Abituati da sempre a cercare l'appoggio dei sovrani dei vari Paesi "accettarono" i ghetti e i lager. E a volte collaborarono con i carnefici
mercoledì 15 maggio 2013
Ebraismo e potere nella storia
Gli ebrei protetti dai re ma detestati dalla plebeI precedenti impedirono di capire la minaccia di Hitler
di Paolo Mieli Corriere 14.5.13
C'
è un grande mistero nella storia della Shoah. Come è possibile che nel
1940, quando il ghetto di Varsavia ormai stracolmo fu sigillato dai
nazisti, ci furono ebrei che dissero di provare «quasi un senso di
sollievo»? E cosa spinse alcuni di loro a cooperare con gli aguzzini
nell'amministrazione dei ghetti? Queste domande se le è poste Yosef
Hayim Yerushalmi — il più grande studioso di storia e cultura ebraica
del Novecento (è scomparso nel 2009), già docente alla Columbia
University, nonché autore di Zakhor e di Assimilazione e antisemitismo
razziale: i modelli iberico e tedesco (pubblicati entrambi da La
Giuntina). Come risposta, Yerushalmi ha ipotizzato che ciò sia accaduto
perché a quegli ebrei poteva sembrare che «la loro situazione, fino ad
allora incerta, dovesse in quel momento diventare stabile e definitiva».
Dopotutto i ghetti non erano una novità e gli israeliti erano
sopravvissuti per secoli anche a quelli. E infatti, quando erano state
emanate le leggi di Norimberga, per un «equivoco comprensibile», esse
furono recepite in ambito ebraico come un «ritorno al Medioevo». Talché
«gli ebrei avrebbero lavorato, come già facevano, per le industrie
tedesche»; quindi in fin dei conti sarebbero stati «utili» e,
considerata la loro «utilità», chi poteva immaginare che qualcuno
potesse avere davvero in mente di eliminarli tutti? Fu così che, a
Varsavia, i primi testimoni oculari di quanto stava accadendo a
Treblinka non furono creduti. Solo quando lo stesso ghetto della
capitale polacca «iniziò ad assomigliare a un campo di sterminio»,
soltanto dopo che dei 430 mila ebrei ne rimase in vita meno del 10 per
cento e si ebbe la certezza che i nazisti miravano alla loro
eliminazione totale, solo allora scoppiò la rivolta.
La prima a
sollevare questo tema era stata Hannah Arendt in La banalità del male
(Feltrinelli), volume che, com'è noto, riproponeva, nel 1963, i
reportage per il «New Yorker» dal processo di Gerusalemme al criminale
nazista Adolf Eichmann (il titolo originale del libro era, appunto,
Eichmann in Jerusalem; ne nacque un caso di cui si è occupato Pierluigi
Battista su queste colonne il 30 marzo scorso). La Arendt si era spinta
molto in là e, riferendosi agli Judenrat (i Consigli ebraici), aveva
scritto: «Ovunque c'erano ebrei, c'erano stati capi ebrei riconosciuti, e
questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un
modo o in un altro, per una ragione o per l'altra; la verità vera era
che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza
capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime
non sarebbero state quasi sei milioni». La scrittrice rimproverava a Leo
Baeck, presidente onorario del Consiglio degli anziani del lager di
Theresienstadt, di non aver rivelato ai suoi fratelli, in procinto di
lasciare il campo, che ad Auschwitz sarebbero stati uccisi con il gas.
Parole che provocarono reazioni assai indispettite anche da parte di
intellettuali ebrei fino a quel momento amici della Arendt.
Un tema
che fa discutere ancora oggi. Anche dopo gli studi di Isaiah Trunk e di
altri (tra cui Gustavo Corni con l'esauriente I ghetti di Hitler, edito
da Il Mulino), dai quali si sono conosciute meglio alcune vicende assai
particolari. Come quella di Mordechai Chaim Rumkowski, presidente dello
Judenrat del ghetto di Lodz, il quale aveva atteggiamenti da despota, si
aggirava per le strade «incedendo come un re» e mostrava tutti i
sintomi di una «megalomania patologica». O di quei poliziotti ebrei nei
ghetti che divennero tristemente noti per la loro brutalità. Ma anche,
in modo opposto, del presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, Adam
Czerniakov, che si suicidò il secondo giorno della massiccia
deportazione del luglio 1942. Quello stesso anno ci furono due tentativi
— di cui il primo riuscito — di suicidio collettivo di un intero
Consiglio (a Bereza Kartuska e a Pruzana). Iniziativa, peraltro,
criticata dagli abitanti del ghetto. «Si riteneva», ha scritto Trunk,
«che l'intellighenzia non avrebbe dovuto abbandonare la comunità,
arrendendosi alla disperazione anziché servire da esempio per preservare
la comunità stessa da un crollo spirituale in quei momenti cruciali».
