mercoledì 13 novembre 2013

Il libro di Franca D'Agostini contro il Nuovo realismo



Realismo? Una questione non controversaInsomma, sia nell'ermeneutica, sia nel Nuovo realismo, sia nella critica del Nuovo realismo la realtà del lavoro e della produzione sembra svanita [SGA].

Franca D’Agostini: Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri

Risvolto
Che cosa è il realismo? Che cosa intende dire chi si dichiara "realista" e a chi esattamente si contrappone? Siamo o dobbiamo essere davvero, in filosofia, nell'arte, in politica, più "realisti" di un tempo? In un rapido percorso nei dibattiti recenti sul tema, dal postmodernismo a oggi, Franca D'Agostini risponde con risolutezza e chiarezza a queste domande, smontando un certo numero di luoghi comuni, tanto diffusi quanto infondati. La prima parte del libro è un breve pamphlet destinato a difendere il realismo dalla confusione e dalla banalità a cui lo condannano molti suoi presunti estimatori. La seconda parte ricostruisce i dibattiti più interessanti, presenta alcuni realismi "realmente nuovi" di cui si parla poco o nulla in Italia. Associando alla perizia discussiva una profonda conoscenza del pensiero contemporaneo, D'Agostini ci ricorda che l'antirealismo non è mai esistito in filosofia: i fatti sono sempre stati, hegelianamente, "il vivente pane della ragione". 

Franca D’Agostini, Il rasoio di Occam, 13 novembre, 2013 
(anche su La Stampa con il titolo: Nuovo realismo nella zuppiera)


