ARTICOLO - Tiziana Andina il manifesto 2013.10.29 - 10
Ho incontrato per l'ultima volta Arthur C. Danto lo scorso agosto nella
sua casa newyorkese. Il mio vecchio maestro era stanco, ma l'umore era
buono e, nonostante i suoi ottantanove anni e una salute malferma, che
l'aveva portato spesso al ricovero nell'ospedale della Columbia
University, emergeva quella positività del carattere che ne ha fatto un
uomo appassionato, non solo della filosofia e dell'arte ma, soprattutto,
della vita.
Qualche mese fa, per la precisione lo scorso aprile, è
uscito What Art Is (Yale University Press). Mi aveva detto che sarebbe
stato il suo ultimo libro: aveva raccolto le energie fisiche e
intellettuali per terminarlo e per terminare le risposte ai saggi che
ventisette, tra filosofi e critici d'arte di tutto, il mondo hanno
scritto per discutere e omaggiare la sua filosofia. Una monografia
imponente, di oltre 800 pagine, The Philosophy of Arthur C. Danto, edita
da Open Court e contenuta nella collana Library of Living Philosophers,
che ha - tra i suoi compiti - quello di consegnare alcuni uomini alla
storia. Si sono rincorsi a lungo lui e quella monografia: Arthur per
riuscire a rispondere ai suoi critici, i curatori per affrettarne
l'uscita. La monografia uscirà il 12 novembre. È arrivato per primo
Arthur, come sempre.
Arthur Danto è stato un maestro della filosofia e
della critica d'arte e rimarrà tra i grandi nomi del Novecento. Per
raccontarlo, si può semplicemente partire da quella scatola, la Brillo
Box di Andy Warhol, che non ha mai smesso d'incuriosirlo e che aveva
sistemato, in una posizione piuttosto discreta, nel salotto di casa.
Ancora quella scatola, impilata con alcune altre, più o meno allo stesso
modo di come Andy Warhol le aveva sistemate alla Stable Gallery nel
lontano 1964, è l'immagine di copertina di What Art Is, nella versione
più paradossale e giocosa offerta da Mike Bidlo in Not Warhol. Harvey,
Warhol, Bidlo e al centro una scatola: che, nella versione di Harvey, è
un oggetto ordinario e che Warhol e Bidlo trasformano in opera d'arte.
Come è possibile che questo avvenga, in barba alle leggi della logica e,
almeno nel caso dell'opera di Bidlo, al principio della identità degli
indiscernibili di Leibniz secondo il quale se due oggetti hanno le
stesse proprietà, allora si tratta dello stesso oggetto? Se non esiste
alcuna differenza tra un oggetto ordinario e quei ready-made che gli
artisti hanno collocato nei musei, allora la filosofia deve farsi carico
di spiegare perché quegli oggetti sono opere d'arte e, come accade nel
caso delle Brillo di Warhol e di Bidlo, perché sono opere d'arte
diverse. In altre parole, per quale ragione Not Warhol non è
semplicemente una copia di Brillo Box.
La domanda filosofica che
percorre tutti gli scritti di Danto è quindi molto semplice e trova in
Ludwig Wittgenstein, il filosofo a cui non cesserà mai di ispirarsi, una
delle prime formulazioni. Che cosa rimane, si domanda Wittgenstein
nelle Ricerche filosofiche, se sottraiamo il fatto che il mio braccio si
solleva, dal fatto che alzo il mio braccio? Che differenza c'è - per
dirla con il linguaggio del Danto di Analitical Philosophy of Action
(1973) - tra due azioni che paiono indiscernibili, ma che sono
profondamente diverse come il sollevarsi del mio braccio, azione
repentina con la quale scaccio senza nemmeno avvedermene una mosca, e lo
stesso gesto con cui, poniamo, saluto un amico? Wittgenstein aveva
risposto che non c'è nessuna differenza.
Significativamente, molti
anni prima di occuparsi di scatole Brillo, Danto apre il suo testo sulla
filosofia della azione - un lavoro che diventerà seminale per le
ricerche in quella disciplina - con un bellissimo esempio tratto
dall'arte. Un esempio in cui emerge quale fosse il problema degli
indiscernibili nell'ambito della filosofia della azione. Nel ciclo della
Cappella degli Scrovegni, Giotto narra in sei episodi la missione di
Gesù sulla terra. In ciascun episodio Gesù è dipinto in una postura che
lo ritrae con il braccio sollevato e in ogni episodio, l'azione di
sollevare il braccio che pure, figurativamente, è la medesima,
rappresenta cose diverse: Cristo disputa con gli anziani, caccia i
mercanti dal tempio, moltiplica i pani e i pesci, battezza, oppure
ordina a Lazzaro di liberarsi dall'abbraccio della morte. Il gesto è
sempre lo stesso, Cristo che solleva il braccio, mentre ciò che cambia è
l'elemento che ci permette di interpretare l'azione nei modi voluti da
Giotto: il contesto iconografico che indirizza i modi di leggere quella
azione.
