martedì 5 novembre 2013

Il gusto dei nazisti per l'arte contemporanea


L’arte di Hitler
Da Michelangelo a Boklin, il bello secondo i nazisti


di Siegmund Ginzberg Repubblica 5.11.13

A qualcuno di loro non dispiaceva affatto nemmeno quella che bollavano come “arte degenerata”: dall’“ebreo spagnolo” (sic!) Picasso, e dall’ebreo russo Chagall, alle “mostruosità” di Munch, Max Ernst, Klee e Kokoschka. Qualcosa bruciarono in piazza dopo averli esibiti al ludibrio, la maggior parte li misero da parte, per far cassa o scambiarli con arte più confacente ai gusti ufficiali del Reich nazista.

La cosa curiosa è che i gerarchi nazisti erano tutti collezionisti compulsivi. Di porcate kitsch, di simbolismi grevi, di propaganda insulsa. Ma anche di grande arte. Hitler, si sa, avendo cercato di fare il pittore da giovane, amava farsi passare per grande intenditore di arte. Adorava L’isola dei morti di Böcklin, di cui comprò un esemplare, nel 1933.

Quando la Wermacht occupò Parigi, si fece accompagnare al Louvre e fece un comizio sul genio di Michelangelo Buonarroti, ma nessuno ebbe ovviamente il coraggio di fargli notare che stava commentando un’opera di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio. Goebbels, pare fosse un appassionato di arte moderna. Ma poi fu proprio lui a farsi venire l’idea del linciaggio pubblico dell’“arte degenerata”. Aveva evidentemente cambiato idea, per adeguarsi ai gusti del suo capo, Hitler.
Hermann Göring, il ministro degli Esteri Von Ribbentrop, il capo della Gioventù hitleriana Baldur Von Schirach, persino il capo delle SS Himmler erano tutti collezionisti d’arte accaniti. Facevano a gara ad accaparrarsi cose belle, e soprattutto cose di valore. Era una dimostrazione di status, di prestigio relativo nella nomenclatura, una questione di esibizione del proprio potere. Un po’ come esibire ville o amanti.
Lo sfizio se lo tolsero saccheggiando sistematicamente i musei e le proprietà degli ebrei. Prima in Germania, poi nei Paesi occupati dalle loro truppe. È vero, talvolta, per salvare le apparenze, facevano finta di comprarle. Ma con offerte irrisorie, che i destinatari «non potevano rifiutare». «Doveste decidere di non vendere, sarei costretto a ritirare la mia offerta, e le cose procederebbero per conto loro, senza che io possa fare nulla per impedire il corso degli eventi»: questa la lettera tipo che Göring indirizzava ai collezionisti presi di mira. Ma anche l’accettazione del ricatto spesso non impediva che seguissero arresto e persecuzione. Anzi, l’organizzazione meticolosa delle “acquisizioni” andava, specie all’Est, di pari passo con l’organizzazione scientifica del massacro.
