Se si calpesta la storia anticaRoccaforte inespugnabile faro della cultura ellenistica Palmira sopravvisse alle mire di Marco Antonio e Aureliano. La città che sfidò l’esercito romano
La storia antica sembra non interessare nessuno, per lo meno a giudicare dalla indifferenza con cui il cosiddetto mondo civile assiste alla distruzione di uno dei più importanti siti archeologici del mondo. Dinanzi a questa inerzia senza scusanti conviene ricordare che Palmira non è una realtà antica ma antichissima.
Probabilmente quelli dello «Stato islamico» di Al Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi.
Rapporto riservato della Casa Bianca: kamikaze inarrestabili
di Paolo Mastrolilli La Stampa 23.5.15
«Non abbiamo mai visto una roba come questa». La voce del funzionario del Dipartimento di Stato, che l’altro giorno ha tenuto un briefing riservato con i giornalisti sulla caduta di Ramadi, è più che preoccupata. Sarebbe meglio definirla sconsolata. Il presidente Obama ha detto che «non stiamo perdendo»: gli episodi di Ramadi e Palmira sono stati solo un incidente nel percorso di una lunga campagna. Ma l’impressione che si ricava dal briefing con questo alto funzionario, che lavora sul terreno in Iraq e Siria, e ha partecipato al vertice del Consiglio per la sicurezza nazionale tenuto alla Casa Bianca la sera della caduta della città nella provincia di Al Anbar, è diversa.
Come a Oklahoma City
La prima cosa che impressiona è la forza usata dall’Isis. Durante l’assalto finale sono state impiegate 30 Vbied, ossia autobombe guidate da jihadisti kamikaze. Di queste, almeno 10 avevano la stessa potenza esplosiva usata da Timothy McVeigh nel suo attentato a Oklahoma City. Significa che una trentina di militanti del califfato si sono immolati per dare il colpo finale agli avversari, e «hanno fatto saltare in aria interi quartieri». Azioni che potrebbero ripetere «nelle capitali dei Paesi alleati».
Il secondo problema è la quantità e la provenienza dei terroristi, e questo è l’elemento che ha spinto il funzionario del Dipartimento di Stato ad ammettere di non aver mai visto nulla di simile. L’Isis, secondo le stime dell’intelligence americana, può contare ora su almeno 22.000 combattenti stranieri, arrivati da un centinaio di Paesi diversi. «Per dare un contesto a questo numero, immaginate che si tratta del doppio dei mujaheddin andati in Afghanistan durante l’intero periodo di dieci anni della lotta contro le truppe di occupazione dell’Urss».
Detto questo, il problema ora è come fronteggiare una forza che minaccia di conquistare l’intero Iraq e la Siria. Obama ha detto che non intende mandare altri soldati americani, perché «se gli iracheni non vogliono combattere per il loro Paese, non saremo noi a poterlo fare». Il funzionario del Dipartimento di Stato non ha escluso altre operazioni delle forze speciali, come quella lanciata in Siria contro Abu Sayyaf, ma ha detto che il capo degli Stati Maggiori riuniti Dempsey non le ha richieste, e durante il Consiglio alla Casa Bianca non se n’è parlato.
E’ stato invece deciso l’invio immediato all’esercito regolare di 1.000 razzi anti-carro, da usare contro le autobombe per distruggerle prima che esplodano. Il fatto positivo, secondo l’alto funzionario, è che la forze irachene non si sono squagliate come a Mosul. Si sono ritirate, perché stavano perdendo, ma si sono raggruppate e stanno preparando la controffensiva. Gli elementi su cui ci si basa ora per evitare la caduta di Baghdad, e magari riprendere Ramadi, sono quattro: i soldati della Settima divisione che si sono ritirati; i circa 8.000 volontari delle tribù sunnite della regione che vogliono combattere l’Isis, e il premier Abadi intende armare; i 24.000 poliziotti di al Anbar che avevano disertato, ma sono stati amnistiati e torneranno in servizio; e soprattutto gli 80.000 uomini delle Popular Mobilization Forces, ossia le milizie in prevalenza sciite, che si sono formate in risposta alla fatwa contro l’Isis emessa dall’ayatollah al Sistani.
