domenica 10 marzo 2013

Musica, tempo, filosofia


Morton Feldman: Pensieri verticali, traduzione di Adriana Bottini, Adelphi, pp. 306, 30

Risvolto
Come un rosario di suoni sgranati, come un mulino tibetano regolato da una pazienza celeste: così, nelle parole di Mario Bortolotto, apparve la musica quieta e smisurata di Morton Feldman all'orizzonte della Neue Musik. Ma se la novità radicale rappresentata dall'irruzione di Feldman sulla scena newyorkese fu in quel modo di comporre diverso da ogni altro (compreso quello del suo maestro Cage), ciò che sorprende per contrasto nei suoi scritti è la scintillante vivacità di una penna la cui verve polemica e incurante ironia ancora oggi lasciano il segno. Nessuna tenerezza per Darmstadt. Questi pensieri verticali sono come frecce avvelenate che si incuneano fra i resti di alcune inscalfibili certezze, corrodendole dall'interno. Una meditazione sulle essenze musicali, e sul tempo – «è la scansione del tempo, non il Tempo in sé, che è stata spacciata per l'essenza della musica» scrive Feldman. E ancora: «A me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo» –, ma anche sui fili misteriosi che legano da sempre Arte e Società: «la società, per come la vedo io, è una specie di mastodontico apparato digerente, che tritura qualunque cosa gli entri nella bocca. Questo smisurato appetito può ingollare un Botticelli in un sol boccone, con una voracità da terrorizzare tutti tranne il guardiano di uno zoo. Perché l'arte è così masochista, così desiderosa di essere punita? Perché è così ansiosa di finire dentro quelle gigantesche fauci?». Sfogliare queste pagine sarà allora un po' come affacciarsi al Cedar – il bar dell'Ottava Strada dove, in compagnia di personaggi come Pollock, Rauschenberg o de Kooning, Feldman trascorreva notti intere in discussioni accanite – e fermarsi ad ascoltare una voce che una volta sentita difficilmente si potrà dimenticare.

Se il suono spodesta l'idea

Per Morton Feldman la musica sfugge a ogni sistema «No alle pretese autoritarie di Boulez e Schoenberg»

