domenica 19 maggio 2013
Massimo Salvadori legge il libro di Giuseppe Bedeschi sulla "Prima Repubblica"
di Massimo L. Salvadori Repubblica 19.5.13
È
passato un ventennio da Tangentopoli, l’evento che pose fine al ciclo
della storia italiana iniziato dopo la fine della Seconda guerra
mondiale. Oggi ci troviamo nel pieno di una nuova crisi di sistema. Si
può ben capire come la riflessione degli studiosi si attivi al fine di
comprendere origini e decorso di una repubblica che, nata nel 1946,
ormai si coniuga in prima, seconda e, già si comincia, terza. Tutte le
crisi di sistema dell’Italia unita — 1919-25, 1943-45, 1992-94 (per
quella presente è ancora troppo presto) — hanno indotto gli storici a
ragionare su cause ed eventi che le hanno determinate.
Negli anni
recenti sono andate moltiplicandosi le opere sugli svolgimenti che dalla
fondazione della democrazia repubblicana hanno condotto alla débâcle
del sistema sorto dall’iniziativa dei partiti antifascisti. Tra queste
prende ora posto La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile, edita da Rubbettino e dovuta alla penna di
Giuseppe Bedeschi, che, avendo al suo attivo libri significativi sulla
storia del liberalismo e del pensiero politico italiano del Novecento,
si propone di analizzare i fattori che hanno reso, appunto, «difficile»
il cammino dell’Italia nel periodo da lui preso in considerazione.
Quattro i principali fattori: essere nata la repubblica democratica da
un’unità antifascista e costituzionale sotto la quale si celavano in
realtà concezioni non conciliabili della democrazia, dello sviluppo
economico e sociale e delle alleanze internazionali; la conseguente
formazione di un sistema politico bloccato, che precludeva normali
alternanze al governo; l’anomalia costituita dalla presenza del più
forte partito comunista d’Occidente; l’avversione prevalente non solo
nella sinistra, ma anche nella Democrazia Cristiana, verso una compiuta
economia di mercato e la comune inclinazione a dilatare il settore
direttamente o indirettamente nella mani dello Stato. Quanto ai momenti
più critici che si sono susseguiti in una nazione dai deboli tessuti
connettivi, a partire dall’inevitabile archiviazione nel 1947 dell’unità
antifascista a livello di governo, basti menzionare: le ripetute
rotture avvenute, prima e dopo il “terribile 1956” nel corpo della
sinistra, divisa da rivalità mai ricomposte, senza che né i comunisti né
i socialisti riuscissero a raggiungere le loro finalità strategiche;
l’inadeguatezza dei progetti riformatori dei governi di centro-sinistra;
l’interminabile ondata di conflittualità politica e sociale
incancrenitasi nei tragici “anni di piombo”; e poi, una volta
indebolitasi la centralità della Dc nei primi anni Ottanta, l’avvitarsi
dei contrasti tra quest’ultima e il Psi di Craxi sfociati nello stallo,
in velleità riformistiche deluse, nel discredito di un potere e di una
società minati dalla corruzione. Dal sommarsi degli effetti del 1989 sul
mondo dell’Est, della fine del confronto tra Urss e Usa e del
prorompere di Tangentopoli è derivata la frana della «democrazia
difficile» incarnata dalla Prima Repubblica.
Ritengo il disegno
tracciato da Bedeschi nel complesso convincente. Ma per quanto concerne
alcuni punti non sono persuaso. Trovo assai unilaterale il drastico
giudizio negativo, di originaria matrice crociana ed einaudiana,
pronunciato sul Partito d’Azione; non mi convince affatto, in tema di
dibattito sull’eredità e sul significato del fascismo, l’adesione
entusiastica data da Bedeschi all’interpretazione di De Felice
(culminata nella tesi che il Mussolini di Salò fu un patriota votatosi a
proteggere l’Italia del Nord dall’occupante nazista); mi pare, infine,
che, nella ricerca delle ragioni che fecero del sistema politico della
Prima Repubblica un sistema “bloccato”, alla giusta sottolineatura delle
responsabilità da attribuirsi al Pci vada accompagnata, con maggior
vigore, quella dovuta alle organiche insufficienze di una classe
dirigente che, dopo lo slancio iniziale degli anni della ricostruzione e
del «miracolo economico», perse largamente per vizi propri la bussola,
contribuendo in maniera determinante a fare del nocciolo duro del
consenso popolare a quel partito e delle sue sempre più sfuggenti
velleità “antisistema” una realtà inamovibile.
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