Quegli
ebrei, ha detto anni fa in una conferenza a Monaco Yosef Hayim
Yerushalmi (conferenza il cui testo integrale, magistralmente tradotto
da Paola Buscaglione Candela, è adesso pubblicato da La Giuntina,
insieme a un'acuta introduzione di David Bidussa, con il titolo
Servitori di re e non servitori di servitori. Alcuni aspetti della
storia politica degli ebrei), ragionando e comportandosi in quel modo,
«seguivano semplicemente il modello millenario del rapporto della
dirigenza ebraica con il potere; gli uomini che giornalmente andavano a
trattare con le SS o con la Gestapo, intendevano il loro ruolo in modo
sostanzialmente non diverso da Filone quando andava a incontrare
Caligola». Filone? Caligola? In che senso?
Con un salto indietro di
diciannove secoli ci spostiamo, con Yerushalmi, ad Alessandria d'Egitto
negli anni immediatamente successivi alla morte di Cristo. Ad
Alessandria viveva una vasta e fiorente comunità ebraica, in possesso da
tempo «di ampi privilegi che dovevano essere attentamente
salvaguardati». Benché culturalmente assimilati, gli ebrei di
Alessandria erano separati dalla popolazione greca pagana per
l'irriducibile unicità del loro monoteismo, «una diversità spesso
aggravata da rivalità economiche». Gli indigeni, egiziani non
ellenizzati, «non riuscivano in alcun modo a sollevarsi dalla loro
condizione di degrado e oppressione, mentre le colonie di stranieri
presenti in città non avevano nessuna ragione speciale per fare causa
comune con gli ebrei». Date queste circostanze, non c'è da meravigliarsi
che gli ebrei di Alessandria guardassero a Roma — piuttosto che alle
altre comunità o ai rappresentanti in loco del sovrano — come «garante
dei loro diritti». Nel 38 d.C. accadde che una folla di greci tentasse
di far entrare a forza nella sinagoga immagini dell'imperatore. Gli
ebrei resistettero, contro di loro si scatenò un pogrom e nessuno cercò
di impedirlo. Fu allora che il grande filosofo ebreo Filone andò a Roma
dall'imperatore, Gaio Caligola, a denunciare l'accaduto, nonché il
mancato sostegno alla sua gente da parte di Flacco, prefetto romano ad
Alessandria. Caligola concesse poco, quasi nulla. Ma quel poco o nulla
fu sufficiente a Filone per definirlo «salvatore» e «benefattore».
Già
duemila anni fa, si può affermare, gli israeliti scelsero di
privilegiare le alleanze verticali (con i re) a dispetto di quelle
orizzontali (con gli altri popoli). Del resto lo aveva notato proprio
Hannah Arendt, in un altro suo fondamentale volume, Le origini del
totalitarismo (Edizioni di Comunità), laddove aveva messo in luce che
gli ebrei «si rifacevano alle esperienze fatte sotto la protezione
dell'Impero romano e più tardi durante il Medioevo, quando la loro
esistenza era stata più o meno garantita dai monarchi e dalla Chiesa».
Allora «avevano imparato che in qualche modo era meglio dipendere dalle
massime autorità di un Paese che trovarsi alla mercé delle autorità
locali, che l'effettivo pericolo era sempre costituito dal popolaccio».
In realtà era stato così da molto prima di Filone e Caligola, fin dai
tempi dell'esilio babilonese e, precedentemente, in Egitto.
«Essenzialmente, l'archetipo dell'ebreo di corte si può ritrovare già
nella stessa Bibbia ebraica e da allora ha costituito gran parte della
memoria e della coscienza collettive dell'ebraismo… Un esempio di questo
archetipo nella Bibbia è Giuseppe che salva l'Egitto dalla carestia,
riuscendo così a portare contemporaneamente al sicuro i suoi
confratelli; oppure Mordechai che, nel Libro di Ester, salva la vita del
re Assuero e, come conseguenza, riscatta gli ebrei persiani».
