martedì 26 giugno 2012
Todoriv sul neocolonialismo occidentale
Afghanistan. La guerra impossibile
di Tzvetan Todorov
Repubblica 26.6.12 da Segnalazioni
IL
VERTICE della Nato, nel maggio di quest’anno, ha annunciato il «ritiro
irrevocabile » delle truppe straniere che si trovano in Afghanistan
entro la fine del 2014.
Se così fosse, sarebbe la fine di una delle
guerre più lunghe di questo secolo e del precedente: tredici anni, dal
2001 al 2014, superata in durata solo dall’intervento americano in
Vietnam (1959-1975); è stata anche una delle più costose: si stima che
siano già stati spesi 530 miliardi di dollari. Le vittime si contano a
migliaia fra i soldati della coalizione e a decine di migliaia fra la
popolazione afgana.
Le grandi potenze non amano ammettere che gli
capita di sbagliarsi nelle avventure che intraprendono, perciò questo
ritiro ci verrà sicuramente presentato come un successo politico.
Preferiscono non rendersi conto che le guerre asimmetriche moderne sono
impossibili da vincere, che i popoli rigettano l’occupazione straniera
anche se viene spiegato che è per il loro bene. È abbastanza probabile
che il ritiro, come successe dopo la fine della guerra in Vietnam, sarà
seguito dal tracollo del governo messo al potere. Gli anni di sforzi, le
vittime, le spese non saranno serviti a niente, nemmeno come
insegnamento per gli anni a venire.
Succede già con l’intervento in
Libia del 2011. Il cambiamento di maggioranza in Francia, nel 2012, non
ha dato luogo ad alcuna critica sulla partecipazione del Paese alla
guerra. Il suo principale promotore all’interno del governo, Alain
Juppé, prima ministro della Difesa e poi degli Affari esteri, ha
dichiarato al momento di lasciare il potere: «Sono fiero di quello che
abbiamo fatto in Libia», ricevendo l’approvazione sia dei deputati
socialisti che degli editorialisti dei giornali di sinistra. Ma è una
scelta contestabile tanto a priori quanto a posteriori. Non è vero che
il bagno di sangue annunciato da Gheddafi non poteva essere evitato con
altri mezzi: d’altronde, non è stato evitato perché oggi sappiamo che la
guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della
repressione iniziale. E quando si ammetterà che la guerra non è uno
strumento appropriato per imporre la democrazia, perché la sua lezione
immediata consiste nell’affermare la superiorità della forza militare
bruta e dunque la negoziazione, come la ricerca del compromesso, sono
percepite come segnali di debolezza? Di per sé il risultato
dell’intervento è tutt’altro che trionfale: la Libia è in preda a
conflitti tribali, le milizie locali rifiutano di sottomettersi al
potere centrale, l’islamismo salafita avanza sempre più, la repressione e
le vendette contro i fedeli del vecchio regime proseguono, con atti di
tortura che si aggiungono alle esecuzioni sommarie.
I dirigenti delle
potenze occidentali, che amano credere di esprimere l’opinione della
«comunità internazionale », non sembrano essere consapevoli del
presupposto principale della loro politica, vale a dire che spetta a
loro, come ai bei vecchi tempi degli imperi coloniali, decidere del
destino di quei popoli privi di protettori potenti, in particolare in
Africa e in Asia. Questi popoli, sembrano dirsi, sono condannati a
restare eternamente minorenni e noi abbiamo la pesante responsabilità di
decidere per loro. Come spiegarsi, altrimenti, il fatto che trovano
legittimo destituire sulla punta del fucile i governi di così tanti
Paesi, dalla Costa d’Avorio all’Afghanistan, perfino quando questi gesti
spesso e volentieri hanno effetti controproducenti? Una simile
mentalità del resto è condivisa da alcuni cittadini delle vecchie
colonie residenti all’estero, che si indignano: ma che aspetta
l’Occidente per venirci a liberare dal nostro tiranno?
Questi
interventi sono tanto più problematici in quanto il contrario di un male
non è necessariamente un bene. Un potere tirannico può essere
sostituito da un altro che lo è altrettanto. Oggi vediamo la complessità
della situazione in Siria, per la quale si moltiplicano gli appelli
all’aiuto. Il governo di Damasco reprime i suoi avversari nel sangue, ma
si tratta di semplici manifestanti pacifici o di combattenti armati che
cercano di impadronirsi del potere? Il governo orchestra la sua
propaganda, ma c’è da credere a tutte le notizie diffuse dalla
televisione al-Jazeera o dall’autoproclamato Osservatorio siriano dei
diritti umani? Dobbiamo interpretare il conflitto come un confronto fra
amici e nemici della democrazia o come un confronto fra maggioranza
sunnita e minoranze di altre confessioni, o ancora come una lotta per il
potere fra l’Arabia Saudita e l’Iran?
Certe situazioni politiche,
come del resto certe configurazioni personali, non sono migliorabili
attraverso interventi radicali, di alcun genere. È questo che le rende,
propriamente parlando, tragiche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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