lunedì 19 novembre 2012

Ancora il sessantesimo di Benedetto Croce

IL MESSAGGERO del 17/11/2012 
CROCE, LA VITA E' IMPARARE (CASAVOLA FRANCESCO PAOLO) a pag. 25

Le cinque ragioni per rileggere il filosofo 

La rivincita di Croce
1952-2012 Lontano dalla metafisica e dal relativismo Un grande maestro a sessant'anni dalla scomparsa
La libertà come forza motrice nella storia del genere umano
di Giuseppe Galasso Corriere La Lettura 18.11.12

Che cosa davvero intendiamo per «attualità» di un pensiero o di un pensatore come Benedetto Croce? «Una questione di attualità, un libro di attualità, palpitante di attualità? Fa un po' ridere!»: lo diceva Alfredo Panzini, e non solo per un disdegnoso purismo verso il nostro tempo, il nostro sentire e pensare di oggi. Era anche un'esortazione a non identificare l'attualità con la cronaca, col rincorrersi, sempre più frenetico, di quel che ci scorre davanti e che viviamo. Il problema non è, però, così semplice per le più o meno grandi figure del passato, che vissero nella scia dei loro problemi e interessi, urgenze e bisogni. È molto contraddittorio che agli storici, da un lato, si chieda di non peccare di anacronismo, ossia di non alterare aspetti e uomini del passato rivestendoli dei panni propri di altri tempi; e che, dall'altro lato, li si lodi se sembrano portare il passato e i suoi uomini nel nostro tempo e farne dei nostri contemporanei.
In realtà, a ben vedere, l'attualità che attribuiamo al passato non è quella di un passato che non passa, o una qualità che si ritrovi solo in alcune sue espressioni e non in altre. L'attualità al passato la diamo noi, interrogando ciò che ne resta coi nostri occhi di oggi e ponendo ad esso altre e nuove domande o riformulando quelle già fatte; e sono anche nostre le risposte a tali domande. Non è il passato che viene a noi, siamo noi che lo evochiamo, mossi dai nostri problemi di oggi, e lo facciamo parlare con lingue a noi familiari. Senza alcun arbitrio, però, poiché lo storico deve procedere secondo le norme di una rigorosa filologia, sicché, divenendo parte del presente, il passato non cessi né di essere passato, né di essere diverso dal presente, anche se ne è una condizione di base.
Ecco, in ciò, una prima ragione di «attualità» di Croce. È sua, infatti, una limpida, geniale esposizione del principio da lui definito della «contemporaneità della Storia». E da ciò deriva pure un'altra ragione di sua «attualità», per l'affermazione che la realtà, tutta la realtà in ognuno e in tutti i suoi aspetti, non è «nient'altro che Storia». La storicità è, così, la categoria totalizzante ed esaustiva del reale. La stessa natura non è che Storia solidificata in certe forme; e anche il pensiero è Storia, è la vicenda perenne e dinamica, quale che ne sia il ritmo, della coscienza riflessa dell'uomo, sempre proiettiva, ossia che si spinge in avanti, anche quando sembra il contrario.
La verità muta allora col tempo? Sì e no. Ogni verità è figlia del suo tempo, ma, se è verità, è insieme figlia di ogni tempo. Uno storicismo integrale, dunque, che esclude ogni considerazione extrastorica, ogni riferimento metafisico, ma che in Croce non configura alcun relativismo. La distinzione fra storicismo e relativismo è un cardine del suo pensiero. La verità si costruisce nel tempo, ma trascende il tempo. Non è semplice eliminazione del falso, mera «falsificazione», operazione negativa che taglia via via i rami secchi del pensiero, bensì un'operazione altamente positiva, che sfronda il passato, lo supera, ma anche lo conserva e lo incrementa nel sempre mutevole presente, con una «verificazione» che comprende ma annulla in sé il momento della «falsificazione». Ossia, in altri termini, il relativismo è l'apparenza di questo processo (ogni tempo ha le sue verità); la progressiva costruzione del grande patrimonio intellettuale e morale dell'umanità ne è, invece, la sostanza.
In questo patrimonio ciò che trascende il proprio tempo diventa «classico», ossia un riferimento per il futuro, che secondo le sue esigenze può in ogni momento evocarlo e riproporselo. In questo senso Croce è un classico, appartiene, cioè, al grande album delle voci durature del passato. Egli, peraltro, pur affermando la Storia e la storicità come unico senso e valore della realtà e del pensiero, è ben lontano dal credere che la Storia e la storicità, ossia la Storia (sono le sue parole) «come pensiero e come azione», siano un tutto indifferenziato.