Poi in
età romana — a parte tre grandi rivolte ebraiche, tutte di natura
messianica e tutte represse nel sangue — fra israeliti e Stato (ma anche
Chiesa) si creò un regime di convinta convivenza. «Il giudaismo»,
osserva Yerushalmi, «fu religio licita sia agli occhi dello Stato che
della Chiesa; le sinagoghe, benché a volte distrutte da folle di
fanatici cristiani, venivano protette». E badate che «le cose sarebbero
potute andare diversamente, se il giudaismo fosse stato dichiarato
un'eresia; in quel caso niente avrebbe potuto impedire la conversione
forzata o la totale, deliberata eliminazione fisica degli ebrei».
Dopo
la caduta di Roma, poi, «l'essenziale politica di tolleranza, con le
sue connesse ambiguità, venne assorbita dal Medioevo». Ed è nel Medioevo
che si sviluppano nella loro pienezza le dinamiche dell'«alleanza
regia», al centro dell'interesse di questo libro. Negli statuti emanati
da Carlo Magno e da Ludovico il Pio gli ebrei «appartengono»
all'imperatore. Si stabilisce addirittura che se un ebreo viene ucciso,
l'uccisore paghi l'enorme somma di dieci libbre d'oro — praticamente il
doppio di quel che l'omicida avrebbe dovuto sborsare se avesse
assassinato un cavaliere cristiano — perché il denaro andava a finire
direttamente nell'erario imperiale. E, dopo l'anno Mille, è tutto un
fiorire di concessioni agli ebrei che ogni sovrano, per darsi lustro,
vuole attirare sulle proprie terre. «Basterà dire», scrive Yerushalmi,
«che tutti gli statuti — come del resto la legislazione corrente
relativa agli ebrei — rispondono allo stesso modello: mostrano cioè,
assieme a restrizioni variabili, l'impegno delle autorità centrali a
mantenere e proteggere i diritti basilari della vita degli ebrei stessi,
le loro proprietà nonché l'autorizzazione a praticare la loro
religione».
E la Chiesa? Per il mondo cristiano vale più o meno lo
stesso discorso. Un «Editto in favore degli ebrei» fu emanato da
Callisto II agli inizi del XII secolo per poi ricevere forma definitiva
nel 1199 da Innocenzo III. Sì Innocenzo III, un Papa non certo tenero
nei confronti degli israeliti, che nel 1215 avrebbe presieduto il IV
Concilio lateranense, a partire dal quale agli ebrei sarebbe stato
imposto di portare un contrassegno. Eppure, «in modo solo apparentemente
paradossale», papa Innocenzo si esprime con queste parole: «Benché la
perfidia ebraica sia sotto tutti gli aspetti meritevole di condanna,
tuttavia, poiché attraverso loro è provata la verità della nostra fede,
loro non devono essere duramente oppressi dai credenti». E così, proprio
come non si dovrebbero autorizzare gli ebrei a fare nelle loro
sinagoghe «più di quello che la legge loro consente», così «non
dovrebbero subire limitazioni dei privilegi loro concessi». In qualche
modo con queste formulazioni si annunciava per loro una forma di
protezione. Papa Gregorio IX giunse a protestare con il re di Francia
Luigi IX per i maltrattamenti subiti da alcuni suoi sudditi ebrei,
vessazioni di cui era stato edotto da una loro «lacrimevole e commovente
lagnanza». E fu così che «in epoche di tensioni o pericolo, gli ebrei
in definitiva guardarono come protettori non solo ai re, ma anche ai
Papi».
Tale circostanza portò alla costruzione di una tela di
rapporti molto importanti tra ebrei, sovrani e Papi, ma soprattutto alla
nascita di una nuova categoria sociale, quella dei rappresentanti del
mondo ebraico: «Chi negoziava gli statuti, chi trattava con i re e i
nobili, quando i diritti riconosciuti per tradizione agli ebrei venivano
violati, chi altri portava davanti al Papa le "lacrime" degli ebrei
francesi se non i capi riconosciuti delle comunità ebraiche e i loro
delegati ed emissari?». Tutto questo e altro ancora, scrive Yerushalmi,
«fa parte di una storia, non ancora raccontata, della diplomazia
israelitica che, una volta scritta, dovrebbe demolire definitivamente il
mito della passività ebraica nei confronti della storia». A partire dal
califfato di Cordova (X secolo) fino al 1492, cioè per oltre cinque
secoli, «gli ebrei servirono fedelmente i loro governanti sia musulmani
che cristiani, non solo come esattori delle tasse e finanziatori, ma
come consiglieri, diplomatici, traduttori e medici». Persone interamente
dedicate, per centinaia di anni, a cementare il patto tra popolo e
sovrano.