Dove bisogna guardare per cogliere la differenza ontologica
che distingue le azioni di base dalle azioni complesse? E dove dobbiamo
guardare per capire che cosa distingue due azioni apparentemente
identiche? Quello che ci chiede di fare Danto - diversamente da quanto
suggerito da Donald Davidson - è di evitare un atteggiamento
riduzionista, di impegnarci cioè a formulare una risposta diversa da
quella che era stata immaginata da Wittgenstein. Per Danto la struttura
logica dell'agire e quella del conoscere (Analitical Philosophy of
Knowledge, 1968) è fondamentalmente la stessa, ed è ancora questa
struttura che egli individua alla base del problema degli
indiscernibili, così come ha preso forma nella produzione artistica
delle avanguardie.
In gioventù Danto è stato artista: un pittore che
amava praticare la pittura tradizionale. Gli inizi della carriera erano
stati promettenti, ma la filosofia lo aveva incuriosito e così, quando
vinse il dottorato alla Columbia, decise d'istinto di interrompere del
tutto la sua attività artistica, come si fa con gli amori che si
abbandonano. Del tutto in linea con la tradizione analitica, per un
lungo periodo i suoi interessi filosofici sono stati quelli di un
epistemologo che indaga i modi della conoscenza e alcune regioni della
realtà, mantenendo quella distinzione nettissima tra ontologia ed
epistemologia che ritroviamo ancora nel suo ultimo libro.
È in
questo contesto che nascono i lavori di filosofia dell'arte tradotti in
moltissime lingue, anche le più esotiche: l'articolo del 1964, The
Artworld, pubblicato sul Journal of Philosophy, in cui pone la questione
degli indiscernibili applicandola all'arte e, al contempo, elegge le
avanguardie a territorio teorico privilegiato; il suo capolavoro, La
trasfigurazione del banale (1981), in cui pone in maniera estesa la
questione ontologica, tratteggia la distinzione, che non abbandonerà
più, tra estetica e filosofia dell'arte, espone le ragioni del suo
essenzialismo e, infine, elabora le prime idee per quello che, negli
anni successivi, sarà il lavoro fondamentale: la chiarificazione
concettuale della nozione di «opera d'arte» (La destituzione filosofica
dell'arte, 1986, Oltre il Brillo Box, 1992, Dopo la fine dell'arte,
1997, L'abuso della bellezza, 2003, Andy Warhol, 2009). Ne nascono le
due idee che sono il perno della definizione di Danto: l'idea che
l'opera è un oggetto fisico capaci di incorporare significati (embodied
meanings) che sono a proposito di qualcosa (aboutness). Alcuni di questi
significati trovano espressione nel medium che li incorpora, altri lo
trascendono. Ancora una volta è tangibile la presenza di Wittgenstein
che nel, Tractatus, aveva assimilato gli enunciati alle immagini.
Nel
1984 ha inizio la collaborazione con la rivista «The Nation» che
proseguirà per oltre vent'anni. È l'occasione per impegnarsi in maniera
militante nella critica e per applicare, in una quantità di scritti che
rimarranno esemplari, e che sono raccolti nel volume intitolato
Unnatural Wonders (2005), la teoria filosofica alla pratica artistica,
ovvero alla lettura delle opere che transitavano per New York, diventata
nel frattempo la capitale dell'arte contemporanea. La seconda fase
della produzione, quella che si può datare a partire da La destituzione
filosofica dell'arte, segna un avvicinamento alla riflessione di
tradizione europea. Danto, che anni prima era stato un critico severo
delle filosofie della storia (Filosofia analitica della storia, 1965),
riservando alla filosofia lo spazio della critica dei fondamenti del
sapere storico, trova in Hegel la cifra per fondare la sua idea di arte
come concetto chiuso. È il Danto che, a sua volta, si fa filosofo della
storia per descrivere il passaggio dell'arte all'epoca della
post-storia. La storia, quella con la 'S' maiuscola, ci dirà se aveva
ragione. Da qui in avanti per me, e per tutti gli amici che l'hanno
letto, e che con lui hanno discusso di filosofia e di arte, comincia la
fatica di lavorare e di scrivere senza il suo consiglio. Ho pensato a
cosa sarebbero diventate, per me, la filosofia e New York dopo che
Arthur se ne fosse andato. New York probabilmente resterà lo scorcio di
Riverside Park che si vede dalla finestra del suo salotto. La filosofia
ancora non so, ma credo che Arthur mi direbbe «la direzione è quella,
ora poniti le domande giuste».
Nessun commento:
Posta un commento