Tra le collezioni più strepitose andrebbe ricordata quella esibita da Adolf Eichman all’hotel Majestic, la sua residenza a Budapest nel 1944. Tra i quadri esposti c’erano dei Velázquez, Goya, Renoir, Brueghel. Tutti quadri espropriati agli ebrei per i quali Eichmann aveva l’incarico di pianificare la “soluzione finale”. Gli portò via anche i capolavori dei “degenerati”. Ma questi finivano agli “specialisti”, perché ne curassero la vendita.
Per la gigantesca rapina furono usati bracci armati, come l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), i commando speciali dell’ideologo dello sterminio di ebrei e slavi, ma anche i servizi di un gran numero di esperti d’arte, come il curatore Hans Posse incaricato di mettere in piedi a Linz il “museo personale” del führer, e di una caterva di altri specialisti, galleristi e mercanti d’arte, in Germania, nel resto d’Europa e, durante la guerra, soprattutto in Svizzera.
Uno di questi “tecnici” di alto livello era appunto Hildebrand Gurlitt. Quello nel cui appartamento a Monaco – poi ereditato dal figlio Cornelius – è stato trovato il tesoro favoloso che si riteneva perduto. Con una nonna ebrea, e per giunta inviso in quanto estimatore dell’arte “degenerata” Gurlitt padre era un collaboratore “improbabile” dei nazisti. Ma forse proprio per questo gli avevano affidato un lavoro sporco: piazzare il maltolto all’estero. Pare che sia stato il ministro della propaganda Goebbels in persona ad avere l’idea di conferirgli l’incarico. Ritenevano evidentemente che avesse i contatti giusti. Deve aver svolto questo compito con grande zelo e soddisfazione dei suoi datori di lavoro se ad un certo punto fu addirittura designato come futuro direttore del museo personale che Hitler voleva aprire a Linz.
L’intenzione era di imitare ciò che Napoleone aveva fatto per il Louvre. L’arte partorita da quelle che Hitler considerava “menti degenerate” non era destinata al museo. Ma Gurlitt si tenne anche gli esecrati Matisse, Marc, Dix, Kirchner. Perché sapeva benissimo quanto valevano. E forse anche perché i suoi gusti erano più raffinati.
La ricettazione avrebbe potuto continuare impunemente se Gurlitt figlio, vendendo di tanto in tanto qualcuna di quelle opere per le proprie spesucce, non si fosse tradito per un reato più banale: la frode fiscale. Ora le autorità tedesche dicono che faranno il possibile per individuare i legittimi proprietari. Ma una approfondita inchiesta condotta qualche mese fa dallo Spiegel indica che la cosa non è così evidente. Documentava per filo e per segno quanto continui ad andare a rilento persino il censimento dei beni rapinati dai nazisti ancora in possesso, non di un ricettatore privato, ma di musei e istituzioni. Per non dire della beffa per cui spesso tornano in possesso degli eredi dei rapinatori, anziché degli eredi dei rapinati.