Nell'Europa medievale l'«alleanza regia» fu basata sul
presupposto che gli ebrei «appartenessero» al re. Addirittura al suo
«erario», come specificava, nel 1157, lo statuto di Worms, su
disposizione di Federico Barbarossa. Termine, «erario», che «ha fatto
scorrere fiumi di inchiostro erudito e ha tratto molti in errore».
Secondo Yerushalmi quell'espressione non significa che gli ebrei si
trovavano letteralmente nella condizione di servi e questo «dovrebbe
essere chiaro a chiunque conosca la reale situazione della vita
medievale ebraica»: gli ebrei non furono mai vincolati alla terra,
nessuno fu ridotto in schiavitù; in linea di principio, tutti avevano
libertà di movimento e «il loro stile di vita si avvicinava più che
altro a quello dei cittadini».
Fu Yitzchak Arama, nel XV secolo, a
spiegare nel modo migliore ciò che questa servitus judaeorum significava
davvero: era stato deciso dalla divina Provvidenza che gli ebrei,
dispersi per il mondo, non dovessero essere assoggettati a normali
padroni, bensì «dovessero rimanere nelle mani dei sovrani della terra
così da essere servitori dei re e non servitori dei servitori (di qui il
titolo del libro di Yerushalmi, ndr)». Un privilegio, dunque. «Chi è un
vassallo dei nobili del monarca non è in condizione così elevata come
un vassallo del re, perché il vassallo del re è temuto anche dai nobili e
dai ministri, a causa del rispetto a cui i nobili sono tenuti nei
confronti dello stesso re», ha chiosato Bahya ben Asher. Quel genere di
servitù è insomma ai loro occhi una condizione tutta positiva. «Anziché
vedere la loro servitù nei confronti del re come un'umiliazione», scrive
Yerushalmi, «loro, ma anche altri, la vedono come un segno di
condizione elevata, qualcosa da incrementare».
Fu Shelomoh Ibn Adret,
rabbino di Barcellona nel XIII secolo, a spiegare bene i termini della
questione. I re gentili «possiedono» la loro terra e con essa gli ebrei
che la abitano. Agli ebrei è consentito di vivere su quella terra se si
sottomettono alla volontà del sovrano che, se volesse, potrebbe
espellerli. Perciò gli ebrei sono «obbligati» a ubbidire ai decreti del
re, con l'eccezione del caso in cui tali decreti violino la legge
mosaica. È importante perché Ibn Adret era ben consapevole del fatto che
«nei regni spagnoli non operava solo la legge del re, ma esistevano sia
una miriade di norme consuetudinarie, spesso in conflitto l'una con
l'altra, sia privilegi di nobili, municipalità, regioni». Trovandosi in
questo «labirinto di leggi», gli ebrei dovevano convincersi che «quanto
più grande era il numero di giurisdizioni al di sopra di loro, tanto
maggiori sarebbero stati gli obblighi e le tasse, e tanto più incombente
il rischio di essere vessati dalle autorità locali». Era quindi
fondamentale accentuare la propria obbedienza alle «leggi del re» e
contrastare apertamente le «leggi degli altri».
Dopodiché, racconta
Yerushalmi, l'«alleanza regia» fu soprattutto un modello ideale e le
realtà si fecero via via più complicate. Nei regni spagnoli, gli ebrei,
«con tutti i loro redditi», venivano talvolta «passati» dal re ai grandi
ordini militari piuttosto che a nobili con cui il sovrano si era
indebitato o dai quali aveva bisogno di essere sostenuto. In Francia
erano spesso sotto la giurisdizione dei baroni, «benché nel XIII secolo
la centralizzazione del regno avesse ristabilito la maggior parte delle
prerogative del re». In Polonia, a partire dal XVI secolo, la nobiltà
divenne più potente dello stesso monarca, spesso acquisendo un diretto
controllo sugli ebrei. Sicché talvolta la protezione «pur genuina» del
Papa o del re, giungeva troppo tardi o non riusciva a essere efficace.