Il «principio della distinzione» è un altro caposaldo crociano, degno di speciale attenzione per un mondo che oggi è appena (e non tutto) uscito da un'epoca di oppressivi e sanguinari totalitarismi. Croce accetta in pieno il principio hegeliano della dialettica, per cui la Storia, cioè la vita, è strutturalmente fatta di ininterrotte contrapposizioni, che nel suo cammino si sciolgono via via in più alte sintesi. Non accetta, però, la tesi hegeliana di una marcia a termine fisso verso una sintesi totale e finale prefigurata dalla struttura stessa della realtà. Per lui la realtà è sempre aperta, e gli esiti di quella dialettica sono quali possono essere e si riesce a farli essere nel difficile e sempre faticoso cammino della Storia. Un cammino che, per di più, procede per molte vie, anche se interconnesse: quelle della fantasia, regno dell'arte, e della logica, regno del sapere, e, in parallelo, quelle della volontà individuale, regno dell'utile particolare (o, com'egli dice, dell'economico), e della volontà che si fa universale, regno della morale nella sua integrità e pienezza. Ciascuna di queste vie o forme è autonoma e valida di per sé ma, data la loro coessenziale partecipazione alla vita del tutto, la realtà procede alternandole e integrandole o superandole in una più alta ragione. Ciascun percorso ha, insomma, la sua legittimità e il suo diritto a farsi valere, ma la vita del tutto non può fermarsi per sempre nell'uno o nell'altro, ed esige e impone che ciascuna forma si affermi nella sua autonomia e nel suo valore, ma non blocchi il procedere della vita e ceda, anzi, il passo alle esigenze del tutto.
Sembra un meccanismo complicato e anche un po' anarchico, ma non è così. Si tratta solo di una unità del tutto fatta di profonde articolazioni interne e non fossilizzata in nessuna di esse, anzi volta sempre sia a sollecitarle che a superarle, non secondo un calendario prefissato, ma seguendo il ritmo libero e creativo delle sue imprevedibili potenzialità. Abbiamo detto che Croce teorizzò quattro di queste forme (il bello, il vero, l'utile, l'etico), per cui si ironizzò sulla sua «filosofia delle quattro parole». Ma non è qui la forza della sua riflessione al riguardo, bensì in quella logica della distinzione che non nega l'unità e le sue ragioni ma non le rende esclusive e monopolizzanti.
È in base a tutto ciò che si colgono meglio altre due ragioni per ricordare Croce. Una è relativa alla natura dell'arte (poesia, arti visive, musica e quant'altre ve ne siano), fondata sulla sua profonda liricità (ossia pura intuizione e rappresentazione estetica del sentire e patire) che ci trasmette l'immediata, commossa e piena percezione del bello, ci fa distinguere l'opera creativa della fantasia (con cui si identifica la poesia) da quella dell'immaginazione (che dà luogo a una grande varietà di espressioni, altre da quella poetica) e ci dà un'idea della poesia di incomparabile e perenne specificità di senso e di valore. L'altra è relativa all'idea che la libertà è la forza motrice della Storia, sempre attiva, anche quando ne appare espulsa o assente. E ciò non per un vuoto ottimismo. È di Croce una drammatica visione delle forze primigenie che animano la vitalità dell'uomo e la sua volontà di dominio e di potenza, così come delle opposte debolezze, per cui solo una vigile e profonda disciplina morale può dominare e volgere al meglio tutto ciò.
Quindi Croce poteva sia difendere sino in fondo l'autonomia dell'arte nel suo valore estetico da ogni interferenza sensoriale, psicologistica, strutturale, tecnicistica o di altro ordine materiale o esterno; sia sostenere un rapporto fra politica ed etica, che non disconosceva la sostanza dura e materiale della politica, anzi la difendeva, ma la vedeva e la voleva eticamente proiettata verso fini e valori generali, conformi alle ragioni della libertà, che non è legata ad alcun particolare ordine economico o sociale, perché vale di per sé e, come tale, opera quale «libertà liberatrice».
Sono alcune (non le sole) lezioni «attuali» di un classico, che trovò nella grande crisi europea del Novecento la spinta a una riflessione per cui poté, fra l'altro, prevedere la finale vittoria delle libertà sui totalitarismi allora al vertice dei loro trionfi. Un classico di grande eco ai suoi tempi, e non solo in Italia, ma poi più volte dichiarato estinto per ogni verso, ma vivo invece della presenza propria appunto dei classici, non sempre rumorosa, ma sempre attiva per vie e modi non prevedibili.