Tesoro di Hitler ecco i capolavori di Chagall e Dix mai visti prima
Opere completamente ignote di giganti dell’arte emergono tra le 1500 tele trafugate dai nazisti scoperte a Monaco Ci sono Matisse, Courbet e persino un Canaletto. Ma è polemica: perché il ritrovamento è stato tenuto segreto?di Andrea Tarquini Repubblica 6.11.13

BERLINO Ci sono capolavori eccezionali, e in parte finora sconosciuti al mondo, nel “tesoro di Hitler” ritrovato a Monaco nella casa d’un trafficante d’arte figlio d’un complice di Goebbels. Centoventuno quadri incorniciati e 1285 senza cornice, tutti ben conservati. Ma la collezione straordinaria non sarà resa pubblica dalle autorità, che di fatto, finché dureranno le indagini, la confiscano un’altra volta. Guardiamo i massimi capolavori, tra i pochi dipinti illustrati ieri dalla magistratura: ecco i due cavalieri sulla spiaggia di Max Libermann, che sfuggì alle persecuzioni antisemite lasciando la Germania. Ecco la fanciulla con capretta di Gustave Courbet. E ancora, un autoritratto di Otto Dix che si dipinge mentre fuma la pipa, finora sconosciuto. O la donna seduta attribuita a Henri Matisse, o una scena allegorica opera di Marc Chagall, anch’essa finora non catalogata tra le sue opere. Per non parlare di uno schizzo del Canaletto o persino di opere di Dürer. «Tutte opere assolutamente autentiche, lo certifico», ha detto l’esperta d’Arte dottoressa Meike Hoffmann, della Freie Universität di Berlino, aggiungendo: «Vedere un simile tesoro suscita meraviglia, stupore: è una gioia indescrivibile».
Arte confiscata, cioè rubata dai nazisti ai legittimi proprietari ebrei, all’inizio delle persecuzioni che poi portarono alla Shoah. Finita in mano a mercanti senza scrupoli che per conto di Goebbels vendevano quei quadri ovunque nel mondo: il Reich quasi in bancarotta aveva fame di contanti. Arte nascosta per decenni dai figli dei mercanti, e oggi custodita dalla Dogana in un luogo segreto.
L’incredibile vicenda della scoperta del “tesoro di Hitler”, notava ieri mattina la prudente
Frankfurter Allgemeine, acquista sempre più il volto di un evento mostruoso. Non si aspettino, pubblico e critici d’arte del mondo intero, di vedere presto immagini di tutti i capolavori, a parte i pochi, di valore forse inestimabile, magari oltre il miliardo delle prime dichiarazioni ufficiali, mostrati ieri. È stato un susseguirsi di sorprese sconcertanti, una dopo l’altra, la conferenza stampa tenuta ieri ad Augsburg (l’antica Augusta) dal procuratore Reinhard Nemetz. Maappunto il tesoro sarà mostrato solo dopo la fine delle indagini, perché «vale il segreto fiscale in un’indagine di presunta evasione». Il garantismo a protezione d’una famiglia di spacciatori d’arte al servizio prima dei nazisti poi di se stessi sembra far premio su ogni accordo internazionale.
Secondo: il blitz dei doganieri a casa di Cornelius Gurlitt, lo ammettono solo ora, «non fu un caso». Avvenne nel febbraio 2012, perché Gurlitt scoperto a bordo d’un intercity Zurigo-Monaco con 9000 euro in tasca fu subito ritenuto sospetto. Ma in uno Stato di diritto ciò non basta per legittimare una perquisizione. I veri sospetti su Gurlitt nacquero dalla sua vendita all’asta, nell’autunno 2011 presso la casa d’incanto Lemperz, di un quadro, Il domatore di leoni, di Max Beckmann. Inchiesta lenta, perquisizione solo dopo che magari Gurlitt aveva venduto altro ancora. Già, ma il silenzio totale sul caso dal febbraio 2012 a domenica, fino allo scoop diFocus, la dice tristemente lunga sull’idea che élites e magistratura di qui hanno del dovere d’informare l’opinione pubblica mondiale.
Per decenni, dopo la disfatta nazista dell’8 maggio 1945, dice Julia Voss della Frankfurter,mercanti d’arte senza scrupoli come i Gurlitt hanno continuato a vivere di vendite d’arte rubata e di menzogne. Solo adesso decenni di menzogne prima di papà Hildebrand poi sue investono Cornelius. Ma non lo travolgono: «Non c’è pericolo di fuga, quindi non c’è motivo di arrestarlo, c’è solo un’indagine fiscale, ora non ci serve nemmeno sapere dove si trovi». Spaventosamente comodo, un bel colpo di spugna sul passato. Sulla Notte dei Cristalli, sulla Shoah e sull’occupazione di quasi tuttal’Europa oppressa, ma anche derubata dei suoi tesori.
Nemetz e il suo team sono impassibili, qua e là un no comment devia le domande imbarazzanti. Non importa che Gurlitt fosse in possesso non solo di “arte degenerata” bensì anche di opere molto più antiche, da incisioni di Canaletto a quadri di Dürer. Non pesa nemmeno il sospetto che Gurlitt possa aver avuto altri nascondigli, a casa a Salisburgo o dalla sorella in Svizzera. «Non abbiamo finora ritenuto di contattare le autorità austriache ed elvetiche», ha precisato il procuratore.