Governo senza soldi
Queste forze sono legate all’Iran, ma gli Usa non hanno alternative. Il governo di Baghdad è rimasto anche senza soldi, e solo «l’eroica azione del team dell’Onu presente in Iraq gli consente di avere i finanziamenti e far funzionare i suoi servizi». Una situazione estremamente complicata, quindi, che obbliga a rimandare l’offensiva per riprendere Mosul e lascia nell’incertezza i tempi per la controffensiva a Ramadi. Per «degradare» l’Isis, invece, «serviranno almeno altri tre anni».
Finanziamenti e uomini continuano ad arrivare, Assad è indebolito, i sunniti iracheni temono l’influenza iraniana
Nove mesi di raid americani non sono bastati. Chi avrà la forza di mandare le truppe di terra?di Maurizio Molinari La Stampa 23.5.15
Perché il Califfato sta vincendo in Siria ed Iraq?
Per tre motivi convergenti. Primo: il nemico contro cui lo Stato Islamico (Isis) si batte sono gli eserciti governativi di questi due Paesi ed entrambi sono in pessime condizioni. Secondo: fra le tribù sunnite il sostegno per Isis è in crescita perché la diffusa percezione è che sia l’unica loro difesa dalle potenti milizie sciite sostenute dall’Iran. Terzo: la motivazione dei jihadisti sunniti è molto alta, vanno incontro al fuoco senza paura di morire perché imbevuti di un’ideologia che santifica il martirio.
Perché i raid della coalizione non riesconoa indebolirlo?
Oltre 6000 raid aerei, in gran parte compiuti dagli Stati Uniti, hanno distrutto centinaia di mezzi militari, edifici ed accampamenti ma sono in difficoltà nell’identificare le cellule di Isis perché si muovono in piccoli gruppi che ai satelliti appaiono come civili, a piedi, in auto o sui cammelli. In alcuni casi Isis è stata abile a proteggere gli spostamenti facendosi schermo con le tempeste di sabbia. Ma ciò che più conta è che nelle battaglie di terra, in zone urbane come Ramadi o Palmira, gli aerei possono poco se non sostengono truppe ben addestrate. A Kobane, in Siria, Isis è stato sconfitto perché i raid alleati erano coordinati sul terreno con i peshmerga del Kurdistan.
Perché il ferimento del Califfo e l'eliminazionedi alcuni leader non frena Isis?
Perché «Daesh», acronimo arabo per Isis, si autoalimenta con l’ideologia jihadista. Non è un’organizzazione terroristica classica, con gerarchie e catene di comando, bensì un gruppo di persone convinte nella necessità di usare la violenza più efferata sul prossimo per realizzare un’unica Jihadland, dal Pakistan al Marocco. Uccidere i leader serve a poco: ne emergono subito altri. A ben vedere anche il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi non ha il carisma di Bin Laden o al-Zawahiri, i leader di Al Qaeda. La forza sta nell’ideologia, capace di riprodursi ovunque.
Isis si sta rafforzando anche in Libia?
L’occupazione della «Sala Ouagadougou» di Sirte, dove Muammar Gheddafi ospitava i leader africani, dà la misura del rafforzamento di Isis in Libia. Se Derna è la roccaforte in Cirenaica e Bengasi è la città dove i jihadisti si muovono più facilmente, l’insediamento a Sirte svela un rafforzamento sul territorio confermato dal controllo di almeno una ventina di pozzi di greggio da cui Isis ottiene circa 200 mila barili al giorno. E’ l’afflusso di volontari da Tunisia, Egitto, Yemen e Sudan a rafforzare le cellule locali che hanno trovato in Libia una situazione favorevole per espandersi perché i due governi rivali, a Tobruk e Tripoli, creano una situazione di guerra civile endemica assai simile a quella siriana.