Né arretrato, né provinciale Anticipò l'«Italian Theory»
L'idealista napoletano non intralciò la scienza e fu un protagonista della cultura europea
di Corrado Ocone Corriere La Lettura 18.11.12


C'è un luogo comune che ha dominato nel secondo dopoguerra e la cui eco giunge fino a noi: Croce sarebbe un pensatore provinciale e la sua opera l'espressione di un'Italietta arretrata, poco attrezzata alla modernità. Come tutti i luoghi comuni, anche questo non regge. Anzi, da una riflessione seria e articolata emerge il contrario: Croce svolse una funzione cosmopolita, come scrisse Antonio Gramsci, che riprendeva quella degli umanisti e che mai più nessun pensatore italiano avrebbe in seguito esercitato. E il suo pensiero, lungi dall'essere arcaico, corrisponde al generale processo di critica al positivismo e di rinnovamento della cultura europea del primo Novecento.
La prima considerazione da fare è che Croce ha intessuto per tutta la vita relazioni con i più importanti esponenti della cultura mondiale del suo tempo. D'altronde l'Estetica, pubblicata nel 1902, con la sua idea dell'arte come intuizione lirica, ebbe subito un successo internazionale, tanto da accreditare l'autore come una delle voci più originali della filosofia. Il Breviario d'estetica del 1912 consiste in quattro lezioni commissionategli da un'università americana, mentre l'Aesthetica in nuce era in origine la voce «Estetica» affidatagli dall'Enciclopedia Britannica. Teoria e storia della storiografia uscì prima in tedesco nel 1915 e solo due anni dopo in Italia: faceva parte di una prestigiosa collana a tema, ove a Croce era stato chiesto di occuparsi della Storia. In Inghilterra, egli aveva un traduttore di eccezione: il filosofo Robin George Collingwood, che da Oxford aveva elaborato una prospettiva di pensiero molto simile a quella di Croce e che di lui si considerava allievo. In America il suo peso crebbe negli anni dell'opposizione al fascismo: scrisse su «Foreign Affairs», «Time» gli dedicò una copertina e il suo saggio sul liberalismo del 1939 apriva una importante opera collettiva sul concetto di libertà. Croce era un protagonista nei congressi internazionali di filosofia: a quello di Oxford del 1930 pronunciò il discorso Antistoricismo, che fu interpretato come una vibrante difesa della libertà e della cultura. Da esso Thomas Mann prese spunto per iniziare con Croce un carteggio sul destino della civiltà europea.
Dai suoi rapporti internazionali si evince anche che Croce non era affatto nemico degli scienziati, come un'altra diffusa vulgata vuole far credere. La sua idea del carattere utilitario dei concetti scientifici l'aveva appresa dall'epistemologia contemporanea, in particolare dall'empiriocriticismo di Ernst Mach e Richard Avenarius. Aveva però aggiunto che i concetti puri o filosofici sono usati anche dalle cosiddette scienze e viceversa: la distinzione fra due diversi tipi di conoscenza, comunque non subordinati, è di metodo e non di oggetto. Più in generale, si può dire che il metodo astraente è usato in maniera preponderante dalla scienza newtoniana moderna, ma già esperienze come la meccanica quantistica o il principio di indeterminazione di Heisenberg devono considerarsene fuori. Non è un caso pertanto che Croce, nel settembre del 1931 a Berlino, abbia trascorso un pomeriggio intero con Albert Einstein, riconoscendo in lui un «comune sentire». Inoltre non ostacolò affatto l'ingresso in Italia delle opere di Sigmund Freud e Max Weber, come pure si dice: ha dimostrato Daniela Coli che le propose per la traduzione, ma Laterza non accettò per motivi economici. La fama di Croce raggiunse persino l'India: il grande poeta Rabindranath Tagore venne in Italia nel 1926 ufficialmente per incontrare Mussolini, ma in realtà per vedere di nascosto il filosofo, alle cui concezioni estetiche si sentiva vicino.
Morto Croce, inizia un'altra storia. L'attacco viene mosso, negli anni Cinquanta, da due fronti: quello «neoilluminista» (Abbagnano, Viano, il primo Bobbio); l'altro dei marxisti non storicisti (Della Volpe, Colletti, Tronti). Intanto la cultura italiana importava in modo spesso acritico le filosofie del momento, creando mix di pensiero che dimostravano sudditanza intellettuale e quindi vero provincialismo.
Oggi, giunta al termine la vicenda del postmodernismo e delle filosofie variamente analitiche, si profila forse di nuovo lo spazio per un pensiero «impuro», cioè attento alle tematiche della vita, come quello crociano. Il realismo politico e storicistico di Croce d'altronde non fa che riannodare le fila di una tradizione risalente a Machiavelli e Vico, oggi studiata e definita come «Italian Theory».