Saccheggi ad arte. Gli altri tesori dei nazi
Oltre a quello di Monaco, il più prezioso è la collezione del Reichsmarschall Ermann Göring passò la guerra più ad arraffare capolavori che a combattere Nonostante fossero stati bollati come «degenerati» Göbbels fece incetta di quadri e dipinti preziosidi Enzo Verrengia l’Unità 9.11.13

ARTE DEGENERATA, IN TEDESCO «ENTARTETE KUNST»: ERANO LE PAROLE DI JOSEPH GÖBBELS, il Ministro della Propaganda nel Terzo Reich, per definire tutto quanto negli anni fra le due guerre faceva avanzare la pittura e il resto della creatività verso le forme più avanzate di espressione. E così venne intitolata la celebre esposizione a Monaco nel 1937, nella quale si additavano al pubblico ludibrio e disprezzo del popolo nazista le opere da NON imitare.
Adesso, per l’ennesima ironia della Storia, è proprio nella città-simbolo della svastica che sono stati rinvenuti oltre 1500 capolavori pittorici dietro una parete dell’abitazione di Cornelius Gurlitt, figlio del gallerista Hildebrand Gurlitt nel sobborgo di Schwabing. Accatastati fra l’immondizia, giacevano quadri di Pablo Picasso, di Renoir, di Henri Matisse e addirittura un dipinto sconosciuto di Marc Chagall.
Non è propriamente il tesoro di Hitler, pure costituisce un patrimonio. Perché se Göbbels ragliava contro l’arte degenerata, questo non ne impedì il saccheggio nei territori occupati. Hitler aveva due consulenti, i professori Hans Posse e Karl Haberstock, che dovevano decidere le sorti dei beni confiscati.
Parte non secondaria spettò alla Reichsbank. Un decreto del 1939 la pose sotto il controllo di Hitler, che ne sostituì il presidente e plenipotenziario per l’economia Hjalmar Horace Greely Schacht, banchiere della vecchia scuola, col fedelissimo dottor Walther Funk. Sotto di lui, la Reichsbank assolvette a tre compiti. Quello di un normale istituto di credito statale, arbitro dell’andamento valutario interno, l’amministrazione dei risparmi privati, deposito dei bottini di guerra. Il terzo ruolo fu il più ambiguo. Nella sede centrale di Berlino della banca e in alcune sedi periferiche confluirono infatti i frutti delle razzie compiute dalla Wehrmacht e dalle Waffen SS nell’Europa conquistata: valute estere, preziosi e opere d’arte.
Quanto alla Reichsbank, malgrado i bombardamenti a tappeto su Berlino ed il trasferimento di una cospicua porzione dei suoi depositi nelle miniere di Kaiseroda, dove furono recuperate dalle truppe del Generale Patton, custodiva ancora ingenti fortune nelle sue sedi della Germania centrale e meridionale, nella sottile striscia di territorio tedesco ancora scampato all’incedere degli alleati a ovest e dei russi a est. Il colonnello Friedrich Josef Rauch, del servizio di sicurezza personale di Hitler, ebbe l’idea di portare ciò che restava del tesoro nazista nella cosiddetta Alpenfestung, la fortezza alpina, o ridotto nazionale del Sud, destinato ad accogliere i vertici del partito in fuga dalla Capitale, compreso il Führer, per ingaggiare una sanguinosa e infinita resistenza. Si trattava di un’area ai confini tra la Baviera e l’Austria, dove si trovava fra l’altro anche l’Obersalzberg, sede del Berghof, il rifugio