giovedì 4 aprile 2013

Tradotto un nuovo libro misticheggiante del filosofo conservatore Roger Scruton


Copertina di 'Il volto di Dio'
Roger Scruton: Il volto di Dio, traduzione di Stefano Galli, Vita e pensiero, pagg. 200 euro 18

Nel suo nuovo saggio, “Il volto di Dio”, Roger Scruton spiega come metafisica e religione possono ancora dare risposte alla nostra profonda condizione di solitudine
Il senso dell’uomo per la colpa

Perché abbiamo continuo bisogno di perdono

di Roger Scruton Repubblica 4.4.13


Gli esseri umani soffrono la solitudine in ogni circostanza della loro esistenza terrena. Possono sentirsi soli anche in compagnia; possono entrare in una stanza piena di persone amichevoli e scoprire che ciò aumenta il loro senso di solitudine; possono sentirsi soli perfino quando sono con un amico o con il coniuge. C’è quindi una solitudine umana che proviene da una sorgente diversa dalla mancanza di compagnia, un fatto che giustamente i mistici hanno formulato in termini metafisici. Lo iato tra l’essere autocosciente e il suo mondo non può essere superato da qualsivoglia processo naturale. Si tratta di un’inadeguatezza soprannaturale, che solo la grazia può correggere.
Sono arrivato con riluttanza a tale conclusione, e intendo completare le mie considerazioni dicendo qualcosa sulla presenza di Dio in questo mondo, e sul perché la nostra incapacità di trovarlo sia causa di un’inquietudine così profonda. Molti pensatori sono pervenuti a questa posizione, ma i tentativi di trovarle fondamento incorrono in difficoltà logiche e metafisiche. Forse non esiste un modo di affermarla che non sia viziato da imperfezioni fatali. Gli autori che vedono la solitudine esistenziale dell’uomo come la vedo io, cioè come l’aspirazione a dissolversi nella soggettività di Dio, ne hanno scritto in modo così oscuro da farmi dubitare di essere in grado di far meglio. Penso a Kierkegaard, Lévinas e Berdjaev, e anche a Hegel, la cui visione esce rinforzata proprio dai violenti attacchi che essi le hanno rivolto.
Hegel sosteneva che noi, creature autocoscienti, diventiamo ciò che essenzialmente siamo grazie a un processo di conflitto e soluzione. L’autocoscienza esiste in noi come una condizione da realizzare, e noi la acquisiamo attraverso l’Entäusserung, ossia la costruzione della pubblica arena in cui può aver luogo il dialogo tra il sé e l’altro. Il sé diventa reale grazie al riconoscimento dell’altro. Linguaggio, istituzioni, leggi sono i veicoli attraverso cui si perviene alla Selbstbestimmung, la certezza di sé, che è anche limitazione di sé e riconoscimento del confine tra il sé e l’altro. Vedermi come altro per l’altro mi situa anche in un rapporto di alterità a me stesso, e questo è il “momento”, per esprimersi come Hegel, dell’autoalienazione, in cui i soggetti diventano estranei a se stessi, vincolati da leggi esterne, impediti nella loro libertà e in rivolta contro le costrizioni esterne.
Una frattura fatale divide così il nostro mondo, la frattura tra soggetto e oggetto che si apre dentro di noi.
Riparare quella frattura significa conciliare il mio sguardo da qualche luogo con gli sguardi altrui da cui sono circondato, in modo che ciò che sono agli occhi degli altri diventi compatibile con ciò che sono per me. Secondo Hegel ciò accade oggettivamente tramite le leggi e le istituzioni e soggettivamente tramite l’arte e la religione. Sono questi i modi in cui torniamo a collegarci al mondo dal quale la nostra lotta per la libertà e la conoscenza di sé ci ha separati. Hölderlin ha in parte espresso questo modo di vedere con i suoi inni al luogo natio e al ritorno a casa — un andar via che è anche un tornare indietro. Questo suo viaggio spirituale è stato riproposto in epoca più recente, e nel contesto di una mutata geografia delle emozioni, nei Quattro Quartetti di T. S. Eliot. Per il credente il viaggio d’uscita, verso l’alienazione (espresso, nella tradizione ebraica e cristiana, dal racconto del peccato originale e della cacciata dal paradiso terrestre) richiede il viaggio opposto verso la redenzione. Sant’Agostino ha espresso questa esigenza con la famosa formula «inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te» (Confessioni I, 1). Lo stesso hanno fatto i mistici del sufismo con le loro invocazioni dell’Unità come fonte della luce concessa al murhid, la guida spirituale. Ed effettivamente molte grandi religioni sembrano avere la struttura della dialettica hegeliana:  un’innocenza originaria, in cui l’anima è unita al mondo e al suo creatore; una “caduta” o ribellione, in cui l’anima si “realizza” come li- bero individuo, ma è anche condannata all’insoddisfazione; un ritorno finale al luogo natio attraverso la disciplina e il sacrificio per riconquistare l’armonia con il cosmo (redenti dal Salvatore, liberati nel Nirvana, tra le braccia del Brahman, o semplicemente addormentati con gli antenati nel luogo dell’ultimo riposo).
La solitudine metafisica del soggetto non è una condizione storicamente passeggera, ma un universale umano. La creatura con pensieri-“io” è responsabile verso gli altri e vede se stessa da fuori, come un altro agli occhi degli altri. L’eterno tentativo di unire il sé che giudica e l’altro che è giudicato è il modo di vivere religioso: tutte le grandi religioni sono strategie per compiere questa impresa di tornare a «quel fuoco che affina /ove devi muovere in cadenza, come danzatore» (T. S. Eliot, Little Gidding). Ogni religione promette l’unificazione con il cosmo, indica in pietas e ubbidienza i mezzi con cui ottenerla, discrimina tra puro e impuro, ha tempi, luoghi e riti sacri grazie ai quali l’eterno può essere incontrato nel tempo e l’individuo può venir purificato e redento. Ogni religione dà all’individuo il conforto di una comunità stabile. Tutte queste caratteristiche della religione sono conseguenze di una imprescindibile condizione metafisica: quella di creature che devono dare conto di ciò che sono e fanno e che cercano di meritare e ricevere perdono e approvazione.
La religione ha perciò inizio nell’esperienza della comunità e nel desiderio di riconciliarci con coloro che ci giudicano, perché la loro benevolenza ci è necessaria. Colpa, vergogna e rimorso sono aspetti necessari della condizione umana. Sono il residuo dei nostri errori e il segno che siamo liberi di commetterli. Ma ci guidano anche a una più alta forma di riconciliazione; una riconciliazione in cui la nostra colpa è pienamente riconosciuta e perdonata. Per l’ateo questa aspirazione dev’essere negata o al limite rivolta in direzione dello stoicismo — la direzione di chi accetta il destino, conseguendo così un altro tipo di unità tra sé e il mondo. Per il credente, invece, la redenzione è un’emancipazione dalle cose di questo mondo e un’identificazione con un trascendente IO SONO. Per chi ha fede in Dio, questa è la consolazione delle afflizioni umane. Le sofferenze derivano dal carico di responsabilità che ci assumiamo come membri della nostra comunità. La colpa è il prezzo della nostra soggettività, e la soggettività di Dio è la sua cura.

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