Cristiano ma senza redenzione finale
di Gaetano Pecora Corriere La Lettura 18.11.12


Ogni grande autore viene interpretato in mille maniere diverse. Non c'è da prenderne scandalo: è il ritmo della conversazione umana. Quando però superano certi limiti, le interpretazioni si mutano in capricci esegetici, snodati e fantasiosi. È accaduto per Benedetto Croce quando, arpionatolo al saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, a viva forza lo si è tirato dentro il circolo di quella particolarissima coloritura del cristianesimo che è il cattolicesimo. Siano benvenute, perciò, le pagine assai acute (e puntute) con cui Fulvio Tessitore, nel libro La ricerca dello storicismo (Il Mulino, pp. 703, 75), spiega perché non «è possibile convertire Croce». Cristiano sì; ma cattolico no, mai. Cristiano, Croce lo fu davvero; ma suppergiù come un napoletano si sente anche italiano, come un fatto culturale dunque; e meglio ancora come ciascuno di noi eredita il patrimonio dai suoi maggiori; «eredità — sono parole di Croce — che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggere anche per accrescerla, ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidogmatico e critico». C'è qualcuno che in queste parole sente gorgogliare gli umori della sapienza cattolica? Si aggiunga che il cattolico non esclude che l'uomo possa redimersi dal male e salvarsi. Solo che la salvezza non è di questo mondo, che Adamo precipitò in un mare di dolori (o cattivi piaceri). La qual cosa, nota Tessitore, si urta due volte con la concezione crociana. La prima è che la prospettiva ultramondana esula dagli orizzonti del suo pensiero. Quel che a Croce interessa sapere è se l'uomo possa salvarsi in questo mondo. Qui, non altrove. Quaggiù, non lassù. La seconda è che la salvezza cattolica rimanda al Paradiso, cioè a uno stato perfetto che, proprio perché perfetto, è tetragono ai mutamenti e come fermo in un eterno presente. Nella concezione di Croce, invece, non c'è la redenzione finale; e non c'è perché per lui la Storia non conosce mete ultime, traguardi estremi, tappe finali, dove a uomini appagati sia dato riposare sulle loro fatiche. «Altro riposo — scrisse — non è concesso all'uomo se non nella lotta e per la lotta». Donde la preoccupazione che non si «tolga all'uomo l'umana sua facoltà di errare e di peccare, senza la quale non si può neppure fare il bene, il bene come ciascuno lo sente e sa di poter fare». Tutto questo, beninteso, nel presupposto che siano gli uomini in carne e ossa a far tesoro dei loro errori, con i loro slanci e le loro chiusure, le loro passioni e le loro miserie. Precisamente quegli uomini che, talora, sbiadiscono nello «Spirito universale» di Croce e che a giusta ragione Tessitore traguarda con ciglio contratto come l'inciampo che devia per strade torte il corso, altrimenti umanissimo, dei suoi pensieri. Umanissimo proprio nel senso che non oltrepassa gli umani e appunto perciò si tiene stretto «alla virtù che immane in noi».

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