montano di Hitler. Quest’ultimo approvò il piano di Rauch. Il tesoro giunse così a Mittenwald, non lontano dalla splendida località sciistica di Garmisch-Partenkirken, risparmiata dalla guerra, dove si erano rifugiati il Kaiser ed esponenti del governo Vichy. Rauch affidò il carico al fido e leale colonnello Franz Wilhelm Pfeiffer, eroe del reggimento Brandeburgo e direttore di una locale scuola di addestramento per alpini. L’ufficiale trattenne per qualche tempo il tesoro della Reichsbank in una baita di montagna, l’Einsiedl o rifugio solitario. Quindi ordinò ai suoi uomini di seppellirlo sulle pendici dello Steinriegel e del Klasenkopf.
Di questo bottino si registrarono due recuperi effettuati dagli americani. Ma in ambedue i casi, risultavano ammanchi. E qui le tracce del tesoro si perdono nei meandri occulti dai servizi segreti occidentali.
Il più favoloso dei tesori nazisti è la collezione d’arte del Reichsmarschall Hermann Göring. Il responsabile della Luftwaffe, l’aeronautica militare nazista, a capo del piano economico quadriennale, passò la guerra più a comprare e ad arraffare capolavori che non a combattere.
Il suo mausoleo era la residenza che si era fatta costruire nel 1933 allo Schorfheide, nella marca del Brandeburgo, chiamata Carinhall in memoria della contessa Carin von Fock, prima moglie di Göring. Qui il maresciallo accumulò un patrimonio artistico che nel 1944 egli stesso valutava intorno ai cinquanta milioni di marchi. Molte le opere acquistate legalmente e a prezzi spesso superiori al loro valore. Per esempio Venere e Adone di Rubens «pagato un occhio» a un antiquario parigino. Oppure la partita di quadri Goudstikker, che al contrario si risolse in un affare vantaggioso per Göring. Erano all’incirca 1300 opere, alcune di Paul Gauguin, di Cranach e del Tintoretto, vendute con l’intermediazione del mercante bavarese Alois Miedl, sposato con un’ebrea. Il che non gli impedì di avere ottimi rapporti con il Reichsmarschall. Parte dei quadri andarono al Führer, per il palazzo di Monaco.
Göring in Francia veniva informato per primo dall’amico Harold Turner, prefetto civile dell’occupazione a Parigi. Una fedele segretaria, Fraülein Gisela Limberger, compilava inventari delle opere e della loro ubicazione. A fargli da consulente, il maresciallo aveva nominato lo storico d’arte Bruno Lohse, esentandolo dal servizio nell’aeronatica. Con una dotazione di mezzi e denaro liquido la sua forma preferita di pagamento Göring, dimentico dello smacco subito dalla RAF durante la battaglia d’Inghilterra, partiva per quelle che lui stesso definiva “spedizioni di acquisto”.
Riuscì così ad accaparrarsi il ricercatissimo dipinto L’uomo dal cappello, di Jan Vermeer van Deft, quadri di Henri Matisse, di Amedeo Modigliani, di Pierre-Auguste Renoir e di Antoine Watteau. L’inglese Don Wilkinson nel 1941 donò al maresciallo un costosissimo ritratto di Juliana von Stolberg, madre di Guglielmo d’Orange, per ringraziare Göring di avergli salvato la moglie dal lager.
Paradossalmente, molti dei tesori del Reichsmarschall vennero restituiti dopo la guerra ai proprietari, senza che però questi rimborsassero le somme incassate.