Quali altri Stati sono nel mirino del Califfo?
Anzitutto il Libano. La battaglia di Qalamun, iniziata il 6 maggio, continua perché Isis vuole sconfinare nella Valle della Bekaa per colpire le roccaforti Hezbollah, che alimentano il regime di Assad, spingendo i sunniti alla rivolta. Poi la Giordania, che oramai ha due confini con il Califfato, a Nord ed Est. E l’Arabia Saudita, come testimonia l’attentato di ieri alla moschea sciita di Qatif. Ma l’obiettivo più ambizioso è in Afghanistan-Pakistan con il gruppo «Khosaran», i taleban che hanno abbandonato il Mullah Omar per seguire il Califfo nella guerra genocida agli sciiti.
Chi e cosa può fermareil Califfato?
Le truppe del Califfato sono molto motivate ma non numerose: un intervento di terra da parte di un esercito ben strutturato potrebbe spazzarle via. Ma nessun Paese vuole farlo. Usa ed europei temono di impantanarsi, i Paesi arabi vedono il rischio di un effetto-boomerang ai loro danni e la Turchia, che dispone di un esercito formidabile, ha come priorità la caduta del regime di Bashar Assad, non la sconfitta del Califfo.
Ci sono degli Stati che in segreto aiutano il Califfo?
Nelle capitali del Medio Oriente è il tema più discusso. I sospettati sono numerosi ma ciò che colpisce è come il più citato sia la Turchia di Erdogan. Perché è attraverso il suo territorio che Isis riceve volontari e vende illegalmente greggio. Nonostante le proteste internazionali e le secche smentite di Ankara.
L’attentatore
L’identificazione del kamikaze in Abu Amer al-Najdi, cittadino saudita, è un messaggio a Riad: fra gli oltre duemila volontari sauditi nei ranghi di Isis molti «sono pronti al martirio». Nello scorso novembre era stato il Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, a chiedere ai seguaci di «colpire i Saloul», adoperando un termine dispregiativo per indicare nei sauditi la «testa del serpente e la roccaforte del male» da far «esplodere con un vulcano della Jihad».
Riad aveva preso sul serio le minacce, iniziando a costruire un vallo difensivo lungo i circa 1000 km di confine con l’Iraq, ma Isis riesce ora per la prima volta a colpire beffando la sicurezza saudita e rafforzando la proiezione di una potenza accresciuta in Medio Oriente.
L’avanzata jihadista
Nell’ultima settimana la conquista di Palmira ha portato il Califfato a controllare oltre il 50 per cento del territorio siriano - secondo un calcolo dell’Osservatorio sui diritti umani a Londra - e a minacciare tanto Damasco, come anche Baghdad dopo la presa di Ramadi. A conferma del consolidamento c’è il successo di al-Tanf, ultimo posto di frontiera Siria-Iraq ancora in mano al regime di Assad. Ciò significa che le milizie del Califfato potranno muoversi con più facilità fra Siria e Iraq, potendo accrescere il controllo sulle tribù locali. Ciò che accomuna i successi del Califfo è il messaggio di morte agli sciiti e ciò si ritrova nell’attentato nel Qatif, lasciando intendere di voler indebolire la credibilità del re Salman e del principe ereditario Bin Nayef, ex ministro degli Interni fautore della repressione contro i terroristi interni.
L’allarme italiano
Sono questi sviluppi che spingono il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, a sfruttare il summit Ue di Riga per dire che «il governo è preoccupato non solo per quello che succede in Siria ma anche per la forse ancor più minacciosa situazione in Iraq». «A Parigi ci sarà la riunione del gruppo di testa della coalizione anti-Daesh - termina Gentiloni, riferendosi a Isis – e sarà fondamentale una verifica della strategia seguita finora».
1 commento:
vorrei segnalare che l'articolo di canfora è illeggibile in quanto risulta tagliato sul lato destro.
saluti
vincenzo
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