Quando apparve il fenomeno mass-mediatico e editoriale dei nouveaux philosophes (si era all’incirca nel 1978), chiesero a Gilles Deleuze: «che cosa pensi dei nuovi filosofi?», e il filosofo francese, maestro dei «maestri di Parigi», rispose: «niente». 
In effetti, era difficile dire che cosa ci fosse propriamente «da pensare» nell’operazione di Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann e altri. Non si trattava di filosofia, ma di una minestra molto riscaldata di tesi diventate quasi ovvie (per esempio l’affinità tra i totalitarismi del Novecento), rovesciata nella zuppiera della casa editrice per cui Lévy lavorava, e di vari giornali e televisioni, e offerta da personaggi in camicia bianca e capelli scompigliati ad arte, a una cena i cui invitati erano per lo più politici di sinistra preoccupati del declino del comunismo, o con amicizie per la destra. 
Qualcosa di simile sta succedendo, mi sembra, con il «nuovo realismo», il «movimento filosofico» di cui si insiste a dare notizia da circa due anni, su Repubblica (l’ultimo annuncio è del 25/10) e in vari altri luoghi. Ma in modo più triste e confuso. Anzitutto perché nel caso dei nouveaux philosophes era la prima volta che veniva promosso, come si disse, il «supermarket filosofico», ossia il vero e conclamato ingresso della filosofia nel territorio fangoso dei media e della comunicazione di massa. Dunque almeno la forma del fenomeno (la zuppiera, per così dire) era nuova. Poi perché Glucksmann, Lévy e soci si avvalevano (pur non riconoscendolo) di un vero movimento di idee nuove che si era prodotto in Francia tra la metà degli anni 60 e la metà dei 70, il cosiddetto post-strutturalismo. Invece il nuovo realismo tenta di trasformare in movimento lo sfondo tutt’altro che movimentista della filosofia contemporanea. Perché da tempo in ciò che chiamiamo «filosofia» non c’è più (e per fortuna, io credo) lo strife of systems, la lotta dei sistemi. 
In generale, non c’è mai male nel far circolare parvenze di idee filosofiche, o anche solo i nomi filosofici tradizionali, come «realtà», «verità« o anche «filosofia». Però c’è sempre un rischio, che non va sottovalutato, ed è il rischio che il risultato ultimo della procedura sia un annientamento dei contenuti sostanziali che la procedura stessa nominalmente promuove. 
Più semplicemente: ciò che ne fa le spese, nel «nuovo realismo», è secondo me precisamente il nuovo realismo, vale a dire: la nuova consapevolezza collettiva che sta affiorando nella vita pubblica circa i concetti di verità e realtà - e affiora per ragioni molto semplici, di cui molti hanno parlato (io stessa): per l’avanzare mondiale della democrazia. E ovviamente ne fanno le spese anche le novità importanti che la filosofia recente ha prodotto proprio riguardo ai «super-concetti« di realtà e verità. 
Esattamente nello stesso modo, la nouvelle philosophie azzerò e rese stupida quell’ipotesi di nuova filosofia (nuovo marxismo, nuova sinistra) che si stava annunciando in quegli anni. 
È il fenomeno che chiamo stultificazione, dal verbo inglese to stultify, che significa contraddire, annientare dal punto di vista intellettuale, ma anche rendere irrilevante, stupido. Ed è un fenomeno abbastanza frequente, quando avviene il contatto tra la filosofia e i media. Tale contatto non sempre ha esiti stultificanti, quando però si presenta come movimento qualcosa che non si muove affatto il disastro è assicurato. 
Avviene allora che niente di nuovo, niente di realistico, e soprattutto niente di filosofico venga presentato con grande clamore come espressione di un nuovo realismo filosofico, ed è quanto accade di fatto con il new realism descritto e propagato da Maurizio Ferraris. 
Se cercate in effetti che cosa realmente dicano i nuovi realisti di nuovo e di realistico, la risposta di Deleuze è inevitabile: non trovate niente. I due più «movimentisti» del gruppo sono il tedesco Markus Gabriel e ovviamente Ferraris. Il primo è molto giovane, ed è stato ingaggiato in un’impresa da cui era meglio dispensarlo. Il secondo sta da tempo presentando come filosofia una produzione di stile tipicamente postmoderno, fatta di tesi piuttosto vaghe e oscillanti (scienza no, scienza sì, verità no, ma anche sì, documenti ovunque ma non proprio ovunque, testualismo sì, ma debole, costruzionismo sì, ma solo in parte, ermeneutica no, però anche sì…), e, quando non vaghe e oscillanti, polemicamente rivolte contro un antirealismo metafisico (effettiva scomparsa dei fatti, annientati dalle interpretazioni) che nessuno ha mai seriamente sostenuto, o che ripetono l’antica polemica di Sokal e Brickmont contro il postmodernismo. 
Gli altri sono vecchi filosofi che non hanno più molto da dire, come Hilary Putnam o John Searle, e i cui «realismi» (ma discuterei l’uso di questa espressione a loro riguardo) non hanno nulla ma proprio nulla a che fare con i realismi realmente nuovi di cui oggi possiamo parlare. Oppure sono persone che non hanno alcuna vera competenza sul tema del realismo, perché non si occupano di metafisica, ma di tutt’altro (filosofia del linguaggio, architettura, letteratura ecc.). Un autore nuovo-realista che sembra avere le idee chiare è Mario De Caro. Se però leggete quel che De Caro scrive (per esempio nel suo intervento in Bentornata realtà, il libro da lui curato con Ferraris: Einaudi, 2012), scoprite con sorpresa che non si dichiara affatto realista, e sembra nutrire anche qualche dubbio sulla stessa locuzione, di per sé considerata. 
È mai possibile che il gran clamore suscitato da Ferraris corrisponda davvero a questa esiguità e vaghezza di contenuti? Sì è possibile. Perché ci sono altre due differenze da considerare tra i nouveaux philosophes e i nuovi realisti.
La prima è che la nouvelle philosophie emergeva in un’epoca in cui c’era uno sfondo autentico di filosofia pubblica, entro il quale i «nuovi filosofi« si rivelavano abbastanza chiaramente per quel che erano. Tanto è vero che la «novità» di Lévy e soci fu presto sopraffatta dall’emergere ben più potente e devastante del postmodernismo (creatura principalmente americana). Invece il nuovo realismo si affaccia in un’epoca in cui non c’è niente di tutto questo. Dunque è abbastanza naturale che la stultificazione nuovorealista e la simulazione di movimento che essa produce operino con efficacia, avanzando nel vuoto, e non trovando reali antagonisti. 
La seconda è che i nuoveaux philosophes erano francesi, e i nuovorealisti sono (principalmente) italiani. Il che vuol dire molto. Vuol dire, per esempio, che il nuovo realismo di Ferraris è piombato in una comunità scientifica particolarmente dissestata da povertà di mezzi e corruzione, e dai frutti naturali dell’una e dell’altra: il declino inevitabile della qualità intellettuale e morale. 
Oggi molti contrastano questo andamento nazionale, e la generazione degli studiosi più brillanti e onesti non si trova solo all’estero: anche nell’università italiana ne incontriamo molti. Ma proprio qui incomincia il rischio: che il «movimento» di costoro (che ovviamente non è filosofico, né ideologico, e meno che mai metafisico ma semplicemente politico-morale) risulti stultificato e annullato da qualcosa che gli assomiglia, ma non è affatto la stessa cosa.

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