Ci
furono due casi, poi, in cui l'alleanza regia si spezzò del tutto: con
Sisebut nella Spagna visigota del 613 e, poco meno di nove secoli dopo,
con Manuel del Portogallo (1497), allorché i sovrani ordinarono la
conversione forzata di tutti gli ebrei che vivevano nei loro regni.
Inoltre, a partire dal 1290, dapprima in Inghilterra, intere comunità
ebraiche vennero espulse dal Paese, «in una catena che sarebbe terminata
con la cacciata dalla Spagna del 1492». Ma, secondo Yerushalmi, nessuno
di questi avvenimenti «riuscì ad alterare nella loro essenza le varie
dinamiche o la comprensione che gli ebrei avevano dell'"alleanza
regia"». Soprattutto in Spagna. Come è ben descritto nello Shevet
Yehudah («Lo scettro di Giuda») scritto da Shelomoh Ibn Verga, vissuto a
cavallo tra il Quattro e il Cinquecento. Agli occhi di Ibn Verga, «i re
e in genere i funzionari regi sono sempre appassionati protettori degli
ebrei contro gli attacchi della plebaglia». Se gli ebrei non si
salvano, «non è per malvolere del re, ma per l'ostinazione e il potere
della plebe». Caso esemplare, secondo Ibn Verga, è quello di Gonzalo
Martinez de Oviedo, che suggerisce ad Alfonso XI di espellere gli ebrei;
insiste, insiste ancora finché l'arcivescovo di Toledo lo apostrofa con
le seguenti parole: «Avete attirato la vergogna sulla vostra casa,
perché veramente gli ebrei sono un tesoro per il re, un buon tesoro… Ma
voi cercate di distruggerli e spingete il re a fare ciò che suo padre
non fece; non siete un nemico degli ebrei, ma del re!».
Dunque, trono
e altare sono (e devono restare) un punto di riferimento per gli ebrei,
a difesa dal vero nemico, il popolino con i suoi mutevoli umori. E, se è
vero che, come si è detto, ci furono i sovrani che fecero atti a danno
degli ebrei, quei re vanno tenuti nel conto di «rare eccezioni». E le
espulsioni in massa successive al 1492? «Le espulsioni», scrive Ibn
Verga, «furono decise solo a causa di alcuni delle classi inferiori i
quali sostenevano che, con l'arrivo degli ebrei nel regno, il loro cibo
costava di più e che inoltre gli ebrei danneggiavano i loro commerci».
Le espulsioni «erano dovute anche ai preti, perché questi, volendo
esibire la loro religiosità e mostrare al popolo che intendevano onorare
ed esaltare la religione di Gesù Nazareno, predicavano ogni giorno
cattiverie contro gli ebrei». Ma «dagli altri cristiani essi erano
onorati benché vivessero in quel loro Paese ed erano da loro molto amati
come sanno bene gli anziani di Spagna». Dunque: re, aristocrazia, Papa e
alti prelati erano gli amici; masse e basso clero, i nemici. In più,
prosegue Yerushalmi, «è storicamente rilevante la circostanza che dopo
il 1492, nelle comunità di rifugiati dell'Impero ottomano, i sultani
turchi venissero celebrati come salvatori».
Che cosa rimase di questa
lunga esperienza medievale nelle menti degli ebrei? Resta «che in un
mondo relativo», risponde l'autore, «le alleanze verticali erano
generalmente le più favorevoli per loro; che tali alleanze erano fondate
sull'utilità degli ebrei per i loro governanti; che se in qualsiasi
momento i governanti non li avessero più ritenuti utili, la diplomazia,
le lobby, perfino una vera e propria corruzione, potevano talvolta
allontanare una dura sentenza; che se tutto il resto crollava e veniva
meno, le peggiori misure di cui era capace lo Stato medievale erano il
battesimo forzato (un'eccezione, storicamente) o l'espulsione, cose
abbastanza tremende, ma meglio di un massacro… Nessun re medievale lo
prescrisse mai, nessun Papa lo autorizzò, dove si verificò, non fu
ordinato dall'alto».
