domenica 10 marzo 2013

Antonio Gnoli intervista Gennaro Sasso


Gennaro Sasso
I ricordi del più grande studioso dell’idealismo italiano
Non capisco chi vuol dare senso al mondo Il laico difende soprattutto il diritto di morire

L’esercizio della filosofia è sterile ma non si può farne a meno

intervista di Antonio Gnoli Repubblica 10.3.13



Gennaro Sasso

 è nato a Roma nel 1928 Ha insegnato Storia della filosofia e Filosofia teoretica alla “Sapienza” di Roma È socio nazionale della Accademia dei Lincei



Un impasto di pessimismo radicale e serietà filologica, così mi appare Gennaro Sasso, il più autorevole studioso italiano di Machiavelli e Croce. Nelle cittadelle di quelle due esperienze egli ha ricavato una certa idea dell’Italia tutt’altro che edificante. E non riesco a immaginare uno studioso che più di lui si sia votato alle questioni della laicità. Legato al Partito d’Azione, imparentato con Guido Calogero, professore per mezzo secolo di filosofia, Sasso in tutto ciò che dice e pensa mostra il senso della distanza. È come se le sue scelte si annidino nella storica e inflessibile rivendicazione del proprio remoto status di professore: «Lo sono stato per oltre mezzo secolo, svolgendo il ruolo con onestà e rigore. E posso aggiungere che oggi l’insegnamento mi manca».
Sasso ha da poco concluso il suo lungo viaggio nell’idealismo italiano (sei volumi apparsi negli anni e pubblicati da Bibliopolis), ha dato alle stampe un libro sul tema della decadenza (edito da Viella) e un volume — che va accolto con delicatezza — dedicato al figlio scomparso circa tre anni fa.
Non le sembrano troppi sei volumi sull’idealismo italiano?
«L’ampiezza non è mai stata programmata come tale. E considerando la cosa “mostruosa” che ne è venuta fuori mi verrebbe da dirle che è stata anche una reazione alla cultura contemporanea italiana che ha totalmente ignorato quell’esperienza».
La riparazione di un torto culturale?
«Diciamo l’esigenza di metter mano a un’assenza vistosa. Aggiungo che non mi sono mai considerato un idealista, né un crociano né un gentiliano, e che ho sempre cercato di prendere contatto con quel pensiero a prescindere dall’adesione che ne davo».
Ma, alla fine, perché tanto interesse per una storia ormai fuori dal nostro orizzonte?
«Forse perché è stato il solo tentativo serio di formare una tradizione filosofica italiana. Peraltro fallito».
Fallito, probabilmente, anche perché le figure più rappresentative — Croce e Gentile — si identificarono con due esperienze politiche che in tempi diversi uscirono sconfitte: il fascismo e il liberalismo.
«Indubbiamente contribuì. Di Gentile sono note le vicende. Scaturite da anni tragici. Mentre penso che l’aspetto più drammatico del crocianesimo fu che appena toccato il suolo della libertà politica in un certo senso si perse».
A proposito di “anni tragici”, che furono quelli della guerra, come li ha vissuti?
«La cosa più nitida che ricordo fu vedere da qui, dall’Aventino dove praticamente ho sempre vissuto, l’incendio di San Lorenzo dopo il bombardamento. Era il 1943. Mi sentii scosso dagli echi drammatici di quell’evento».
E cosa fece?
«Avevo quindici anni. Qualche tempo prima scoprii al ginnasio che il mio compagno di banco, ebreo, era stato deportato.
Trovavo umilianti le adunate in cui ci vestivamo da balilla o da avanguardista. Maturai così un odio verso il fascismo e quell’ambiente retorico e paramilitare. Poi giunse la Liberazione e l’università, che feci a Roma tra il 1946 e il 1950».
Chi furono i suoi maestri?
«Luigi Scaravelli, Pantaleo Carabellese, Carlo Antoni, Gaetano De Sanctis, Antonino Pagliaro, Natalino Sapegno, al quale devo la conoscenza durante un esame, di Cesare Garboli. Diventammo molto amici. E infine Federico Chabod che ai miei occhi rivestiva un fascino particolare».
Perché?
«Era il tramite con Machiavelli. E quando pubblicai il libro, Chabod mi disse: ora potresti cominciare a occuparti della curva dei prezzi in Europa. Gli risposi, un po’ imbarazzato, che in quel momento stavo studiando Averroè. A quel punto mi considerò perduto. Conservò sempre la sua benevolenza e in omaggio alla mia decisione di occuparmi di filosofia, e non di storia, ironicamente mi soprannominò doctor subtilis facendomi vergognare come un ladro».
Lei è un po’ capzioso.
«La filosofia è un modo preciso di esercitare il pensiero».
Ossia?
«Un modo teoreticamente strutturato. La mia predilezione va a filosofi come Fichte, Hegel, soprattutto Kant. Ma il modello per me è stato Il sofista di Platone. Il pensare storicistico mi è sempre parso di scarso rilievo e infatti la mia interpretazione di Croce è stata di portarlo al di là dello storicismo».
Lei professa una filosofia totalmente staccata dalla realtà. Non c’è il rischio che sia inutile?
«Non riesco a capire quei pensatori, per i quali ho anche stima, che devono dare un senso al mondo. Sento l’esercizio fitato.

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