La doppia vita di Gurlitt il collezionista di Hitler
Era ebreo l’esperto che custodiva il tesoro trafugato dai nazisti
di Carlo Antonio Biscotto il Fatto 14.11.13

Il ritrovamento di oltre 1400 opere d’arte, la maggior parte delle quali trafugate dai nazisti, in uno squallido appartamento di Monaco è emblematico delle grandi tragedie del 20° secolo. Non appena la procura di Augusta su un sito ha pubblicato le immagini di una parte dei dipinti confiscati al collezionista Cornelius Gurlitt, sono state migliaia le persone che lo hanno visitato, a dimostrare l’interesse per un argomento così controverso e intrigante. Tra le opere, il capolavoro impressionista di Max Liebermann, “Due cavalieri sulla spiaggia”, dipinto nel 1901 e trafugato dai nazisti in una raffineria di zucchero a Wroclaw, Polonia, che due avvocati berlinesi cercavano da cinque anni.
LOTHAR FREMY e Jorg Rosbach sono specializzati nel recupero di opere d’arte rubate. I loro clienti sono due fratelli, di 88 e 92 anni, che vivono a Londra e New York e il cui prozio era proprietario della raffineria di Wroclaw e del dipinto. Gli avvocati sono venuti a conoscenza del ritrovamento dalla conferenza stampa trasmessa dalla televisione tedesca.
Misteriosa resta la figura del 75enne Cornelius Gurlitt, proprietario dell’appartamento nel quale si trovavano le opere che gli erano state lasciate in eredità dal padre Hildebrand, famoso storico dell’arte. L’opera di Liebermann era finita nella galleria di Hildebrand Gurlitt e poi acquistata da un appassionato d’arte ebreo di Wroclaw, un certo Friedmann, che aveva una discreta collezione. Nel 1942, alla sua morte, tutti i suoi averi furono messi all’asta e i proventi finirono nelle casse del governo nazista. La figlia Charlotte morì in un campo di sterminio nel 1943. Oggi a rivendicare il dipinto sono rimasti gli anziani pronipoti e i loro figli.
Ma come mai Hildebrand Gurlitt, pur avendo in parte sangue ebreo, possedeva così tante opere d’arte? Perché era uno specialista di avanguardie tedesche e quei capolavori, pur considerati dai nazisti “arte degenerata” senza alcun valore artistico, potevano essere venduti per contribuire al riarmo della Germania. Infatti nel luglio 1937 i nazisti avevano incaricato Gurlitt e altri famosi galleristi di organizzare una mostra a Berlino dal titolo “Arte degenerata”. La mostra fu visitata da oltre due milioni di persone e lo scopo, non dichiarato, era quello di vendere i dipinti all’estero per “fare cassa”. Gurlitt aveva clienti e potenziali compratori a Basilea e a New York. Ma se da un lato Gurlitt contribuì a salvare dalla distruzione capolavori delle avanguardie pittoriche tedesche, dall’altro fu uno dei mercanti e storici dell’arte incaricati di requisire e acquistare dipinti in tutta Europa per realizzare uno dei sogni di Hitler: un grande museo a Linz. Hildebrand Gurlitt continuò a far arrivare in Germania centinaia di opere d’arte fin quasi alla fine della guerra. L’ultimo dipinto, una “Madonna con bambino tra gli angeli”, di scuola italiana, giunse a Dresda il 6 settembre 1944. Naturalmente per ogni dipinto gli spettava una commissione del 5%.
NELLA NOTTE tra il 14 e il 15 febbraio 1945 gli Alleati rasero al suolo l’edificio che ospitava la collezione di Gurlitt a Dresda, questi riuscì a salvare molti dipinti che stipò in 25 casse che avventurosamente trasportò in Baviera e nascose in un castello che cadde nelle mani degli Alleati. Dopo la guerra Gurlitt fu messo agli arresti domiciliari. Si dichiarò sempre innocente e ribadì più volte con fermezza di non essere mai stato un simpatizzante nazista. Gli Alleati non si fidavano di lui, ma Gurlitt collaborò, restituì alcune opere d’arte e compilò un elenco di opere acquistate in Francia durante la guerra. Alla fine Gurlitt fu rimesso in libertà e gli furono riconsegnate gran parte delle opere d’arte in un primo tempo confiscate. La figlia di Gurlitt, Benita, storica dell’arte nata nel 1935 e morta l’anno scorso, nel 2002 scriveva a un collega di Amburgo: “Quando mio padre ha fatto affari con il Terzo Reich ha sempre cercato di usare la sua influenza per salvare molti capolavori dalla distruzione nascondendoli in luoghi sicuri”. La realtà è che Hildebrand Gurlitt condusse una doppia vita, come testimoniato dopo la guerra da numerosi suoi collaboratori tra cui l’ex segretaria. Proprio per questo appare quasi inverosimile la leggerezza con la quale gli americani decisero non solo di rimetterlo in libertà, ma di restituirgli quasi tutte le 1400 opere d’arte che non gli appartenevano. Alla sua morte il tesoro passò al figlio Cornelius, sedicente pittore che viveva tra Monaco e la Svizzera. E fu proprio durante un viaggio in treno da Zurigo a Monaco che, fermato alla dogana con 12.000 dollari in tasca, disse che aveva venduto un dipinto a un gallerista di Berna. Era una menzogna. Da lì è partita l’indagine che ha portato al ritrovamento del tesoro.

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