Man mano che passavano i secoli, poi,
l'«alleanza regia» si confermava per gli ebrei la soluzione migliore. In
tutti i regimi. Prima, durante e dopo la Rivoluzione francese, quando
gli eserciti napoleonici esportarono la prima, importante esperienza di
emancipazione degli ebrei in Italia, in Olanda, in parte della Germania e
della Polonia. «La Germania è la nostra Sion e Düsseldorf la nostra
Gerusalemme!», si sentì di dire un rabbino tedesco nei primi anni
dell'Ottocento. Gli israeliti riconoscevano «che il raggiungimento
dell'uguaglianza civile e politica dipendeva non solo dalla nascita di
Stati-nazione, ma da quella di Stati unificati, perché solo uno Stato
centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro diritti». Il re con
cui stipulare un patto di alleanza doveva essere uno e uno solo. Così
gli ebrei appoggiarono l'unificazione dell'Italia e della Germania,
proprio come nel XV secolo avevano sostenuto l'unione di Aragona e
Castiglia sotto Ferdinando e Isabella. E ritennero che ci avrebbero
pensato gli Stati a debellare l'antisemitismo.
Lo schema
dell'«alleanza regia» portò gli ebrei, nei secoli, a sovrapporre la
propria immagine a quella dello Stato in cui risiedevano. Con alcune
conseguenze impreviste e, per loro, assai negative. Qualcosa che Hannah
Arendt ha efficacemente descritto: «In più di cent'anni (tra la metà
dell'Ottocento e quella del secolo successivo, ndr) l'antisemitismo
aveva lentamente fatto presa in uno strato dopo l'altro di quasi tutti i
Paesi europei, finché all'improvviso si presentò come la piattaforma su
cui si poteva ottenere l'unità dell'opinione pubblica,
irrimediabilmente divisa su tutti gli altri problemi; la legge secondo
cui si era svolto questo processo era semplice: ogni classe della
società che era venuta a trovarsi in conflitto con lo Stato in quanto
tale era diventata antisemita, perché l'unico gruppo sociale che
sembrava rappresentare lo Stato erano gli ebrei».
A quel punto gli
ebrei sovrastimarono i possibili effetti benefici dell'«alleanza regia»,
sottostimando nel contempo i fenomeni di ostilità al loro popolo. Del
resto, spiega Yerushalmi, «nel corso di tutta la loro esperienza storica
non esiste nulla che li abbia preparati intellettualmente o
psicologicamente a quanto accadde tra il 1940 e il 1945; i governanti
hanno saputo opprimere gli ebrei in vari modi, ma mai, né nell'età
antica, né nel Medioevo, una distruzione totale era stata imposta
dall'alto». Già, e i pogrom russi? Non furono riconducibili agli zar —
risponde Yerushalmi —, zar che li costrinsero sì in quel ghetto che fu
denominato «zona di residenza obbligata», li vessarono in mille modi, ma
non furono in nessuna maniera responsabili né dei pogrom del 1881 né di
quello terribile di Kishinëv del 1903.
Yerushalmi si spinge fino ad
assolvere in qualche modo il regime spagnolo di Francisco Franco
(«durante la Seconda guerra mondiale, salvò circa cinquantamila ebrei») e
persino l'Italia fascista: «Il massimo cui arrivò Mussolini furono le
leggi razziali del 1938, ma l'eliminazione finale di un quinto degli
ebrei italiani non fu opera sua», scrive. Parole che, immaginiamo,
provocheranno qualche reazione di sdegno o quanto meno una discussione
accesa.
Così come farà discutere quel che l'autore dice dei secoli
che precedettero l'età moderna: «Nonostante fosse un'epoca terribile, il
Medioevo, almeno ai massimi livelli di potere, conosceva ancora dei
limiti che non si potevano oltrepassare». Limiti che furono ampiamente
superati, invece, nel Novecento. E lo sono tuttora. Detto tutto ciò,
Yerushalmi chiede di non essere frainteso e sostiene di non nutrire
«alcuna nostalgia per il Medioevo». Dopotutto, aggiunge con una dose di
ironia, «si nasce sempre nel periodo sbagliato». Ma «se non possiamo
scegliere il luogo in cui siamo destinati a vivere, ciò non significa
che dobbiamo accettare come inevitabili le sue depravazioni». E ben si
intende che tali depravazioni, a suo avviso, non sono solo quelle
riconducibili ad Adolf Hitler e ai tempi terribili dell'esperienza
nazista.
Abituati da sempre a cercare l'appoggio dei sovrani dei vari Paesi "accettarono" i ghetti e i lager. E a volte collaborarono con i carnefici
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento