicemente una gloria del genere umano, una città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la «Via della Seta») e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la «Via delle Spezie», o «degli Aromi»). I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.
E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le «città carovaniere» ch’erano altrettante città-stato rette da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole.
Ma Palmira, al centro di una sterminata oasi dal quale prendeva il nome (Tadmor, «la città dei datteri») era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, «cuscinetto» tra l’impero romano e quello parto-persiano, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.
Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica - da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo - tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.
Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il cui culto monoteistico-solare trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.
Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar al Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico. 


“Un’armata di 22 mila stranieri, più forte di quella che sconfisse i sovietici in Afghanistan”
Rapporto riservato della Casa Bianca: kamikaze inarrestabili
di Paolo Mastrolilli La Stampa 23.5.15
«Non abbiamo mai visto una roba come questa». La voce del funzionario del Dipartimento di Stato, che l’altro giorno ha tenuto un briefing riservato con i giornalisti sulla caduta di Ramadi, è più che preoccupata. Sarebbe meglio definirla sconsolata. Il presidente Obama ha detto che «non stiamo perdendo»: gli episodi di Ramadi e Palmira sono stati solo un incidente nel percorso di una lunga campagna. Ma l’impressione che si ricava dal briefing con questo alto funzionario, che lavora sul terreno in Iraq e Siria, e ha partecipato al vertice del Consiglio per la sicurezza nazionale tenuto alla Casa Bianca la sera della caduta della città nella provincia di Al Anbar, è diversa.
Come a Oklahoma City
La prima cosa che impressiona è la forza usata dall’Isis. Durante l’assalto finale sono state impiegate 30 Vbied, ossia autobombe guidate da jihadisti kamikaze. Di queste, almeno 10 avevano la stessa potenza esplosiva usata da Timothy McVeigh nel suo attentato a Oklahoma City. Significa che una trentina di militanti del califfato si sono immolati per dare il colpo finale agli avversari, e «hanno fatto saltare in aria interi quartieri». Azioni che potrebbero ripetere «nelle capitali dei Paesi alleati».
Il secondo problema è la quantità e la provenienza dei terroristi, e questo è l’elemento che ha spinto il funzionario del Dipartimento di Stato ad ammettere di non aver mai visto nulla di simile. L’Isis, secondo le stime dell’intelligence americana, può contare ora su almeno 22.000 combattenti stranieri, arrivati da un centinaio di Paesi diversi. «Per dare un contesto a questo numero, immaginate che si tratta del doppio dei mujaheddin andati in Afghanistan durante l’intero periodo di dieci anni della lotta contro le truppe di occupazione dell’Urss».
Detto questo, il problema ora è come fronteggiare una forza che minaccia di conquistare l’intero Iraq e la Siria. Obama ha detto che non intende mandare altri soldati americani, perché «se gli iracheni non vogliono combattere per il loro Paese, non saremo noi a poterlo fare». Il funzionario del Dipartimento di Stato non ha escluso altre operazioni delle forze speciali, come quella lanciata in Siria contro Abu Sayyaf, ma ha detto che il capo degli Stati Maggiori riuniti Dempsey non le ha richieste, e durante il Consiglio alla Casa Bianca non se n’è parlato.
E’ stato invece deciso l’invio immediato all’esercito regolare di 1.000 razzi anti-carro, da usare contro le autobombe per distruggerle prima che esplodano. Il fatto positivo, secondo l’alto funzionario, è che la forze irachene non si sono squagliate come a Mosul. Si sono ritirate, perché stavano perdendo, ma si sono raggruppate e stanno preparando la controffensiva. Gli elementi su cui ci si basa ora per evitare la caduta di Baghdad, e magari riprendere Ramadi, sono quattro: i soldati della Settima divisione che si sono ritirati; i circa 8.000 volontari delle tribù sunnite della regione che vogliono combattere l’Isis, e il premier Abadi intende armare; i 24.000 poliziotti di al Anbar che avevano disertato, ma sono stati amnistiati e torneranno in servizio; e soprattutto gli 80.000 uomini delle Popular Mobilization Forces, ossia le milizie in prevalenza sciite, che si sono formate in risposta alla fatwa contro l’Isis emessa dall’ayatollah al Sistani.
Governo senza soldi
Queste forze sono legate all’Iran, ma gli Usa non hanno alternative. Il governo di Baghdad è rimasto anche senza soldi, e solo «l’eroica azione del team dell’Onu presente in Iraq gli consente di avere i finanziamenti e far funzionare i suoi servizi». Una situazione estremamente complicata, quindi, che obbliga a rimandare l’offensiva per riprendere Mosul e lascia nell’incertezza i tempi per la controffensiva a Ramadi. Per «degradare» l’Isis, invece, «serviranno almeno altri tre anni».

Volontari, petrolio, nemici divisi ecco perché il califfato si espande
Finanziamenti e uomini continuano ad arrivare, Assad è indebolito, i sunniti iracheni temono l’influenza iraniana
Nove mesi di raid americani non sono bastati. Chi avrà la forza di mandare le truppe di terra?
di Maurizio Molinari La Stampa 23.5.15
Perché il Califfato sta vincendo in Siria ed Iraq?
Per tre motivi convergenti. Primo: il nemico contro cui lo Stato Islamico (Isis) si batte sono gli eserciti governativi di questi due Paesi ed entrambi sono in pessime condizioni. Secondo: fra le tribù sunnite il sostegno per Isis è in crescita perché la diffusa percezione è che sia l’unica loro difesa dalle potenti milizie sciite sostenute dall’Iran. Terzo: la motivazione dei jihadisti sunniti è molto alta, vanno incontro al fuoco senza paura di morire perché imbevuti di un’ideologia che santifica il martirio.
Perché i raid della coalizione non riesconoa indebolirlo?
Oltre 6000 raid aerei, in gran parte compiuti dagli Stati Uniti, hanno distrutto centinaia di mezzi militari, edifici ed accampamenti ma sono in difficoltà nell’identificare le cellule di Isis perché si muovono in piccoli gruppi che ai satelliti appaiono come civili, a piedi, in auto o sui cammelli. In alcuni casi Isis è stata abile a proteggere gli spostamenti facendosi schermo con le tempeste di sabbia. Ma ciò che più conta è che nelle battaglie di terra, in zone urbane come Ramadi o Palmira, gli aerei possono poco se non sostengono truppe ben addestrate. A Kobane, in Siria, Isis è stato sconfitto perché i raid alleati erano coordinati sul terreno con i peshmerga del Kurdistan.
Perché il ferimento del Califfo e l'eliminazionedi alcuni leader non frena Isis?
Perché «Daesh», acronimo arabo per Isis, si autoalimenta con l’ideologia jihadista. Non è un’organizzazione terroristica classica, con gerarchie e catene di comando, bensì un gruppo di persone convinte nella necessità di usare la violenza più efferata sul prossimo per realizzare un’unica Jihadland, dal Pakistan al Marocco. Uccidere i leader serve a poco: ne emergono subito altri. A ben vedere anche il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi non ha il carisma di Bin Laden o al-Zawahiri, i leader di Al Qaeda. La forza sta nell’ideologia, capace di riprodursi ovunque.
Isis si sta rafforzando anche in Libia?
L’occupazione della «Sala Ouagadougou» di Sirte, dove Muammar Gheddafi ospitava i leader africani, dà la misura del rafforzamento di Isis in Libia. Se Derna è la roccaforte in Cirenaica e Bengasi è la città dove i jihadisti si muovono più facilmente, l’insediamento a Sirte svela un rafforzamento sul territorio confermato dal controllo di almeno una ventina di pozzi di greggio da cui Isis ottiene circa 200 mila barili al giorno. E’ l’afflusso di volontari da Tunisia, Egitto, Yemen e Sudan a rafforzare le cellule locali che hanno trovato in Libia una situazione favorevole per espandersi perché i due governi rivali, a Tobruk e Tripoli, creano una situazione di guerra civile endemica assai simile a quella siriana.
Quali altri Stati sono nel mirino del Califfo?
Anzitutto il Libano. La battaglia di Qalamun, iniziata il 6 maggio, continua perché Isis vuole sconfinare nella Valle della Bekaa per colpire le roccaforti Hezbollah, che alimentano il regime di Assad, spingendo i sunniti alla rivolta. Poi la Giordania, che oramai ha due confini con il Califfato, a Nord ed Est. E l’Arabia Saudita, come testimonia l’attentato di ieri alla moschea sciita di Qatif. Ma l’obiettivo più ambizioso è in Afghanistan-Pakistan con il gruppo «Khosaran», i taleban che hanno abbandonato il Mullah Omar per seguire il Califfo nella guerra genocida agli sciiti.
Chi e cosa può fermareil Califfato?
Le truppe del Califfato sono molto motivate ma non numerose: un intervento di terra da parte di un esercito ben strutturato potrebbe spazzarle via. Ma nessun Paese vuole farlo. Usa ed europei temono di impantanarsi, i Paesi arabi vedono il rischio di un effetto-boomerang ai loro danni e la Turchia, che dispone di un esercito formidabile, ha come priorità la caduta del regime di Bashar Assad, non la sconfitta del Califfo.
Ci sono degli Stati che in segreto aiutano il Califfo?
Nelle capitali del Medio Oriente è il tema più discusso. I sospettati sono numerosi ma ciò che colpisce è come il più citato sia la Turchia di Erdogan. Perché è attraverso il suo territorio che Isis riceve volontari e vende illegalmente greggio. Nonostante le proteste internazionali e le secche smentite di Ankara.
L’Isis avanza, ecco perché non si riesce a fermarlodi Maurizio Molinari La Stampa 23.5.15
Lo Stato Islamico (Isis) apre le ostilità contro l’Arabia Saudita con un attacco kamikaze in una moschea del Qatif. Il bilancio di almeno 10 morti e 70 feriti nella «Imam Ali» del villaggio di Qadih, in una regione sciita, è rivendicato dai «Soldati del Califfato» con un comunicato sul web nel quale si preannunciano «giorni bui» per la minoranza sciita nel regno wahabita.
L’attentatore
L’identificazione del kamikaze in Abu Amer al-Najdi, cittadino saudita, è un messaggio a Riad: fra gli oltre duemila volontari sauditi nei ranghi di Isis molti «sono pronti al martirio». Nello scorso novembre era stato il Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, a chiedere ai seguaci di «colpire i Saloul», adoperando un termine dispregiativo per indicare nei sauditi la «testa del serpente e la roccaforte del male» da far «esplodere con un vulcano della Jihad».
Riad aveva preso sul serio le minacce, iniziando a costruire un vallo difensivo lungo i circa 1000 km di confine con l’Iraq, ma Isis riesce ora per la prima volta a colpire beffando la sicurezza saudita e rafforzando la proiezione di una potenza accresciuta in Medio Oriente.
L’avanzata jihadista
Nell’ultima settimana la conquista di Palmira ha portato il Califfato a controllare oltre il 50 per cento del territorio siriano - secondo un calcolo dell’Osservatorio sui diritti umani a Londra - e a minacciare tanto Damasco, come anche Baghdad dopo la presa di Ramadi. A conferma del consolidamento c’è il successo di al-Tanf, ultimo posto di frontiera Siria-Iraq ancora in mano al regime di Assad. Ciò significa che le milizie del Califfato potranno muoversi con più facilità fra Siria e Iraq, potendo accrescere il controllo sulle tribù locali. Ciò che accomuna i successi del Califfo è il messaggio di morte agli sciiti e ciò si ritrova nell’attentato nel Qatif, lasciando intendere di voler indebolire la credibilità del re Salman e del principe ereditario Bin Nayef, ex ministro degli Interni fautore della repressione contro i terroristi interni.
L’allarme italiano
Sono questi sviluppi che spingono il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, a sfruttare il summit Ue di Riga per dire che «il governo è preoccupato non solo per quello che succede in Siria ma anche per la forse ancor più minacciosa situazione in Iraq». «A Parigi ci sarà la riunione del gruppo di testa della coalizione anti-Daesh - termina Gentiloni, riferendosi a Isis – e sarà fondamentale una verifica della strategia seguita finora». 

1 commento:

Anonimo ha detto...

vorrei segnalare che l'articolo di canfora è illeggibile in quanto risulta tagliato sul lato destro.
saluti
vincenzo