di Mario Andrea Rigoni Corriere 10.3.13

Benché fossi stato da sempre un ammiratore istintivo, qualche volta estatico, delle musiche del compositore americano Morton Feldman, non immaginavo che la raccolta dei suoi brevi scritti, per lo più di carattere occasionale, adesso pubblicati da Adelphi sotto il titolo quanto mai appropriato di Pensieri verticali (traduzione di Adriana Bottini, pp. 306, 30), avrebbero costituito una lettura tanto rivoluzionaria, elettrizzante e poetica.
Tutti gli artisti, musicisti compresi, inseguono costantemente un'idea: il genio di Feldman è stato invece quello di andare alla ricerca di una non-idea. Chi abbia un minimo di familiarità con la storia dell'estetica sa che, quantunque Feldman non citi mai Wackenroder o E.T.A. Hoffmann o Schopenhauer, in ogni caso la sua posizione rimanda alla scoperta romantica della musica assoluta, ossia all'esaltazione della musica strumentale come arte suprema in quanto arte extraconcettuale: a differenza della letteratura e dell'arte figurativa, ineluttabilmente complici del concetto, la musica si sottrae alla sfera del significato e, proprio per questo, è la sola arte capace di affacciarsi sull'essenza metafisica del mondo.
Ma la singolarità e l'interesse sia della riflessione sia della musica di Feldman consistono nell'aver compiuto un passo ulteriore rispetto al romanticismo nel cui cerchio noi, in realtà, ancora e sempre viviamo e operiamo: sulle tracce di Varèse, al quale riconosce il merito di avergli fatto intuire «come si può separare il talento dai modelli e dalle estetiche», Feldman cerca il suono puro, il suono isolato, il suono sottratto alla costruzione e al sistema. Ciò comporta svariate conseguenze, innanzitutto una diversa esperienza del tempo, che Feldman descrive con una di quelle fulminee metafore che fanno di lui anche un eccellente scrittore aforistico. Infastidito dall'uso di organizzare, manipolare e scandire questa esperienza, egli osserva: «Se devo essere sincero, questo modo di considerare il Tempo mi annoia. Non sono mica un orologiaio. A me interessa arrivare al Tempo nella sua esistenza non strutturata. Vale a dire, a me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo».
La metafora animale non si insinua per caso, dato che l'espressionismo astratto di Feldman e del suo gruppo di amici (John Cage, Earle Brown, Christian Wolff e David Tudor), che dall'inizio degli anni Cinquanta intendevano proporre una musica indeterminata, implica un abbandono della storia: «Quello che facevamo non voleva essere una protesta contro il passato. Ribellarsi alla Storia è pur sempre segno di coinvolgimento. Noi, semplicemente, non provavamo interesse per i processi storici. A noi importava il suono in sé. E il suono è ignaro di Storia». Tanta aerea indipendenza e libertà si pone in inevitabile antitesi con la scuola di Darmstadt: «Alla stessa stregua, il nostro lavoro non possedeva l'autoritarismo, starei per dire l'elemento di terrorismo, insiti negli insegnamenti di Boulez, di Schoenberg e ora di Stockhausen». La faccenda si può anche riassumere in questo aforisma: «Stockhausen crede in Hegel; io credo in Dio. Tutto qui». In tale prospettiva Feldman non risparmia del tutto il suo meraviglioso maestro e amico John Cage: «Luigi Nono vuole che tutti si indignino. John Cage vuole che tutti siano felici. Entrambe sono forme di dispotismo, anche se noi ovviamente preferiamo quella di Cage». All'artista non si può chiedere di interessarsi della società perché questo non può essere il suo mestiere né il suo dovere: «Chiedere a noi di parlare della società è come chiedere un fiammifero a qualcuno che sta reggendo una pila di piatti». L'artista, nella fattispecie il musicista, deve sprofondare dentro il suo materiale, la sua atmosfera, il suo strumento, dai quali soltanto può venire quel contributo personale che è la sola cosa che conti. D'altronde proprio questo tipo di artista antiaccademico, apparentemente disimpegnato e tipicamente americano (Feldman era uno che lavorava nell'azienda paterna di abbigliamento per bambini), può avere la serietà d'impartire una lezione morale anche all'Europa: «Soltanto in Europa si trovano persone così: che fanno una rivoluzione radicale, ghigliottinano a destra e a manca tutti quelli che non sono d'accordo, e poi dicono: scusate, abbiamo cambiato idea».
Il libro di Feldman, accompagnato da un'introduzione di B.H. Friedman, da una postfazione di Frank O'Hara e una nota, al solito acuta, di Mario Bortolotto, offre svariate suggestioni, a incominciare dall'aspetto biografico del falstaffiano autore. Feldman, un omaccione alto un metro e ottanta, taglia da centotrenta chili, avido amante della vita, lettore tenace, si interessa vivamente di pittura frequentando Rothko, Pollock, Rauschenberg, Philip Guston, le cui opere in effetti presentano affinità con la sua musica. Rothko Chapel, una delle sue composizioni più note, ispirata alle quattordici austere, mistiche tele che Rothko dipinse per la Cappella de Menil a Houston, esemplifica magnificamente questo rapporto, al tempo stesso in cui mostra come il suono, svincolato da tutto al di fuori che dalla propria tensione o dalla propria stasi, si libra in «una processione immobile, un po' come nei fregi dei templi greci».
Infine, oggi che non sembra esserci più niente tanto nella musica quanto nell'arte, come non provare un piccolo spasmo al cuore pensando agli anni in cui nel Village succedevano ancora tutte queste cose?

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